Lentamente, anche solo per guardare

Lentamente, anche solo per guardare
di Toni Farina
(scritto il 18 settembre 2017)

Lettura: spessore-weight***, impegno-effort**, disimpegno-entertainment***

Dunque si corre. Anche in montagna. Soprattutto in montagna. In inverno con gli sci e d’estate con le scarpette. Attrezzature iper-tecniche e leggere consentono performance un tempo impensabili. Al resto pensa l’allenamento. Regolare, scientifico.

Impressiona scorrere sul sito web dedicato (www.corsainmontagna.it/) il fitto calendario di gare che si svolgono in ogni settore dell’arco alpino. Trail, ultra trail, skirunning, lunghi percorsi e vertical race in ogni dove, dalle località note a quelle anonime. In Piemonte si va dal Bettelmatt Trail ossolano alla tradizionale Tre Rifugi sciistica nelle Alpi Liguri, al lato opposto della regione.

E in Valle d’Aosta c’è il Tor des Géants (Tour dei Giganti). Massacrante prova non competitiva (si fa per dire) con partenza e arrivo a Courmayeur. L’intero periplo della Vallée lungo le alte vie 1 e 2: 330 km, 24.000 metri di dislivello.

“Si è concluso alle ore 18.00, come previsto, il primo periodo di iscrizioni al Tor 2017. A partire da lunedì mattina verranno selezionati i nomi dei corridori che potranno iscriversi in sostituzione di coloro che non hanno confermato la propria partecipazione in questi 15 giorni di tempo. A ogni corridore selezionato verrà inviata una mail. Invitiamo tutti a controllare la lista pre-iscritti del proprio paese in caso di mancato ricevimento della comunicazione. I nomi dei corridori selezionati appariranno evidenziati in verde. Il sistema di selezione tiene conto delle quote paese, come da regolamento. Ad oggi si sono iscritti 615 corridori provenienti da 65 nazioni. Al raggiungimento dei 750 corridori iscritti non si faranno più ripescaggi dalla lista dei pre-iscritti (dal sito web del Tor des Geants www.tordesgeants.it/, prima dello svolgimento della gara, 10-17 settembre 2017)”.

Corridori provenienti da 65 nazioni. Fa una certa impressione. Ma, come il Trofeo Mezzalama conferma, la corsa in montagna non è certo un’invenzione d’oggi. Però oggi è diventata un vero fenomeno. Che genera economia. Una gara, in particolar modo se inserita nel circuito internazionale, attira frotte di partecipanti, senza contare gli addetti alla macchina organizzativa. Per le località prescelte la ricaduta in termini promozionali è innegabile. Senza tralasciare il benefico effetto sulla rete di sentieri toccata dal percorso, oggetto di interventi di sistemazione a opera delle motivate squadre di volontari arruolati nella logistica.

Le competizioni di corsa in montagna stanno dunque diventando un fenomeno sportivo importante. Ufficializzato, sdoganato, è ora in procinto di diventare disciplina olimpica. Un forte un elemento di aggregazione e, allo stesso tempo, un vero fenomeno culturale. Perfettamente in sintonia con i tempi. In un mondo dove tutto è rapido, dai cambiamenti climatici all’evoluzione tecnologica, perché mai la montagna dovrebbe essere esentata?

Già, perché mai?
Bernard
e Martin Dematteis, montanari di Rore, frazione di Sampeyre, in Valle Varaita, l’8 settembre 2017 hanno battuto il record di velocità nella salita al Monviso lungo la via normale dal Pian del Re. Record “vecchio” di 31 anni: il 6 settembre del 1986, Dario Viale, atleta di Limone Piemonte, impiegò 1h 48’54”. Si è trattato di un vero evento, enfatizzato dalla loro figura: gemelli, montanari, portacolori della nazionale di corsa in montagna.

“Abbiamo un sogno, e vorremmo realizzarlo insieme a tutti voi”. Ci stiamo allenando duramente, in questo periodo, puntando ai mondiali di fine mese, ma per noi, nati e cresciuti sulle pendici del Re di Pietra, il record di salita sul Monviso ha un richiamo ineguagliabile. Speriamo quindi di poter contare sul sostegno di tutti, in questi due mesi oltre al giorno dell’evento, per poter vivere davvero insieme questo sogno, diventando tutti protagonisti dell’impresa, con un cuore solo”.

Così hanno postato su facebook a luglio. La valanga di “Mi piace” ne ha fatto un caso mediatico prima ancora che sportivo. Potenza dei social, la sfida al Re di Pietra è stata la realizzazione di un sogno collettivo, un rito condiviso e partecipato, anche come sostegno materiale, vista la raccolta fondi con il sistema del crowdfounding. E l’8 settembre davvero in tanti si sono ritrovati lassù, sulle ripide chine di detriti del Re di Pietra. E hanno corso con Bernard e Martin. Per scrivere tutti insieme “Una nuova pagina di Storia della Montagna”.

Bernard Dematteis, subito dopo l’arrivo in vetta al Monviso, 8 settembre 2017

Un’ora, 40 minuti e 47 secondi
… per superare i 1821 metri di dislivello che separano il Pian del Re dalla cima del Viso. La straordinaria performance atletico-sportiva di Bernard Dematteis, seguito a breve distanza dal fratello Martin, si è svolta in un parco naturale (http://www.parcomonviso.eu/), nonché riserva della biosfera (http://www.monviso.eu/). Certo a loro, giovani sensibili e informati, la cosa non è sfuggita. E certamente hanno pensato che l’evento stesso potesse servire alla causa della tutela:
“Per noi il Monviso rappresenta molto di più di una semplice montagna, rappresenta il simbolo della nostra terra, fa parte delle nostre radici. Da alcuni anni nutriamo dentro di noi il sogno di poter battere il record di ascesa su questa magnifica montagna stabilito ormai 31 anni fa da un mito come Dario Viale. Grazie a nostro fratello Miculà, e ad altri amici che hanno curato l’organizzazione, quest’anno cercheremo di realizzare quel sogno.
Sappiamo che sia il parco naturale che la riserva della biosfera sono particolari, unici nelle Alpi, e proprio per questo il nostro sarà un tentativo di record incentrato sull’ambiente. Alla partenza da Pian del Re la mattina dell’8 settembre verranno organizzate attività sportive e di intrattenimento per ragazzi e bambini al fine di sensibilizzarli sul tema del recupero e riciclo dei rifiuti, cosa che anche in montagna è fondamentale. Si occuperanno di questo i volontari della cooperativa ERICA coordinati da Roberto Cavallo, sportivo e attivista in tal senso.
Questa collaborazione non è casuale, perché noi siamo molto legati al tema dell’ambiente e dell’ecologia. Sovente quando andiamo a fare una corsa o un allenamento sulle nostre montagne, torniamo a casa con rifiuti di ogni genere trovati lungo il percorso. Nulla di eccezionale certo, ma è il nostro piccolo contributo per cercare di mantenere puliti i nostri sentieri.
Ma tornando al tema della velocità in montagna, ci tenevamo ad esprimere il nostro personale parere in merito. Non siamo d’accordo che la montagna vada vissuta solo lentamente, la montagna è di tutti e in quanto tale ognuno dev’essere libero di viverla come più crede. Purché sia rispettata a fondo e ci sia sempre una specie di timore reverenziale nei suoi confronti.
Noi quando corriamo in montagna la viviamo profondamente e si crea un rapporto vero, autentico tra noi e le rocce, i pendii e i sentieri che accarezziamo, è come se volassimo e planassimo sopra di essi come aquile oppure balzassimo come agili stambecchi tra un sasso e l’altro, ma andare piano o forte non fa differenza perché in ogni modo noi ci sentiamo parte integrante di questa montagna, al pari di un albero o di un animale che lì ci vive, noi in quel momento siamo in un allegra sintonia con essa, siamo in totale armonia con tutto lo scenario naturale che ci circonda. La montagna ci conferisce una forza incredibile ed in essa viviamo a pieno.
Questa forte dimensione spirituale e di attaccamento alla montagna ci ha sempre accompagnato fin da quando eravamo ragazzini, e questo tentativo di correre e cercare di battere il record di ascesa al Monviso lo viviamo alla stessa maniera.
Il Re di Pietra è come un fratello maggiore, lo rispettiamo profondamente e che si riesca a stabilire il record o meno, lui resterà sempre la nostra montagna, alle pendici della quale siamo nati e cresciuti e per esso nutriremo sempre senso di ammirazione e rispetto. Comunque vada il Monviso e lo spirito di questa montagna saranno sempre presenti nel nostro cuore
(Martin e Bernard Dematteis)”.

One man show
Anche se preceduta dal battage social e dal tifo, quella dei gemelli Dematteis https://www.recordmonviso.it/ è stata in fin dei conti una sfida “uomo solo” contro la montagna, come altre che l’hanno preceduta.

Valerio Bertoglio, guida alpina e guardiaparco del Gran Paradiso. Uomo stambecco: nei poster promozionali appare in corsa a rotta di collo su un pendio affiancato all’ungulato simbolo del parco. Uomo e stambecco in gara…

Nella sua corsa al Cervino (4 ore) passa leggero in scarpette di fianco alle cordate, marziano tra alpinisti comuni. E così sul Rocciamelone: 24 ore no stop, 3 volte e mezza da Susa alla vetta. E poi le corse sul Gran Paradiso e sulla Grivola, salite dal fondovalle in tempi strabilianti.

Il parco, suo ambiente di lavoro, un lavoro fatto di certosina osservazione (guardaparco), diventa palestra di performance atletica.

Valerio Bertoglio

La corsa? È pura interpretazione
Lorenzo Facelli
ha salito il Gran Paradiso, il Monte Bianco e il Monviso in giornata: partendo da casa, a Caselle torinese, in bicicletta. Fa impressione solo pensarlo. Ma lui che pensa?

“Che sia lentamente, oppure “rincorrendo” un cronometro, il teatro degli sport di montagna è più di altri, pura interpretazione. Vado in montagna da quando ero bambino, quando mi ci portava il mio papà. Spesso la voglia non era molta, ma una volta in vetta il senso di pienezza e di libertà erano immensi, una vera linfa per la quotidianità. E così è ancora oggi, anche se è cambiato l’approccio, l’essenza stessa del gesto, che ha preso un senso volubile, assolutamente mutevole.
Oggi, a trent’anni, vado in montagna spinto da una grande passione: un qualcosa di mio, di grande, che vivo in libertà. Con intensità e leggerezza quando lo suggerisce la mente. Oppure, quando me lo chiede il cuore, con passi scanditi da un ritmo blando per osservare il paesaggio meraviglioso che mi circonda. Altre volte, durante gli allenamenti, il ritmo è frenetico. Quando rincorro qualcuno in gara lo sforzo è durissimo. Il ritmo si fa ossessivo.
In ogni caso per aver il meglio dalla corsa, occorre avere un approccio mutevole. Si può ad esempio vivere la corsa come un gesto rilassante, a “bassi giri”. Oppure affrontare qualche “sfida” in più, trovare lo spunto per correre veloci, anche solo per migliorarsi.
La corsa, e in genere lo sport, sono anche e soprattutto perseveranza. Se affrontati con un approccio più severo possono farci diventare persone più resilienti. La resilienza d’altronde è una tra le doti migliori che possiamo acquisire in montagna, per poi trasporla nella quotidianità.
Divertitevi, correte, ma non dimenticatevi di sfidare voi stessi a fondo. Fatelo, almeno una volta
.

L’alpinismo? Non è uno sport
“Io credetti e credo la lotta con l’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede (Guido Rey)”. La frase appare sulla tessera del CAI.

“Le montagne non sono stadi dove soddisfo la mia ambizione di arrivare. Sono cattedrali, grandiose e pure, i templi della mia religione (Anatoli Boukreev, fortissimo alpinista kazaco)”.

“La velocità in montagna può essere utile, addirittura fondamentale, ma pure deleteria. Lo stesso si può dire della lentezza. La velocità dev’essere un mezzo, non un fine. Arrampicare veloci e leggeri su una cresta minacciata dal temporale significa la salvezza. Scivolare veloci sulla neve in piena consonanza con gli elementi della natura può essere un momento unico, frutto di anni di iniziazione. Muoversi veloci e coordinati sui piccoli appigli di un masso o di una parete a strapiombo è condizione necessaria per vincere la gravità e assaporare il piacere dell’arrampicata su roccia. Per essere veloci occorre però prima aver indugiato a lungo, unico mezzo utile in montagna ad attivare conoscenze. La velocità fine a se stessa può essere un acido corrosivo (Michele Comi, guida alpina valtellinese) ”.

“Interpreto l’alpinismo di velocità come il modo più semplice ed economico (a parte il costo del cronometro) per non esporsi al pericolo di essere innamorati della montagna. Se sei innamorato, vorresti che il tuo rapporto durasse il più a lungo possibile. Se non sei innamorato, la sveltina è il massimo.
Con questo non voglio affatto dire che chi corre non abbia un suo rapporto di amore con la montagna: dico che il tempo impiegato è il miglior sensale che ci sia per un adulterio, quindi occorre stare attenti a quello che si fa se si vuole che la montagna, “arrabbiata”, non ci si rivolga contro
(Alessandro Gogna, noto alpinista, gestore dell’apprezzato blog inerente montagna e ambiente. gognablog.com/)”.

Tor des Géants, premiazione 2017. Foto: Stefano Jeantet

L’alpinismo non è uno sport, ma la montagna per sua dimensione è luogo di sfide. Oggi come al tempo di Rey. Luogo di ricerca dell’estremo. E l’alpinismo è, per sua intima natura, un’attività estrema. Manifestazione estrema è stata la salita di Walter Bonatti alla Nord del Cervino, prima invernale con cui ha chiuso in via ufficiale la sua straordinaria carriera. Nella quale la ricerca dell’estremo è stata la costante.

Sono poi arrivati gli enchaînement, les grandes courses. Patrick Berhault, Christophe Profit, ma anche Hervé Barmasse che concatena d’inverno le quattro creste del Cervino, la sua Gran Becca.

Dove prima occorrevano giorni si passa in poche ore. Sempre meno ore. Che vuol dire più sicurezza, e niente incertezza sull’evoluzione della meteo. Quel modo lì di salire non sarà sport, ma certo si avvicina alquanto.

Slow mountain
Alberto Paleari
, guida alpina ossolana, organizzò negli anni ’80 due salite al Monte Bianco con partenza da Aosta. E al Monte Rosa con partenza da Domodossola e rientro ad Alagna. Proposte controcorrente, per clienti non frettolosi. Proposte per molti versi estreme.
“Sono state belle esperienze… Continuo a credere che l’alpinismo non sia uno sport e che la montagna non sia uno stadio per fare gare. Così come credo che il primo sia un’attività contemplativa e le seconde il più importante spazio di natura (quasi) incontaminata che ci resti in Europa.
Tuttavia in montagna ognuno è libero di fare ciò più che gli piace nel rispetto della natura e degli altri. Però non m’interessano i record e quando mi vengono riferite cose strabilianti dico sempre: buon per loro se si divertono, ma a me non interessa. Così come non mi interessa la mountain bike perché ho notato che nella maggior parte dei suoi praticanti prevale l’aspetto sportivo su quello contemplativo”.

Lunghi cammini e tutine
I Percorsi Occitani, la GTA e i lunghi cammini. Forme di frequentazione della montagna (e della collina, e della pianura) molto diverse, antitetiche rispetto alle performance atletiche dei runner. Forme di frequentazione che possono certo convivere senza problemi. L’una accanto all’altra, un saluto e via verso la meta. Ma, qual è la meta?

Siamo drogati di adrenalina, non c’è dubbio. Propongo viaggi a piedi nei quali il programma stabilisce con chiarezza che si cammina per contemplare, ritrovare se stessi e rallentare i ritmi frenetici del vissuto quotidiano. Tuttavia di rado i partecipanti riescono a scalare le marce. Assisto a partenze a schioppo di fucile, sono costretta ad attirare l’attenzione dei frettolosi, che passano e vanno, ignorando, nell’ordine: orchidee spontanee, funghi, chiese romaniche, sorgenti di acqua freschissima, insetti rari, punti panoramici. Devo insegnare a vedere cose che nessuno guarda, obbligare alla sosta, intimare di posare lo zaino in quei luoghi che ti fanno sentire padrone dell’universo, proprio per il fatto di essere arrivato lì, a quell’ora del giorno, con quella luce irripetibile. Devo dire tutto: fermiamoci semplicemente a respirare, tiriamo il fiato, sentendoci vivi nell’ozio, e godendo della bellezza del mondo. Ecco, tutto questo a molti (non a tutti, ma a troppi) sfugge, presi dalla foga di arrivare, del raggiungimento della meta che segna la fine della fatica. La domanda ricorrente è: quanto manca? Che vuole anche dire: quando si ritorna ai luoghi della civiltà, al rassicurante consorzio umano, ai comodi marciapiedi e all’aria condizionata dei bar? (Roberta Ferraris, guida escursionista ambientale, specializzata nei lunghi cammini).

“Sono uno sci-alpinista attestato sui canonici 400 metri di dislivello all’ora, uso a fermarmi per osservare l’intorno, coglierne le sfumature cromatiche e gli orizzonti. E per questo mi fanno a volte un po’ sorridere le “tutine” (come sono amichevolmente definiti per via dell’abbigliamento tecnico essenziale gli sky runner) che mi scivolano accanto in perenne allenamento. E se da un lato invidio la loro verve, dall’altro (mi perdoneranno) non ne condivido l’atteggiamento al limite del patologico.
Quest’inverno ho incontrato un gruppo di ski runner su una cima, alcuni dei quali mie conoscenze, e approfittando dei pochi istanti in cui si sfilavano le pelli di foca (operazione che fanno al volo, senza togliere gli sci), li informai su una manifestazione in difesa dell’ambiente programmata il week end successivo. Mi ascoltarono certo, ma nessuno di loro partecipò. Vuoi mica perdere l’allenamento…
(scialpinista anonimo)”.

Partenza 2015 del Tor des Géants

Qual è il messaggio?
No limit, è il messaggio. Andare oltre, corse più lunghe e tempi più brevi. La montagna è un piano inclinato, la distanza fra un punto di partenza e un punto d’arrivo.
No limit in un pianeta limitato. Dove diventa sempre più necessario porre “limiti allo sviluppo (Aurelio Peccei, manager FIAT, 1961)”. No limit in montagna, “maestra del limite (Annibale Salsa, past president del CAI, in un convegno a Lanzo a febbraio di quest’anno)”.

Si corre dunque. Anche nei parchi
No limit anche laddove, al contrario, il limite dovrebbe essere la regola. Anche nei parchi naturali, templi della natura protetta, si consumano in fretta sentieri e pareti. E la gara diventa elemento di promozione. E gli enti di gestione sono spesso partner dell’evento… In un parco naturale la gara diventa un elemento di uniformità. Può diventare un elemento di perdita di identità. Nel Gran Paradiso, all’Alpe Veglia e Alpe Devero, nel Marguareis. E nel Parco del Monviso.

È giusto? È opportuno? È sostenibile? No, non lo è. Senza essere talebani dell’ambiente (definizione orribile, ma utilizzata) non è superfluo ribadire che un parco naturale è nato per altro. È una questione di principio, e i principi contano.

Nei parchi naturali la lentezza è necessità. Di più, è un obbligo
Oltre al compito primario della tutela degli habitat naturali (quel che ne rimane), un parco non può abdicare al suo compito di luogo dell’educazione.

Educazione alla lentezza
In un parco si cammina per osservare, per conoscere, per imparare. Per acquisire sensibilità, e, perché no, per acquisire affettività.
Conoscenza e affettività sono premesse necessarie all’impegno per la tutela. E, sa il cielo, quanto ci sarebbe bisogno di impegno per la tutela.
Per cui, giovani e meno giovani runner, un giorno all’anno sacrificate l’allenamento, sono certo che la forma fisica più di tanto non ne patirà. E dedicate quel giorno a qualche forma di volontariato per la tutela dell’ambiente naturale della montagna.
Un giorno, anche solo per guardare.

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Lentamente, anche solo per guardare ultima modifica: 2017-10-09T05:14:29+02:00 da GognaBlog

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18 pensieri su “Lentamente, anche solo per guardare”

  1. Andrea, dici cose assolutamente condivisibili ma non mi pare che tu ti sia discostato nettamente da chi ha già commentato l’articolo.

    Ciascuno dà un contributo nel poco spazio e tempo disponibile e il tuo è sicuramente un contributo interessante su cui riflettere.

  2. Mi discosto nettamente dalle posizioni delle persone che hanno già commentato l’articolo, perché per me la velocità è ineluttabilmente una chimera!

    Essere veloce per me è impossibile, che I 400m l’ora fossero “canonici” mi giunge nuova per me lo erano I 300 e quasi sempre lì “fallavo”‎. Detto questo è importante però per me sottolineare quanto sia importante a volte – condividere – (parola abusata si ma necessria al contesto) sensazioni con qualcuno.
    Quando in montagna si va veloci, condividiamo solo con noi stessi, la pratica della montagna così diventa adrenalinica ed estrema, sicuramente efficace e di livello tecnico elevata, certo ma è diversa  dal condividere con altri la gioia di quei momenti spesso irripetibili.
    Ho vissuto sulla mia pelle invece altri tipi di velocità, quello di partire presto per essere a casa (al lavoro) per tempo e non vedere mai un tramonto in quei luoghi fantastici dove ero arrivato, oppure lasciare I compagni a scherzare sulla vetta ed io affrontare la discesa da solo per non pesare sugli altri che invece potevano trattenersi ancora un po’.
    Altro tipo nefasto di velocità fu quando, mi sono ritrovato a percorrere con gli sci un ghiacciaio da solo perché speravo che gli “amici” aspettassero alla base della cresta, del 4000 che scegliemmo. poi ho sperato che aspettassero sull’antecima, e poi sulla vetta, quando l’ora già scendevano senza le pelli per la normale, per poi capire che la montagna l’avevo scalata da solo e condivisa al meglio solo con le due guide che erano in vetta che mJfecero I complimenti e dettero l’unico sapore dolce  a quell’amara esperienza invitandomi a percorre con loro un, altro canale di discesa.
    Ecco anche in quel contesto la velocità degli “amici” che inseguivano la performance. E stata deleteria.
    Quindi a parer mio conta la regola del essere forte e veloce si ma per poter vivere al meglio la compagnia degli altri in montagna e al bisogno dare una mano!‎ 🙂

  3. Ho fatto diverse vie nella Valle del Sarca in velocità. Si parte dalla Toscana molto presto.  Tre  ore e mezza  di macchina sull’autostrada poi, di corsa sulla via, si scende sempre dui corsa  e quindi altre 3 ore e mezza di autostrada per tornare a casa  che è lontana.

    Ultimamente l’abbiamo fatto anche per ripetere alcune cascate di ghiaccio.

    Nessuno me lo comanda. Se lo faccio vuol dire che mi piace. Non lo nego. Anche perchè ho si fa così oppure, si deve rinunciare. Molte meno vie ci sarebbero nel carniere.

    A volte però mi metto a pensare se tutta questa velocità è sempre positiva. Si è vero ti da l’opportunità di fare. Ma allo stesso tempo ti toglie il tempo di guardarti intorno, di vivere e assaporare altri momenti che intorno alla scalata ci sono.

     

  4. Allora, il messaggio mi pare abbastanza chiaro. La velocità non viene criticata in quanto mezzo atto a superare delle difficoltà (esempio tipico: concatenamento di movimenti dinamici al fine di superare dei passaggi che in caso contrario risulterebbero irrisolvibili). Essa viene criticata nella sua forma esasperata tipica della competizione (palese o malcelata).

    Al di fuori di quest’ultima logica, condivisibile o meno, ci possono essere infinite varianti. Per es., in più di un’occasione, mi sono trovato ad andar veloce per ragioni di tempo. A volte ti trovi in situazioni dove devi scegliere: o non fai niente perchè non hai tempo o cerchi di sfruttare quest’ultimo nel miglior modo possibile.

    Alla fine si perde qualcosa, è vero, però si guadagna qualcos’altro. Meglio un giro veloce in montagna, magari non particolarmente impegnativo (perchè se no si rischia troppo), piuttosto che stare a casa ad arrovellarsi sulla mancanza di tempo.

  5. “Mica siamo tutti a pensarla come l’autore dell’articolo.”

    Su questo Marcello non c’è dubbio.

    Ma non sono convinto che velocità sia sempre uguale  a sicurezza.

    La velocità può essere anche fonte di sottovalutazione dei pericoli a cui si va incontro. Creare una forma di miopia.

    Ad esempio quando si pensa di essere più veloci del brutto tempo che arriva. Di esempi  ce ne sono diversi e purtroppo anche tragici. Si conta sulla nostra velocità ma poi il brutto è più veloce di noi . E successo anche a me,  ma anche a gente ben più preparata. Anche a professionisti della montagna.

    La velocità affascina ma può anche abbagliare.

    Poi è chiaro che pascolare sulle vie non è consigliabile. “Chi a tempo non aspetti tempo” dice il saggio. Ma un’altro saggio dice che “la furia fa nasce i gatti ciechi”. Quindi tutto è relativo alle situazioni che ci si presentano.

     

     

  6. Aanche correndo si può contemplare. Chi ce l’ha con chi è veloce trova un sacco di scuse per denigrarlo a scapito della sua lentezza, che è tale (anche se non sempre) perché non si è in grado di andare più veloci. Velocità in montagna equivale spesso a efficacia e a maggiore sicurezza e non di certo allo stress a cui altri tipi di velocità (cittá, lavoro, famiglia, ecc) ci possono sottoporre. Se posso vado veloce e se torno prima a casa posso fare altre cose. Magari una corsa defatigante mentalmente o contemplare le montagne con un buon bicchiere in mano dal terrazzo di casa, un giro in bici, una dormita, una…. vabbè, ma che ognuno vada un po’ in montagna alla velocità che vuole e nel posto che vuole. Finché non limita gli altri che male c’è? Parchi, riserve naturali, sentieri attrezzati, pareti rappresentano per ognuno qualcosa di diverso e personale. Mica siamo tutti a pensarla come l’autore dell’articolo.

  7. L’equivoco è proprio questo: credere che l’estensione e l’intensità del piacere dello stare in montagna si misuri con il tempo. Non è vero, è questione personale, e non esiste fondamento per pensarlo che vada al di là dell’opinione.

  8.  

     
    A quelli che in montagna vanno di corsa, in tutte le salse,
    la montagna gli piace così tanto che fanno di tutto per restarci il meno possibile.
     

     

  9. da noi in Toscana si dice :

    “la furia fa nasce i gatti cei”

     

    cioè non è un buon sistema per fare bene le cose.

    Ma a parte questo.

    Velocità e lentezza sono senza dubbio du approcci personali che ognuno vive a modo suo. I motivi possono essere diversi, dai più nobili e personali a quelli monetari e sponsorizzati che di nobile hanno poco.

    Ma resto convinto che per essere veloci non c’è  il tempo per contemplare.

     

  10.  
    Ogni momento della vita ha la sua velocità e queste divergono da attività ad attività, per quanto tendenzialmente invecchiando per necessità si è portati ad apprezzare la lentezza, le gare sui 100 m degli ultra-ottantenni sono ridicole per quanto possano avere un significato personale e medico-scientifico.
     

    Da giovani la stessa persona si può permettere di praticare un alpinismo veloce o lento che sia, in base al proprio allenamento, stato d’animo, ecc.
     
    Da vecchi non resta che accontentarsi e godere della lentezza, e talvolta può capitare di svalutare la velocità dei più giovani, forse anche con una punta inconscia d’invidia.
     

    Lentezza spesso va a braccetto con contemplazione, ma chi dice che non si possa contemplare anche in velocità?
     
    Lo stato contemplativo prescinde dal moto apparente. E’ una questione di “maturità interiore” e ci sono giovani maturi come tanti anziani immaturi.
     

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  11. Se praticato con cognizione di causa e coscienza, nessuno dei due approcci, “veloce” o “lento” prevale sull’altro, e nemmeno si può a priori condannare l’uno o l’altro, essendo in sostanza faccenda personale, scelta di ciascuno.
    Si possono invece condannare le storture e le degenerazioni di entrambi i modi di andare, le imposizioni del marketing, le deformazioni commerciali dell’uno e dell’altro approccio, le manifestazioni ignoranti.
     
    La corsa in montagna apre gli occhi!

  12. Credo che per un giovane sia normale cercare la velocità. Anche perchè dalla sua parte c’è il fisico che glielo permette.

    Anche io l’ho fatto. E non nego che riuscire a fare una certa via in velocità faccia piacere. Ti fa sentire forte, determinato e anche un pò gasato.

    Però poi capisci che il tempo che ti fa vivere la montagna non va bruciato. Va gustato con lentezza come si assapora un buon vino.

    Come diceva Aste quando affermava di essere un alpinista lento. E  non capiva il motivo di andarsene via il prima possibile dalla montagna dopo averla tanto desiderata.

    La velocità non ti fa vedere e vivere quello che c’è intorno a te: l’ambiente ma anche le persone.

    Oggi si vive un tempo sempre più frenetico , dove bisogna correre, correre e correre. Per andare dove poi?

  13. E’ vero viviamo nella dualità.

    Quindi che fare? Fin quando non ci si imbatte in qualcosa di evidentemente controproducente (es. droga) perchè non provare? Una volta provato si sceglierà ciò che si percepisce più consono.

    In passato, da giovane, ho ricercato la velocità (ma non sempre), oggi ricerco la lentezza (ma non sempre).

    Mi sono sempre divertito.

  14. Non possiamo fuggire al dualismo. Le posizioni su lentezza e velocità dividono gli uomini in fazioni. E anche il singolo uomo, che tra i suoi contradditttori interessi, è soggetto alla medesima dinamica.

    Se fossimo educati in una delle due modalità, sentiremmo il fascino dell’altra. E la storia ripetrebbe. Forse non possiamo fuggire dalla ruota del criceto.

    La perpetuazione della dannazione è il carattere della nostra epoca. Lo dicono i Veda e non solo. Secondo i libroni Indù viviamo nel Kali Yuga. Una stagione lunga centinaia di migliaia di anni nella quale, per farla breve, l’uomo è al suo picco di distanza spirituale da se stesso, dall’ambiente, dal cosmo. Praticamente naviga inseguendo chimere, impaurito da fantasmi.

    Secondo altri, Rudolf Steiner per primo, viviamo nell’Era dei Pesci. Un’epoca che per quanto riguarda il degrado spirituale si può considerare di valore equipollente alla Kali Yuga. La durata di questo calendario è più corta, solo un paio di migliaia di anni, e pare sia in questi anni verso il suo dicembre. Anche in questa stagione, l’uomo è sbilanciato sul suo fronte materiale. Cerca fuori di sé, manca delle consapevolezze per riconoscere il sé come origine di tutto. Le stesse chimere di prima.

    Forse così – fossero anche per qualcuno solo leggende – si può interpretare la famelica voracità con la quale dimostriamo di preferire di gran lunga il consumare al contemplare.

  15. Boh! Io sono necessariamente e filosoficamente lento, ma ho amici che corrono in montagna e la vedono e la sentono, mi raccontano di bellissime esperienze.

  16. capisco la prestazione sportiva, il superamento di un limite. Fa parte dell’uomo che cerca di superarsi, di dimostrare a sestesso e agli altri fin dove può arrivare.

    Ma anche io sono per una montagna vissuta con lentezza. La velocità non può essere il  messaggio da trasmettere per vivere o interpretare l’andare in montagna.  Se così fosse lo trovo un messaggio sbagliato.

    Poi è chiaro che in montagna ci sono delle situazioni in cui essere veloci è un fattore di sicurezza. Ma non può essere in metodo, lo stile.

  17. Anche questo sarà argomento di discussioni e prese di posizione… Io mi pongo dalla parte della lentezza, del lento assaporare la bellezza che ti sta intorno in montagna, il piacere di fermarsi ad osservare un fiore e nel vedere il paesaggio che muta intorno a me mentre cammino lentamente.

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