Il regno della wilderness

Il regno della wilderness
(scritto nel 1999)

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)

«Going to the mountains is going home» aveva sentenziato John Muir. Da questo semplice (ma assai importante) concetto parte Luigi Zanzi per sbozzare la sua teoria sulla «saggezza selvatica». L’etica è in continua evoluzione: sta maturando una prospettiva «eco-etica» che potrebbe portare, attraverso vie di sicuro difficili e labirintiche, alla nostra interiorità. La chiave della natura selvaggia potrebbe davvero portarci al viaggio più impegnativo, quello dentro noi stessi, proprio ciò che diceva Muir. Zanzi però insiste sulla differenza che passa, in questo cammino, tra l’avere astratte pre-concezioni naturalistiche e l’affidarsi totalmente, di volta in volta e «fattualmente», alla fontana di vita che è l’esperienza della natura. Il concetto di natura non è più un’entità astratta, un mondo ridotto alla ripetitiva esibizione dei propri segreti modi di funzionare, bensì è un processo immerso nel tempo, una realtà fattuale sempre mutevole. Hans Peter Duerr diceva di evitare di fare della wilderness un giardino in cui il disordine viene ordinato dall’uomo e in cui l’estraneità naturale venga estraniata con una visione meccanica alla Cartesio. Il nostro viaggio interiore deve rifarsi a una versione eraclitea della natura, dove tutto scorre e diviene storia, abbandonando Parmenide che con la visione statica avrebbe neutralizzato anche la selvaticità. «La foresta montana della Val Grande, che è una sorta di provincia della selvaticità, sita appena svoltato l’angolo dalla provincia della cultura, è un’occasione propizia, a portata di mano come poche altre per un tale viaggio (Mario Pavan, Val Grande, storia di una foresta.

Dalla Cima Sasso sulla Valgrande e sul Lago Maggiore. 8 luglio 1999.

L’area selvaggia più vasta d’Italia è situata nelle Alpi Lepontine Meridionali, tra il Lago Maggiore, l’Òssola, le valli Vigezzo, Cannobine e Intrasca. La Val Grande, con l’attigua Val Pogallo, occupa circa 10.000 ettari. Da una prima Riserva Naturale Integrale del 1967, nella seconda metà degli anni Ottanta si creò il Parco Nazionale della Val Grande, sotto la tutela del Corpo Forestale dello Stato. La wilderness è recente, di ritorno, in seguito a un’epoca di relativa colonizzazione di queste montagne. Qui l’abbandono è stato totale, privo di mezze misure, e la natura si è riappropriata del territorio. Non ci sono veri e propri rifugi, c’è qualche ricovero e solo un bivacco fisso forestale all’Alpe In La Piana. Cicogna, l’antica Siquigna, è il capoluogo. Di essa, verso la fine del XIX secolo, Edmondo Brusoni scriveva sinteticamente: «Due ore circa dopo Cossogno giungesi a Cicogna. Osteria di Pietro Bensi. Guida: Bensi Felice. Presso l’abitato fontana eccellente». La polla, un po’ trascurata, c’è anche oggi. Ancora negli anni Trenta chi arrivava a Cicogna trovava la gente un po’ spaurita di fronte agli estranei. La strada arrivava solo fino a Ponte Casletto, l’isolamento era palpabile, specie d’inverno. Nel 1888 caddero tre metri di neve e le due squadre di spalatori, da Cossogno e da Cicogna, s’incontrarono alla Cappella del Gasc. Ma gli abitanti nel 1920 erano ancora oltre 800. Agli alpeggi si produceva il burro, che veniva portato al mercato di Intra al sabato. La domenica era per la messa e per le osterie, che erano davvero tante: il Massera, il Luisatt, la Graziosa, la Maria, la Pasqualina, il Circolo. Poi c’erano le castagne, le ciliegie, le galline e i maiali. Con la «fluitazione» nei torrenti si riusciva a portare a valle il legname. Si lavorava sempre, neppure a Natale c’era festa: solo i bambini giravano per il paese con un ginepro acceso per scaldare il Bambino. Il primo presepe lo fece don Giulio Lilla negli anni Venti e fu un avvenimento, quasi come la costruzione della strada da Ponte Casletto che sempre lo stesso sacerdote si adoperò per ottenere. Assieme ai rastrellamenti, ci fu nel giugno 1944 un cannoneggiamento tedesco che distrusse in buona parte il vecchio abitato. Oggi ci sono la luce, il telefono, la trattoria: niente scuola, né parroco fisso. Non c’è ancora un Centro Visita di accoglienza al parco e i villeggianti estivi sono in buona parte originari del luogo.

Parco Nazionale della Valgrande, dal crinale di Cima Sasso verso il Lago Maggiore, Piemonte. 9 luglio 1999.

«C’è una crescente domanda di natura nel nostro continente, una tendenza che, ove non governata appropriatamente, potrebbe di­struggere il nostro fragile ambiente. Ma abbiamo anche una forza diversa, e possiamo dimostrare che la forza delle idee è in grado di sovrastare il potere degli interessi particolari. Per riuscire in questo, dobbiamo andare assai al di là della mera ecologia, raggiungendo i meccanismi decisionali, penetrando pro­fondamente nella mente e nel cuore della gente. Dobbiamo preser­vare non solo le risorse, ma anche il patrimonio d’Europa, non solo il suo volto ma anche la sua anima. Qui è la culla della no­stra civiltà, la fonte di tutto ciò che conosciamo ed amiamo: la storia, l’arte, la filosofia, la letteratura, la scienza, la de­mocrazia, le profonde radici della società in cui viviamo. Solo in questo modo potremo avere l’autorità morale per diffondere nel mondo il nostro messaggio di conservazione (Franco Tassi)».

Da Cima Sasso (Cima Nord) sul Monte Pedum e Cima Laurasca, Valgrande. 9 luglio 1999.

Eccoci all’alba sulla vetta della Cima Sasso, proprio di fronte al Monte Pedum 2111 m. Non c’è vento, non ci sono rumori. Dal lago non giunge nulla, dai torrenti neppure. Forse lo scroscio delle acque è smorzato dalla vegetazione rigogliosa di giugno. Il lago riluce, poi l’orizzonte sbianca in leggerissima foschia, con il binocolo si potrebbe vedere il Duomo di Milano, che non dista neppure ottanta km. Questo silenzio irreale è l’elemento più forte del caos che ci attornia. Canaloni, creste, dirupi, lontani ruderi e alpeggi abbandonati, talvolta invisibili tra i rovi e i lamponi, si rincorrono a panorama circolare e in questo silenzio esprimono la grande tristezza di questa wilderness tanto forzosa quanto necessaria e salutare. Non si vede un fil di fumo, non ci sono rintocchi di campana, non ci sono echi: e così lo sguardo impercettibilmente è attratto dalle lontane creste bianche del Monte Rosa e dei Mischabel, più conosciute di queste vicine e tremende immagini verdi in cui il passato sembra aver fatto pesare tutta la sua realtà più tragica. Cosa potrebbe dipingere oggi Giovanni Benzi, il locale pitur? Pare abbia ucciso circa 700 camosci. Lui andava in montagna con il fucile e la tela con i colori. Ritraeva i paesaggi e la gente degli alpeggi. Peccato che dei suoi lavori sia rimasto poco. Ma allora su queste montagne c’era vita umana e passeranno ancora molti anni prima che le tracce dell’uomo siano del tutto sepolte. Allora forse il pitur tornerà.

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Il regno della wilderness ultima modifica: 2019-07-13T05:26:41+02:00 da GognaBlog

5 pensieri su “Il regno della wilderness”

  1. Bello il tuo commento Alberto. La stessa cosa caratterizza l’Appennino centrale.

  2. Secondo me la parola wilderness non si addice ai territori selvaggi delle Alpi e degli Appennini, meglio dire territori abbandonati dagli uomini. L’abbandono delle attività umane, soprattutto pastorizia e taglio dei boschi, in Val Grande è iniziato dopo la seconda guerra mondiale, per cui sono più di settant’anni che non vi si tagliano alberi, che la maggior parte degli alpeggi, bruciati dai nazifascisti nei rastrellamenti del 1944, non sono più inalpati, che l’immensa rete di sentieri che li servivano, tranne i principali, non è stata ripristinata. La natura ha quindi avuto settant’anni per crescere e vivere indisturbata. Anche una città come Milano, abbandonata dagli uomini per settant’anni e lasciata a se stessa, sarebbe colonizzata dalla flora, ricoperta di verde, e popolata dagli animali selvatici. L’interesse della Val Grande è anche dovuto alle vestigia rimaste della civiltà contadina, una specie di parco archeologico di quando era una vera città nei boschi abitata da migliaia di contadini e boscaioli. La frequentazione turistica degli ultimi dieci-quindici anni si è limitata ai tre o quattro sentieri principali che l’attraversano, che si percorrono in due o tre giorni di cammino con pernottamenti in bivacchi molto spartani. Per un paio di quei sentieri sta diventando un problema l’affollamento, che in certe giornate di punta, soprattutto in autunno arriva a una cinquantina di persone. Fuori da questi sentieri non si trova quasi mai nessuno, e se si trova qualcuno spesso è perché si è perso.

  3. Ho chiesto perché io sono cresciuto nelle zone interne di Marche e Abruzzo (Sibillini, Laga, Gran Sasso) dove effettivamente c’è ancora zona selvaggia ad ampio raggio, a cercarla.

  4. Bisogna vedere cosa si intende con area selvaggia e come la si vuole misurare. Basta la mancanza di strade e abitati o devono mancare pure i sentieri, rifugi e bivacchi? Sicuramente nei 20 anni trascorsi da questo articolo molto è cambiato e qualcosa si è perso. La frequentazione è aumentata al punto che, almeno nei weekend di alta stagione e lungo i sentieri principali, non penso si possa più legittimamente parlare di area selvaggia

  5. È ancora davvero e ancora la più vasta d’Italia? Chiedo perché non l’ho mai vista.

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