Introduzione a Peón di Rojo (GPM 046)
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Rivista della Montagna, gennaio 1976)
Lettura: spessore-weight****, impegno-effort***, disimpegno-entertainment***
“Preferirei costruire impugnature per armoniche piuttosto che discutere di antropologia azteca, letteratura inglese, o storia delle nazioni unite… non vorrei essere Bach, Mozart, Tolstoy, Joe Hill, Gertrude Stein o James Dean… sono tutti morti, i grandi libri sono stati scritti, i grandi detti sono stati pronunciati! Voglio solo mostrarvi un’immagine di quello che succede qui qualche volta, anche se io stesso non capisco bene che cosa stia succedendo… le mie poesie sono scritte in un ritmo di distorsione non poetica, divise da orecchie forate, finte ciglia, sottratte da gente che costantemente si tortura a vicenda… una canzone è qualcosa che può camminare da sola, una poesia è un uomo nudo… qualcuno dice che io sono un poeta (Bob Dylan, liner notes al suo album Bringing It All Back Home, 1965)”
Lo scritto che vogliamo presentare ai lettori, si ricollega all’esame che sulle pagine della Rivista della Montagna fu fatto in merito all’alpinismo californiano. L’autore di questo articolo è Lito Tejada-Flores, alpinista di rara bravura, abitante in California, a San Francisco, di origine sud-americana. Come scrittore di certo non è da meno.
Il peón di Rojo
Ai lettori più accorti il suo nome non giungerà nuovo. E’ stato il regista di Fitz Roy, il film che documentava la spedizione americana che tracciò una nuova via di salita su questa superba montagna. Del film vorrei solo ricordare lo splendido realismo spoglio di ogni retorica eroica, il dialogo umano e serrato, i lunghi monologhi con se stessi nelle attese interminabili in piccole tende squassate dal vento o nelle irreali grotte di ghiaccio. Tutto un mondo patagonico, fatto di incredibili contrasti, che ritroviamo in questo scritto di Lito Tejada-Flores. Chi in queste righe vuole trovare un filone logico e un addentellato con la realtà, è evidentemente fuori strada. Potrebbe essere il racconto di una spedizione, i nomi hanno d’altronde un riscontro con la realtà (Nestor Monaco è un forte scalatore argentino), ma allo stesso modo il racconto allegorico riporta alla tragica vicenda di Cesare Maestri e di Toni Egger sul Torre o ancora alle stesse drammatiche ore vissute dallo stesso Flores sul Fitz Roy durante la ritirata nella bufera.
Ma i repentini cambiamenti di luogo e di tempo, il linguaggio simbolico che si presta a numerose interpretazioni, il delirante colloquio con se stesso, dove l’ego si frantuma e la parte istintuale può fluire nelle sue iperboli, fanno sì che questo scritto desti un interesse decisamente particolare, che va ben al di là di un motivo prettamente alpinistico. Emergono le eccezionali doti di scrittore del Flores, che bene si esplicano nella sua capacità di portare davanti ai nostri occhi il paesaggio patagonico, dove i contrasti più esasperati sembrano a volte incontrare una sintesi. Cerchino quindi i lettori di comprendere le grosse
difficoltà che ho incontrato nel tradurre lo scritto, soprattutto dove la nuda efficacia della lingua inglese urta con lo sfarzo e la ricchezza di vocaboli dell’italiano. I lettori più interessati potranno confrontare il testo originale inglese, dal titolo Rojo’s peón, apparso su Ascent (Rivista dello Sierra Club – San Francisco) nell’anno 1971.
Chi poi avesse l’occasione di vedere il film Fitz Roy non se lo lasci sfuggire. Davanti alle immagini potrà comprendere il filo di Arianna che lega tutto l’articolo, dove il ricordo, il sogno e il delirio si intrecciano in immagini che affiorano senza alcun legame di tempo e di luogo, per svanire nel nulla, distrutte da un vento patagonico che le avvolge in un turbine bianco, osservate dalla mitica figura del vecchio «peón» a cavallo, che immobile e statuario sembra vivere nelle «pampas» al di fuori del tempo.
La traduzione italiana del film (e il mio carissimo amico Aurelio Garobbio non si arrabbi) ha una piccola lacuna nel rendere efficacemente il monologo durante le lunghe attese nelle tende. D’altronde i numerosissimi termini in «slang» e un linguaggio piuttosto psichedelico, sono assai difficili da rendere efficacemente in italiano e soprattutto da rendere comprensibili a un pubblico non necessariamente aggiornato su questi temi.
Il peón di Rojo
di Lito Tejada-Flores
(pubblicato su Ascent n. 5/1971)
traduzione di Gian Piero Motti
Il peón di Rojo, triste e silenzioso, se ne sta sul suo grande cavallo grigio, sotto un cielo cupo e imbronciato. C’è aria di pioggia e c’è vento, sempre vento e quel monotono vagabondare per ispezionare le staccionate che si distendono fin sotto la collina, sul silenzioso cavallo, fino alla solitaria capanna là in basso. Il peón di Rojo con gli occhi stanchi e grinzosi guarda attraverso montagne di nubi. Altri monti sono nascosti tra quelle immense masse di nubi nerastre. Qui nessuno conosce il suo vero nome, eccetto forse Rojo o il padre di Rojo, il suo padrone. Neppure il contabile di Rojo che ogni due mesi gli paga 10.000 pesos, quando lui ritorna all’estancia per prendere rifornimenti necessari al suo puesto. Una volta gli operai di Rojo lo chiamavano el Chilote, ed è un po’ come dire quello sporco cileno, ma questo finì quando un giorno lui tagliò la faccia a uno di loro con un colpo di scudiscio e se ne andò a cavallo senza dire una parola. Ma anche questo fu dimenticato.
Il peón di Rojo è troppo vecchio per combattere contro le calunnie e i ricordi. Ora può riparare le staccionate dei recinti, cavalcare il suo gigantesco cavallo, adunare le pecore per impedire che nel loro vagabondare salgano troppo in alto verso le montagne. Gli anni e il vento hanno scavato il suo volto. Cosas patagónicas, cose che succedono in Patagonia. Gli anni e le tempeste, estate, inverno, la piccola capanna che non muta mai, il vento che spazza le vette dei monti come la scopa di Dio… el viento blanco, el viento azul… il vento bianco, il vento blu, questo feroce paese a sud delle pampas, ai piedi di queste crudeli e terribili montagne… E ora lassù… quei due gringos di Buenos Aires…
Immobile sul suo statuario cavallo, il peón di Rojo stringe i suoi occhi grinzosi e cerca di scorgere montagne invisibili tra gigantesche nubi rigonfie di tempesta: el Fitz, la Torre, il Torre con il suo candido castello di ghiaccio, lassù oltre il passo. Ma è una pazzia andare lassù, troppo ghiaccio, troppa pietra. Anche noi quando eravamo ragazzi salimmo verso le montagne, ma le colline erano dorate e ardevano vicino alle coste del mare. Salivamo con il sole che ci riscaldava le spalle e il mare là, sotto di noi, blu come gli occhi del mio cavallo, lastra di vetro luccicante, le linde pareti delle case e i tetti di lamiera sparsi qua e là lungo il porto. E la mia casa, la terza capanna sotto il piccolo calleion, fronteggiata da tante piccole cassette di legno giunte dal Giappone e quella meravigliosa pianta messa sulla porta… i suoi fiori bianchi, quei piccoli fiori bianchi che sapevano crescere in quella latta d’olio Esso colorata di blu… Ma dove trovai quel piccoli fiori su quelle colline così aride e bruciate? Devociones de ma juventud… lontani ricordi della mia giovinezza… e ora passo la mia vita solamente sul dorso del mio cavallo… tra poco comincerà a piovere. E ora, oggi, dov’è il Cile? Al di là delle montagne, troppo mare e troppo ghiaccio per poterlo raggiungere, penso. Solo e perduto come un antico e solitario guerriero, sono un vecchio che sul suo cavallo osserva la bufera inasprirsi sempre più… tutti i giorni, dovunque, ci sono delle tempeste, cosas patagónicas…
Ma perché il vecchio si è rifiutato di guidare i nostri cavalli fin lassù al Campo Base? Certamente egli deve sapere dove passa il sentiero, el sendero. E questo ci è costato un giorno intero di ricerche sotto la pioggia. Ma dicono che ha lavorato per Rojo trenta o quarant’anni, o forse per suo padre, certamente quello è un uomo di Rojo. E’ il peón di Rojo, quello stupido vecchio che se ne sta sul suo cavallo come se fosse sordo e muto e Nestor parla con lui così pacatamente, non proprio come quando ritorna a casa a Buenos Aires o in qualsiasi altro luogo. E ora è salito lassù da una settimana, Nestor, con quel tedesco… e la tempesta è così furiosa, ed è così duro starsene immobili senza poter fare niente…
Il vento spezza un altro ramo rinsecchito di un altro albero e il ramo cade sul terreno umido e bagnato davanti alle due tende arancioni. Il piccolo campo posto al limitare della foresta, cinque o sei miglia lontano dalle erbose colline dove il peón di Rojo siede sul suo cavallo nella pioggia. Il piccolo campo sorge proprio sotto la Cordillera, così vicino alla morena del ghiacciaio che serpeggia lassù verso alte torri di pietra… quel cerro… quell’altra montagna… el monte… e più in alto di tutte le vette, el Torre, il Torre… Ma perché mai siamo venuti? Stavamo così bene a Buenos Aires, eravamo così felici… Ora lei sta piangendo nella sua piccola capanna di tronchi d’albero caduti, rappezzata con pezzi di plastica. Fuori ancora una volta il fuoco si è spento, ma Julia non se ne cura. Invano Julia sta cercando di mantenerlo acceso da due o tre giorni, la bufera di certo sta diventando sempre più crudele e furiosa. Ma Julia è solo una ragazza di città, una studentessa di Spagnolo all’Università di Vassar, è qui per studiare i romanzieri gaucheschi (1), Zavala Muniz, Benito Lynch… Ma trascorrere un anno in Sud America è una cosa, un’altra cosa è salire fin quassù in questo posto orribile. E il matrimonio il prossimo mese?…
I miei genitori stanno volando lungo il quindicesimo meridiano e Nestor disse che… E poi mi promise che avremmo trascorso un mese con la sua famiglia, là, nel ranch delle Missiones… Non ci sono molte montagne là, non è vero?… Ma Nestor è così ricco, perché mai deve andare in montagna?… Troppe lacrime, troppo vento che squassa gli alberi, troppa pioggia.
Il mucchio di legna che Julia ha accatastato con tanta fatica, ormai è completamente distrutto. L’intera foresta non è che un mondo irreale avvolto nel blu. E pensare che soltanto una settimana fa, in una schiarita luminosa, potevamo vedere il Torre e tutti i suoi incredibili satelliti di pietra… ora non vi è che un enorme ventre rigonfio di nubi tetre e nere che avvolgono la terra… Sì, quasi una settimana fa. E Nestor ha speso l’intero pomeriggio di quel primo giorno dando la caccia a un agnello sperduto che vagava in quel lontano cañon. Avrei voluto vederlo mentre lo uccideva, invece lo aiutai a preparare il barbecue, un normalissimo asado, proprio come una banda di gauchos dei vecchi tempi… ma essi cosa avrebbero mai fatto quassù? Certamente hanno più buon senso di noi. E scommetto anche che quel vecchio in trent’anni non è mai salito fin quassù… Ah, se riuscissi di più a controllare la mia natura!… Domenica pomeriggio a Palermo (2), in mezzo a tutti quei fiori e Nestor era così carino ed adorabile, come solo qualche volta gli succede e mi diceva quanto io fossi più graziosa di tutte quelle ragazze argentine che ci passavano accanto, tutte quelle coppiette così felici sotto quel sole splendente, così sicure… e poi le vedi tornare in città per cenare in uno dì quei caratteristici snack bar all’aperto, tutti messi in fila lungo il fiume… Ma quanta gioia di vivere, che primavera in una città come quella…! Come avrei potuto resistere? … E Nestor, Nestor così perfetto, così splendido, quasi un simbolo, così alto e scuro, così affascinante… Ed io, così meravigliosamente turbata e sorpresa quando all’improvviso lui mi propose… e ora… oh, mio Dio, speriamo solo che tutto vada bene… Questa furiosa tempesta, crudele… questo…
Veramente una tempesta terribile, come tutte le tempeste della Patagonia, che si inaspriscono sempre più a mano a mano che si sale dalle pampas, dove il peón di Rojo se ne sta triste e immobile sul suo cavallo, sotto la pioggia che si infittisce sempre più. Lassù, nel cuore della foresta e più lontano ancora, due tende scosse dal vento e una ragazza bionda che sta piangendo adagio… dove violenti scrosci di pioggia riescono a lacerare il nero manto di nubi, attraverso rami di alberi tristi e blu. Lassù contro il ghiacciaio, dove milioni di fiocchi di neve cercano disperatamente di cadere solo per essere spazzati e travolti in un turbine di vento e poi scaraventati ancora più in alto, per poi ancora tentare di ricadere.
Un’impetuosa e feroce tempesta patagonica che galoppa sulle immense distese ghiacciate del Hielo Continental, l’estrema landa ghiacciata del continente, sospinta da una bufera antartica, una delle mille cose della Patagonia, cosas patagónicas, che trasformano gli uomini in filosofi o li conducono alla morte.
In Patagonia il vento è il signore di tutte le cose. Il vento che diventa visibile quando all’improvviso squarcia il cielo cupo e disperde brandelli di nubi in ogni direzione, sconvolgendo, agitando, ammassando, per poi abbattersi urlando da ovest a est, trascinando vortici di neve e di gelo. Vento dell’ovest, vento di nord-ovest, vento di sud-ovest, tutti i venti dell’ovest che soffiano dall’inferno. Il vento qui è il signore di tutte le cose, anche di questa nuda catena di torri di pietra, e la più nuda e più alta di tutte, il Torre. Ma come siamo stati pazzi a pensare che sarebbe stato nostro anche per un solo giorno… e avevamo bisogno di almeno una settimana di bel tempo.
Una risata isterica sembra scuotere il suo corpo ghiacciato e si perde nel vento… Ora si appende ancora una volta alla corda che sembra discendere dalle nubi per scomparire più in basso in un turbine bianco, poi si ripiega su se stesso e appoggia la fronte sulla roccia incrostata di ghiaccio. Con gli occhi serrati, semiaccecato, cerca di scendere… i suoi baffi sono stati strappati dal ghiaccio, ma quando?… questa mattina?, ieri?… Ora apre gli occhi, ma non vede nulla, solo un nauseante biancore uniforme che si agita intorno a lui. Ancora si appende alla corda, stropiccia le mani nei guanti fradici, grida: «Okay, Hansli, sono arrivato… du kanst hinunter kom… Va tutto bene? Cos’è che non va?»… Ma perché continuo a chiamarlo? Certamente Hans non può sentirmi, Hans è morto. Perché continuo a dimenticare che è morto? Forse le mie condizioni sono peggiori di quanto io possa immaginare… Quei due chiodi strappati via come se fossero un niente, hai solo potuto guardare… E pensare che aveva metà dei nostri chiodi e tutte le corde migliori, quel bastardo!… E gli altri pensano che io possa scendere di qui da solo, altre migliaia di metri… oh…
Ma Nestor è troppo assiderato per poter ridere e la risata si trasforma in un tremore isterico che scuote il suo corpo in ogni più piccola giuntura. Ora deve afferrarsi ancor più saldo alla corda, avvolto nella bianca vertigine della tormenta. Piccole slavine lo ricoprono. La sua rossa cagoule, come il manto di un prete, è strappata, fradicia e ghiacciata.
Nestor è così assiderato, così sfinito e ora ci sono molte cose che non riesce più a comprendere. Egli ora giace come al centro perfetto di una lunga serie di eventi che sembrano sfilargli dinnanzi… al di là della bufera, al di là del Torre al di là… ma gli orizzonti, l’inizio, la fine ora gli sfuggono, restano come confusi in questo bianco turbine di gelo. La lettera giunta da Monaco tre mesi fa, piena di quel travolgente entusiasmo di Hans: noi due, tu che conosci così bene queste montagne, tu che arrampichi così sicuro e veloce, tu che superi ogni difficoltà, tu così tenace e carico di grinta… come possiamo perdere?, dimmi, come possiamo perdere? Ed è ciò che hai sempre sostenuto di fronte a qualsiasi obiezione… La famiglia di Julia del New England, era contraria? Finirono poi per accettare la situazione, non è vero? I bambini? Ma dimmi, come possiamo perdere, tu così scuro e io così biondo! Questa neve maledetta! Non riesco neanche a vedere se ora sono vicino al colle… Anche a Bariloche (3) nevicava fitto quando la incontrai: quel piccolo tea-room nell’Avenida Mitre, lì, proprio dietro l’angolo della Vizcacha, tutti i maestri di sci che ridendo e scherzando scendevano dalla cattedrale, fermandosi poi dietro l’angolo, eleganti e sicuri nelle loro giacche a vento blu. Jorge, Dik, i fratelli Petrovic… è così caldo qui dentro, le finestre sono appannate, non riesco neanche a vedere la neve che fuori cade fitta e silenziosa, e là c’è Julia, una biondina sola e melanconica che se ne sta sull’angolo. Il vecchio cameriere tedesco fra un minuto sarà di ritorno con il suo vassoio d’argento pieno di chiodi e di fettucce, così potrò scendere, ritornare a casa, è tardi ora…
Tutto è così lungo, è tardi, ed essi dicono che saranno di ritorno giovedì, due giorni fa, ma Nestor è troppo forte, tutto deve andare per il meglio. Tutti sanno che è lo scalatore più forte di Buenos Aires e per questo sono gelosi di lui, anche già amici della televisione. Mi ricordo di quella storia a Bariloche, prima che lo incontrassi: così arrogante e presuntuoso, vedrai… E poi in quel tea-room dopo aver sciato, senza esitazioni si diresse verso il mio tavolo e naturalmente io ero la sola ragazza presente, in verità piuttosto carina, e tutti i maestri di sci ubriachi che mi indirizzavano volgari apprezzamenti in un gergo che non riuscivo a capire, per fortuna… Non riesco a capire, perché mai vuole scalare queste assurde montagne, e soprattutto il Torre? Quei giorni di bel tempo quando potevamo vederlo incredibilmente luminoso là al fondo della valle, grande come può essere grande una Nullità, no, non devo essere io a dire queste cose, miei piccoli borghesi impettiti e beneducati, credo… O mio Dio, di che cosa sto parlando! e a chi? E guardate qui, ogni cosa è squassata e distrutta dal vento, ora ricomincia anche a nevicare. Povera me, come sta peggiorando la situazione e il fuoco ancora una volta si è spento. Cosa succederebbe se proprio ora dovessero tornare indietro, ah, certo lo preferirei… oh, ma perché, perché mai qualcuno vuole compiere questa assurda follia? Nessuno scalerà mai queste montagne, nessuno potrà mai vincere il Torre.
… No, no… scuote la testa e lentamente gira il suo cavallo nella pioggia. Il peón di Rojo sa che nessuno potrà mai scalare la Torre. Nessuno vorrebbe scalare queste montagne crudeli e neppure queste montagne desiderano lasciarsi scalare dagli uomini… Poco a poco se gana el cielo… a poco a poco si conquista il cielo, ma non scalando le montagne, non questo cielo, questo non è cielo… troppe nuvole, troppo vento vi regna. Lassù è sempre inverno, un inverno eterno, duro e terribile. Anche questa tempesta a poco a poco, come già aveva pensato, è divenuta sempre più terribile: la muraglia immensa di nubi sempre più nera, sempre più sconvolta dal vento. E tutto ciò è già accaduto: di anno in anno, sempre, la neve soffice e profonda a giugno e luglio, poi in novembre lo spinoso calafate ritorna a vivere e inverdire per i cavalli e le pecore che pascolano… ma anche quando il cielo è blu, il vento urla e mugghia nei canyon, non c’è pace in questa terra, queste non sono montagne che gli uomini possono scalare. E lo scorso anno? Quei piccoli uomini venuti dal Giappone, anche loro lo hanno detto. Rimasero tre mesi ai piedi delle montagne e tornarono indietro con il viso triste e scuro… Andiamocene a casa. Basta con questa follia, basta perdersi nel guardare montagne invisibili… Tu entiendes cavallo mio?… Tu mi ascolti, cavallo? Il peón di Rojo è fieramente orgoglioso di aver resistito al voseo, la dura legge delle pampas. Ancora sa darti del tu. Ma non è stato così facile, ha dovuto duramente combattere con la sua anima in questi ultimi vent’anni. Tanto tempo fa desiderava rimanere un cileno, non poteva accettare il loro modo di vivere. Ma anche questo non durò a lungo… ora anche lui beve il mate e loro laggiù all’estancia gliene danno due chili in un sacchetto di carta. Nella sua misera capanna, un pentolino annerito dal fumo lo sta aspettando sulla stufa caliginosa. Un uomo deve pur bere qualcosa di caldo… Vamos, andiamo…
Ma il mate è cosi schifoso, è la peggior cosa che esista in Argentina. Ringraziando Iddio Nestor lo beve zuccherato, Hans – naturalmente – non riesce a sopportarlo come me. Ma se solo riuscissi ad accendere il fuoco, quanto mi piacerebbe preparare con il Lipton qualche tazza di buon vecchio tè… Cristo, ma perché qui tutto è così difficile?
E le mie mani! Guarda come sono rovinate! Tutte escoriate, le dita gonfie e bluastre… Dita gonfie, escoriate, bruciate dal gelo e tumefatte, troppe ore, troppi giorni con i guanti fradici e ghiacciati… un bruciore irresistibile, poi il torpore e l’insensibilità – congelamento – dolore e rabbia per farle rivivere per poi ritrovarle ancora fredde ed insensibili. Così fredde, così distrutte, le mie povere mani… In questo stato solo con enorme difficoltà riesco ad afferrare la corda. Non vi è che un modo: sbatterle una per volta violentemente contro la roccia, sperando di ritrovare la sensibilità. Allora forse potrò recuperare questa maledetta corda doppia e poi iniziarne un’altra, un’altra ancora e poi un’altra… Cristo! ma quanto c’è ancora per arrivare al colle? e le nostre corde fisse, ci saranno ancora là?… E poi in poche ore giù al ghiacciaio, una facile camminata fino al campo: le tende sembrano due grandi farfalle arancioni posate al margine della foresta verde e blu… finito il vento, Julia che mi corre incontro piangendo, un fuoco, una tazza di tè, Julia che con dolcezza mi sfila gli scarponi e cerca di farmi rivivere i piedi freddi e insensibili… Com’è tutto caldo e immensamente dolce qui, con il capo immerso nel tepore dei seni di Julia… Ma perché Hans non si affretta a tornare? Ma non c’è problema: una traccia discende diretta dalle nubi fino giù in basso alle tende. Il suo cammino non dovrebbe essere difficile… ma allora sei morto, ora capisco, non pesi più nulla, stai come volando… Julia! ti prego, non piangere così, Julia, sapessi come ti ho pensata, ti ho pensata tanto lassù, di notte, in quelle grotte scavate nel ghiaccio, poi ritornando indietro, anche su quel piccolo terrazzino… quando la corda… Julia… su, Julia, faremo all’amore più tardi, ora no, sono così stanco, troppo stanco e non sento nulla nei miei piedi, nelle mie mani, Julia…
Ma Julia è laggiù nella tenda, coricata nel suo sacco di piumino e piange silenziosa e rassegnata. Il fuoco sta ancora bruciacchiando, ma ormai si sta spegnendo a poco a poco, sputacchiando scintille nell’umidità. Il pentolino del tè, quasi inosservato, sta bollendo senza fretta poco più in là, mandando nere e piccole volute di fumo. Pioggia e neve stanno cadendo insieme: tutto è umido, bagnato… Non è tardi, il pomeriggio è avanzato, ma le nubi sembrano quasi coagularsi nell’oscurità, nulla è cambiato. Ancora quante ore di luce? … Anche qui! Così a sud…
E se Nestor non è tornato indietro… non può tornare indietro oggi pomeriggio… e quando?… E perché penso solo a Nestor e non al povero Hans? e perché dico il povero Hans? Oh, mio Dio, ma cosa mi sta succedendo quassù? ma se conoscono bene la via di discesa! Ma domani… se non ritornerà domani o il giorno dopo… E pensare che non gli ho neanche detto nulla del bambino… no, glielo avrei detto dopo, non adesso… Ma avevo promesso a me stessa di non pensare mai che Nestor fosse in grave pericolo, che potesse morire… oh… I capelli biondi e scomposti, freddi e bagnati, si posano sul nylon blu del sacco piuma, lo splendido viso distrutto e disfatto dal dolore, il pianto sommesso e continuo; la pioggia fine e costante, lo stillicidio di migliaia di tronchi d’albero; il vento sommesso ma costante. Un altro ramo si spezza, cade.
Lassù nelle nubi, il ricordo di picchi acuminati e taglienti come aghi, si è disperso come in un brutto sogno. O forse un bel sogno, ma comunque un sogno distrutto dal vento. Un’altra piccola slavina ricopre Nestor, accucciato sul piccolo terrazzino. Il nevischio ghiacciato scivola sul viso, e lo risveglia. Ancora una volta, come mille altre volte, ritmicamente batte gli scarponi contro la roccia, poi picchia violentemente le mani, una alla volta, contro la pietra fredda, incrostata di neve e di ghiaccio… Nestor guarda in alto. La corda è agganciata in alto, pende verso il basso… lassù in alto tra le nubi, in qualche posto, un piccolo nodo si è incastrato dietro ad un blocco di roccia o dentro una fessura. Gesù, come posso fare ora per ricuperarla?
La copertina di Ascent n.5 – 1971
Ah, hijo de la gran puta… figlio di quella gran puttana che ti ha generato! Nestor prova a tirare da una parte e dall’altra, fa saltare la corda, tira ancora, bestemmia senza convinzione. E’ una scena che si ripete. Quante altre volte ha già tentato di tirar giù la corda? A poco a poco la vita ritorna nelle sue dita intirizzite e ora può tirare con più violenza… Veloce!… Sembra già molto tardi e Hansli quando cadde aveva il sacco da bivacco nello zaino. Nessuna protezione per questa notte. E non c’è spazio per sedersi su questo stupido terrazzino. Ma se non riesco a recuperare questa maledetta corda, la questione cambia, riuscirò a sopravvivere per un’altra notte ancora? e se mi dovessi ancora riaddormentare?
Dormo: devo aver sognato Julia. E’ bene se riesco ancora a sognare, ma non è stato un sogno. So che laggiù ci deve essere un fuoco, che il tè sta bollendo in un pentolino fuligginoso. Julia deve essere terribilmente affranta, povera ragazza… Avrei fatto meglio a lasciarla a Buenos Aires. Anche la vita al campo è troppo dura per lei… le due tende sembrano grandi farfalle arancioni e spariscono sempre più nel fitto della foresta… No, non voglio che questo si ripeta, non voglio ricadere nel sonno. Le mie mani cominciano a bruciare! buon segno! Fra un minuto potrò riprovare a tirare ancora una volta… Hijo de la gran puta que lo pario!… Due giorni i due erano così vicini alla vetta, il gigantesco fungo di ghiaccio della vetta, e poi… Ma no, Nestor stesso non è più sicuro se c’è arrivato oppure no. Quando cominciò questa tempesta infernale? Quando mai potrà finire? In un minuto sarò laggiù. Julia mi sta aspettando nel suo sacco di piumino, calda e nuda. Sono quasi arrivato a casa…
Il peón di Rojo è quasi arrivato a casa. Il suo cavallo attraversa un piccolo corso d’acqua e risale un tratto dall’altra parte. Sta piovigginando e là c’è la capanna, il suo puesto. Il peón di Rojo sta pensando a quei gringos di Buenos Aires, lassù, sul Torre… No… sono solo degli uomini, come anch’io sono solo un uomo. Non sono in grado di fare simili cose. Nessuno può scalare la Torre. E quella piccola bionda, la rubia, cosa può mai fare una donna lassù? Che pazzi sogni li hanno spinti fin lassù? Forse salire fin dentro le nubi?… Li capisco, anch’io sogno… Ma in tutti i miei sogni incontro sempre il mare… I miei sogni sono illuminati di sole splendente, sono solo i sogni di un vecchio… sogni di gioventù… null’altro che sogni… Ci sono cose che non si possono spiegare… Cosas patagónicas…
Note
(1) Nella letteratura argentina si intende per «gauchesco» un filone letterario legato alla vita rurale e alla lingua contadina.
(2) Quartiere di Buenos Aires posto in vicinanza del mare.
(3) Stazione sciistica della catena andina sul confine col Cile.
Cazzo, prima del post precedente ne avevo scritto un primo che non so deve sia finito. Dicevo che qualche anno fa in un bar di El Chaltén è morto ubriaco un peòn di nome Juan Diaz che era stato anche alle dipendenze del Rojo del racconto. Personaggi esistiti (Rojo è ancora vivo ed è uno dei latifondisti più ricchi della Valle del Rio de Las Vueltas) realmente e il “peòn di Rojo” potrebbe benissimo essere stato Juan Diaz!
Juan Diaz era figlio incerto di Juana Sepulveda morta molti anni addietro ed entrambi seppelliti presso il Puesto Sepulveda sulla riva nord del Lago del Desierto.
Più avanti copio un raccontino scritto in un giorno di maltempo patagonico dai miei appunti.
Nella storia di Tejada Flores si notano pure dei collegamenti con la storia del film di Herzog Urlo di Pietra, infatti il “pazzo” argentino che lascia la foto in vetta al Torre portrebbe benissimo essere Juan/Il peòn di Rojo, chissà.
Sarebbe bello che chi conosce queste storie ne scrivesse anche qui, perché sono belle e fanno parte in qualche modo di quell’alpinismo ormai d’altri tempi, di cui faccio parte anch’io.
Nel bel libro di Chatwin In Patagonia c’è un racconto su un certo Candelario Mancilla che in una notte di tormenta rapisce la sua amata Juana Sepulveda (madre di Juan Diaz/Peòn di Rojo?) e in sella a un cavallo nero come la notte che li avvolge assieme al vento, fuggono attraverso il Paso Altamirano in Cile. Le storie sono mille e in tutte c’è sicuramente una parte di verità e una di leggenda. Non saprei dire in che percentuale. Quella che segue è la mia versione:
A 40 km da El Chaltèn in direzione nord est una strada sterrata costruita da pochi anni porta in direzione del Cile. Prima della frontiera isolata nelle montagne tempestose un lago blu scuro e bellissimo si allunga tra ghiacciai e brulle cime e prende il nome di Lago del Desierto. Al suo estremo settentrionale si trova l’ estancia Sepulveda, luogo leggendario dove si consumarono storie di banditi, furti di bestiame e d’amori proibiti che molti scrittori celebrarono nei loro racconti. Ne manca uno pero’ e è quello che voglio raccontare io adesso. A El Chaltèn vive Juan Diaz un “paisano” che spesso si confonde senza riuscirci tra i turisti che arrivano qui da ogni angolo del mondo, ma la sua aria da indio meticcio mista al fare tipico dei gauchos smentisce subitamente le sue origini che lui decanta come di stirpe araucana. Avrà 50 anni mal portati e quasi tutte le sere tira tardi en lo de Miguel, il locale dei paisanos dove i turisti non vanno perché per loro non c’ è nulla di interessante.
Nonostante Juan vanti un’origine india e nobile come i fieri araucani della Patagonia settentrionale erano, i suoi occhi azzurri e i suoi capelli chiari ne denotano altre che richiamano all’ Europa da dove effettivamente proviene ogni argentino.
Nel 1959 sua madre -lei si che era araucana- si era spinta fin sulla pianura dove il Rio de las Vueltas si dirama tra ampie curve e lagunas dove oggi sorge il pueblo appunto detto El Chaltèn. Lì era giunta una spedizione di alpinisti che volevano, si diceva, scalare l’ inviolato Cerro Torre, una montagna che fa paura al solo guardarla. Questi scalatori un po’ pazzi erano italiani ma tra loro ce n’ era uno che parlava una lingua più gutturale e dura che proveniva infatti dalla vicina Austria.
Si chiamava Toni, era di poche parole e pare che la madre di Juan ne fosse invaghita e che qualcosa tra loro due e i venti patagonici fosse accaduto in una notte sotto la volta celeste illuminata dalla croce del sud.
Juan infatti non ha tratti tipicamente araucani, suo padre morì dissanguato nella valle di Rio Toro quando lui era ancora piccolo per il calcio di un cavallo e inspiegabilmente quando arrivano scalatori in zona vuole da loro sapere dove sono diretti e pare che quelli che vogliono scalare il Cerro Torre gli siano particolarmente simpatici e a tutti racconta che quella volta nel ’59 Maestri e Egger su quella cima maledetta ci sono arrivati davvero, alla faccia di chi dice che è tutta una bugia.
Juan Diaz è morto nel 2014 accasciandosi nel “Boliche” di Miguel a El Chaltén. E’ sepolto sulle rive del Lago del Desierto vicino a sua madre in quella che era la loro estancia.
Ben vengano contributi su “cosas patagonicas”.
Dimenticavo di dire che Rojo é realmente un estanciero della zona e che Juan Diaz ha lavorato per lui, quindi nel racconto di Tejada Flores si intrecciano più storie.
Sicuramente quella di Maestri e Egger, ma anche le molte, indubbiamente ascoltate ai tempi della salita dei californiani al Fitz Roy. QUesto perché quando una spedizione era in zona, i pochi locali si interessavano molto a quello che facevano gli alpinisti, perché il posto era remotissimo e gli alpinisti portavano una qualche novità. Sono nate infatti nei decenni delle salde amicizie tra alcuni vecchi alpinisti e personaggi che oggi raramente frequentano El Chaltén con i suoi bar stile cittadino dove invece sguazzano gli odierni climbers.
Un ultima analisi la farei alla copertina di Ascent degli anni ’70. Oggi non vediamo più foto così perché gli alpinisti paragoni ci si muovono con le previsioni meteo e ovviamente non scelgono i giorni di brutto tempo. Per quelli ci sono i bar, i Boulder e le mille storie come questa.