Il ruggito del vento
(la prima salita invernale del Makalu)
di Simone Moro
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2009)
La mia prossima spedizione sarebbe stata speciale indipendentemente dall’obiettivo. Era il mio 40° viaggio fuori dall’Europa e, come quando avevo compiuto 40 anni un anno prima, ha segnato un inevitabile punto di riflessione. Ho iniziato l’alpinismo in alta quota nel 1992 sull’Everest, dove ho contratto un edema cerebrale a 7400 metri a causa di un acclimatamento affrettato. Quest’anno, la pietra miliare della mia 40a spedizione è culminata 1.000 metri più in alto (e a -40°C) sulla vetta del Makalu.
Ma questo non è stato l’unico anniversario che ho celebrato su Makalu. Questo è stato il decimo anno della mia amicizia con Denis Urubko, un’amicizia e una collaborazione nata nel Tien Shan e nel Pamir durante il programma “speed” Snow Leopard, che tentava in rapida successione le cinque cime oltre i 7000 metri nell’ex Unione Sovietica. Denis le ha scalate tutte in soli 42 giorni; io mi sono fermato dopo quattro cime in 38 giorni.
Il Makalu in inverno è stata la nostra settima spedizione insieme e aveva il potenziale per essere una pietra miliare nell’arrampicata himalayana, dal momento che il Makalu, dopo ben 13 spedizioni invernali in 29 anni di tentativi, era l’unico 8000 nepalese rimasto inviolato nella stagione rigida. Era stato tentato da molti dei migliori alpinisti, a partire dal dicembre del 1980 (anno della prima salita invernale su un Ottomila, l’Everest) con il trio di Renato Casarotto, Mario Curnis e Romolo Nottaris. Negli anni successivi il Makalu fu tentato da una spedizione britannica, Ivan Ghirardini (in solitaria), Andrzej Machnik e la sua squadra polacca, Reinhold Messner e Hans Kammerlander, Krzyzstof Wielicki (due volte), una spedizione spagnola, Jean-Christophe Lafaille (in solitaria, tragicamente) , e, più recentemente (nel 2008), Denis Urubko e Serguey Samoilov, insieme a Nives Meroi e suo marito, Romano Benet.
Quest’anno la montagna avrebbe passato l’inverno indisturbata, se non fosse stato per i nostri amici polacchi sul Broad Peak. Avevo tentato questa cima di 8047 metri in Pakistan nei due inverni precedenti. Avevo già scalato la montagna nell’estate del 2003 in 29 ore. All’inizio del marzo 2008, sono tornato indietro di malavoglia quando ero molto vicino alla cima, a 7840 metri. Ho deciso di non andare avanti perché erano già le 14, e non avevo intenzione di uccidermi andando oltre il limite di tempo dettato dal buon senso. Basta considerare quello che è successo nel 2008 con gli incidenti sul K2… È stata una decisione dolorosa ma necessaria tornare indietro, e probabilmente mi ha salvato la vita, ma avevo ancora un desiderio ardente di finire la partita, ed ero pronto, quindi, per un terzo tentativo sul Broad Peak nell’inverno del 2009. Tuttavia, non volevo affrontare la montagna con una grande squadra.
La presenza della spedizione polacco-canadese di Artur Hajzer mi ha costretto a fare una scelta. Avrei potuto accettare la loro gentile offerta di unirmi al loro gruppo, oppure scegliere un altro obiettivo con Denis. Ho scelto la seconda opzione, più costosa e scomoda, ma più in linea con il mio stile di arrampicata preferito. Denis ha subito accettato il mio invito a tentare il Makalu, grazie alla nostra amicizia e alle sue opinioni, simili alle mie, sullo stile appropriato per l’arrampicata in alta quota, nonché al suo stesso desiderio di regolare i conti con il Makalu.
In fretta abbiamo deciso una strategia e uno stile di salita diversi rispetto alla maggior parte dei precedenti tentativi invernali su vette di 8000 metri. Tanto per cominciare, ci siamo acclimatati nella regione del Khumbu, per non vedere il Makalu e diventare così ossessionati o nauseati dalla montagna, come spesso accade quando bisogna aspettare settimane, se non mesi, per il bel tempo al campo base. Il nostro acclimatamento è stato molto rilassante, con il bel tempo. Ci siamo spinti due volte verso i 5600 metri e siamo rimasti per alcune ore ai nostri punti più alti.
Nel frattempo la nostra carovana di portatori procedeva lentamente verso il Makalu, ostacolata dalla neve farinosa profonda che si era accumulata nelle strette valli di Arun, finché non ci giunse la drammatica notizia che non avrebbero potuto fare ulteriori progressi. Abbiamo dovuto interrompere il nostro acclimatamento e tornare rapidamente a Kathmandu, dove ci siamo organizzati per noleggiare l’unico elicottero russo disponibile e volare al villaggio di Tashigaon, dove i portatori si erano ritirati. In due viaggi abbiamo trasportato tutto al campo base di Hillary a 4900 metri. Questo giochino ci è costato quasi 20.000 dollari…
Il tempo al Makalu era buono, ma il freddo era feroce, aggravato anche dal vento. Abbiamo fatto un’altra escursione di acclimatamento a 5800 metri vicino al campo base, e poi, sfruttando al meglio il cielo terso, siamo andati direttamente al campo base avanzato (ABC) a 5650 metri, sotto la parete ovest del Makalu, con solo una minuscola tenda, un piccolo fornello e cibo sufficiente per alcuni giorni. Dopo una notte all’ABC, abbiamo proseguito il giorno successivo verso il Campo 1 a 6100 metri, e il giorno successivo verso il Campo 2 a circa 6900 metri. La mattina seguente siamo saliti a 7050 metri e poi siamo scesi fino al campo base avanzato. Nel frattempo, il nostro cuoco, assistente cuoco e tre portatori, che erano tutti volati con noi al campo base, si erano uniti a noi al campo base avanzato.
Nonostante fossimo saliti oltre il Campo 2, non abbiamo lasciato tende montate lungo il percorso. Questa è stata la nostra seconda decisione tattica chiave. Temevamo che il vento potesse spazzare via qualsiasi accampamento che avessimo allestito, quindi abbiamo pianificato di rimontare la nostra tenda in ogni sito di bivacco ogni volta che ci spostavamo su per la montagna. Il vento è stato il nostro compagno costante sul Makalu. Di notte ruggiva continuamente, come decine di aerei in decollo.
Una volta allestito il campo base avanzato, abbiamo fatto un’altra ricognizione, salendo a 7350 metri. Appena sotto il valico del Makalu La, siamo stati quasi travolti dal vento. Ora pensavamo di essere pronti per tentare la vetta. Dovevamo solo aspettare le previsioni del giorno della vetta con vento a meno di 100 km/ora, e poi saremmo saliti in cima. Il segnale di partenza sarebbe arrivato dall’austriaco Karl Gabl, cui stavamo telefonando per i bollettini meteorologici. Karl è da anni l’unica persona di cui mi fido per le previsioni del tempo e Denis si fida di me. La nostra fiducia è stata messa alla prova il 6 febbraio, quando le nostre osservazioni sulle condizioni locali ci hanno indotto a iniziare la nostra spinta verso la vetta. Ma Karl ha insistito sul fatto che il vento sarebbe stato troppo forte e ho deciso di evitare questo rischio aspettando un giorno e accettando un altro rischio: che la previsione fosse sbagliata!
Alla fine, questa terza decisione tattica ha dato i suoi frutti.
Il 7 febbraio 2009, con una previsione di tre giorni di vento tra 70 e 90 km/h, siamo saliti al Campo 1 in 1 ora e 9 minuti, per poi procedere al Campo 2 in altre 2 ore e 20 minuti. Qui, abbiamo passato un’ora a scavare la piazzola per la tenda e a disseppellire un fornello che avevamo messo in una buca di neve. Piantammo la tenda e passammo la notte lì. Alle 7 del mattino dell’8 febbraio partimmo all’ombra e con vento molto forte, risalendo il tecnico canalino di ghiaccio fino a Makalu La, per poi proseguire fino a 7650 metri. Ci accampammo lì e aspettammo il pomeriggio e le prime ore della notte. Il freddo era quasi insopportabile e il vento sembrava pronto a strappare via la tenda, anche se l’avevamo legata meglio che potevamo.
La sveglia è suonata alle 3 del mattino del 9 febbraio. Siamo lentamente strisciati fuori dai nostri sacchipiuma e abbiamo iniziato a preparare la colazione e la nostra attrezzatura per la vetta. Tutti i nostri movimenti erano molto lenti e ponderati, ma eravamo anche in grado di fare battute, un buon segno. Alle 6 del mattino eravamo fuori dalle tende e ci siamo mossi il più velocemente possibile mentre ci toglievamo i guanti per mettere i ramponi e legarci ai nostri 25 metri di corda da 7 mm. Era ancora buio, con un forte vento. Siamo saliti verso i grandi seracchi che avevamo individuato il pomeriggio precedente come punti di riferimento per le ore antecedenti l’alba, per poi aggirarli e dirigerci verso i canaloni di neve e roccia che portano alla cresta sommitale. Salimmo costantemente, scambiandoci di tanto in tanto qualche parola.
Stavamo andando molto bene, ma più salivamo in alto più il vento diventava violento. Dopo aver raggiunto il termine del canalone di neve a 8200 metri e quando ci siamo addentrati nel canalone misto di ghiaccio e roccia, la salita è diventata una vera battaglia contro le raffiche di vento e il freddo. Oltre ai problemi di quota e alla fatica accumulata nei tre giorni precedenti di arrampicata in autonomia, eravamo ancora all’ombra del bacino settentrionale del Makalu. Poi, sulla cresta sommitale, siamo stati totalmente esposti al vento, che quel giorno ha soffiato fino a 100 km/h. Sempre incordati, ci siamo fermati più volte ad assicurarci nel canale di misto e lungo la cresta, stando molto attenti a non sbagliare o perdere l’equilibrio nelle raffiche.
Alle 13.53 sono salito in vetta: l’ultimo degli 8000 nepalesi era stato scalato in inverno. Scesi e Denis fece il suo turno sul triangolo aguzzo della vetta, preparandosi alle raffiche.
Ventiquattro ore dopo eravamo di nuovo al campo base, senza lasciare nulla dietro di ciò che avevamo portato su per la montagna.
Per la cronaca, in alcuni punti della via abbiamo trovato vecchie corde fisse di vario diametro e in varie condizioni; abbiamo scavato e legato alcune di queste corde e le abbiamo utilizzate durante la salita e la discesa, principalmente sotto il Makalu La. Abbiamo anche trovato una corda fissa negli ultimi 30 metri della salita, che portava a meno di cinque metri dalla vetta, e l’abbiamo agganciata per una maggiore sicurezza, ma non ci siamo mai appesi alla corda perché era parzialmente danneggiata. Onestamente, quell’aiuto che abbiamo ricevuto da quei pochi metri di corda fissa era come una goccia d’acqua in un oceano. Per definizione, non abbiamo scalato il Makalu in stile alpino, ma l’abbiamo scalato velocemente, leggero e pulito.
Solo 19 giorni dopo il nostro arrivo al campo base, la spedizione si era conclusa con il miglior risultato possibile. Dopo 29 anni di tentativi, Denis ed io avevamo chiuso un importante capitolo nella storia dell’alpinismo, e vogliamo rendere omaggio a chi ci ha preceduto in questo sogno. Abbiamo solo finito ciò che altri hanno iniziato. Ovviamente, sono orgoglioso di aver avuto successo nelle due sole invernali riuscite dal 1988 in poi: Shisha Pangma nel 2005 e Makalu nel 2009. Entrambe le volte, ero in cima con un solo compagno. Solo due mesi dopo la nostra scalata sul Makalu, Piotr Morawski, il mio compagno dello Shisha, è morto in un crepaccio sul Dhaulagiri, l’8 aprile 2009, e ancora una volta mi sono ritrovato in ginocchio. Ho perso troppi amici in Himalaya. Tuttavia, continuerò a tentare di realizzare i miei sogni, molti dei quali sono stati condivisi con amici che ora sono perduti.
Sommario
Zona: Mahalangur Himal, Nepal
Ascensione: Prima salita invernale del Makalu 8485 m di Simone Moro (Italia) e Denis Urubko (Kazakistan). I due uomini hanno scalato la cresta nord-ovest dopo punte di acclimatamento fino a 7350 m. Partendo dal campo base avanzato il 7 febbraio, hanno bivaccato a 6900 m e a 7650 m prima di raggiungere la vetta il 9 febbraio 2009.
Una nota sull’autore (datate 2009, NdR)
Simone Moro è nato nel 1967 e vive a Bergamo, in Italia, con la moglie e la figlia. Ha iniziato la sua carriera di alpinista professionista a metà degli anni ’80. Nell’estate del 2008, Moro ha completato la prima salita del Beka Brakai Chhok 6940 m in Pakistan, con Hervé Barmasse.