Transecologia
(la doppia transizione)
di Danilo Selvaggi
(pubblicato su Simbiosi n. 5, gennaio 2022)
Userò il termine transecologia per indicare l’ecologismo della transizione e il suo compito primario, che è un compito interiore. Prima ancora che il passaggio a una società sostenibile, evento di cui peraltro non si può più fare a meno, per transizione ecologica dovremmo intendere il processo culturale interno all’ecologismo mediante cui sia possibile congiungerne le due anime, i due pensieri, storicamente divisi.
È la divisione tra una via di ispirazione illuministica, con il suo concetto scientifico, tecnico, “positivo”, istituzionale, societario della realtà, e una via di ispirazione romantica, segnata da una idea culturale, poetica, “negativa”, comunitaria. Polarizzando, possiamo definirla la divisione tra l’ecologismo della tecnica (e dell’utile), per il quale la natura è l’insieme di beni e servizi da utilizzare con pratiche opportune e (una certa) parsimonia, e l’ecologismo della coscienza (e del giusto), per cui la natura è il Grande Altro, un ambito da sottrarre allo sfruttamento incondizionato delle società umane e, al tempo stesso, un tesoro in termini di ricchezza spirituale, senso di giustizia, autorealizzazione. Una divisione non di dettaglio ma profonda, da cui derivano teorie politiche, sociali ed esistenziali molto diverse.
La transizione che primariamente ci attende, la missione iniziale e urgente della transecologia è conciliare le due anime, guardarle, come direbbe Gregory Bateson, in una prospettiva più vasta.
La grande nube nera
Perché questa missione si compia, serve anzitutto una riappropriazione benefica della tecnica, abbandonando il pregiudizio secondo cui la tecnica sia, sempre e di per sé stessa, una forma di inautenticità che insidia le nostre vite. Come una grande nube nera, il tema ha aleggiato su parte del pensiero contemporaneo e contribuito alla stessa nascita dell’ecologismo, spinto dalle pesanti ricadute della rivoluzione industriale in termini di disumanizzazione e distruzione della natura.
Eppure, almeno in parte, quella della tecnica è una profezia che si autoavvera. È la trasformazione di eventi storici, per quanto molto potenti, in un destino metastorico, da cui non sarebbe possibile sottrarsi. Parafrasando Mark Fisher, potremmo definirlo una sorta di realismo tecnicista secondo il quale è più facile la fine del mondo che la redenzione della tecnica. In sostanza, non sono gli esseri umani che governano la tecnica ma è la tecnica, come entità autonoma, intelligente, irriducibile, trascendente, che governa gli esseri umani. Il che è certamente vero ma solo nella misura in cui noi facciamo in modo che sia vero. Si tratta, d’altronde, di uno dei drammi della modernità occidentale, dimostratasi non del tutto in grado di orientare la razionalità, significarla, integrarla con i valori e i perché della vita, accettando infine di essere in un mondo che, in buona parte, ha perso di senso.
È così che dunque si arriva alla polarizzazione: da un lato il tecnoscetticismo, spesso ombroso e scoraggiato, dall’altro la tecnocrazia, impersonale e talvolta spietata. Una tecnocrazia che nell’impresa della transizione ecologica trova, più che una sincera preoccupazione, il terreno di vecchi ideali e nuove conquiste.
Salvezza come manipolazione
Sono molto indicative le ragioni che, in Cantiere Terra, Thomas M. Kostigen porta a sostegno della sua conversione da un ecologismo dei piccoli passi alla geoingegneria. “Negli anni – scrive Kostigen – ho sempre sostenuto che se la massa facesse dei piccoli passi per salvare il pianeta, potremmo farcela… centinaia di piccoli gesti che è possibile compiere per produrre meno rifiuti, promuovere il risparmio energetico e ridurre il consumo di acqua“. Insomma, “una maggiore educazione e consapevolezza ambientali“, nella convinzione che “le azioni di ciascuno di noi influenzano tutti gli altri“. Oggi, con la crisi ambientale che pare inarrestabile, Kostigen si rende conto “che le nostre iniziative di attivisti ambientali non bastano“. E dunque, “visto l’ambiente ostile che ci aspetta“, conclude che “dobbiamo scegliere un approccio più estremo per combattere i cambiamenti climatici. Ci serve una soluzione definitiva“.
Tale soluzione è, per Kostigen, la geoingegneria, la “manipolazione su larga scala di processi ambientali che influiscono sui cambiamenti climatici terrestri allo scopo di contrastare gli effetti del riscaldamento globale“. È questa, secondo Kostigen, “l’unica arma da usare se vogliamo avere una minima speranza di resistere alla furia della natura“.
“Molti ambientalisti – continua Kostigen – sono contrari a questo concetto. Temono che i cittadini possano abbandonare le misure di salvaguardia ambientale, come ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili. E che la società si affidi invece a soluzioni di non comprovata efficacia“. E invece, dice Kostigen, dobbiamo fare proprio questo: ricorrere alle applicazioni dell’ingegneria climatica perché in grado di “gestire meglio gli elementi naturali che ci garantiscono la sopravvivenza – la terra, i mari, le fonti di cibo e acqua dolce e altri ancora“. “Prendere la natura nelle nostre mani“: questo, secondo Kostigen, è il compito di un’umanità che voglia salvarsi. Salvezza come manipolazione.
L’ecologismo tolemaico
Sarebbe interessante, ma qui non possibile, soffermarci sulla terminologia (gestire, manipolare, armi, furia della natura, approccio estremo, soluzione definitiva) che correda il ragionamento di Kostigen, il cui interesse per la crisi ambientale resta peraltro autentico. La domanda è: cosa ci sarebbe di diverso, in questo approccio, da quello che abbiamo avuto finora? Cosa, oltre a un’accelerazione dei processi tecnologici e alla consapevolezza che la crisi ambientale si è aggravata? La quale ultima cosa è esattamente il frutto dello schema mentale che sembra stare alla base del programma geoingegneristico: la biosfera come questione gestionale, in un senso (acquisizione di risorse) e nell’altro (soluzione di problemi).
In sostanza, noi oggi dovremmo affrontare, con nuove tecnologie manipolatorie, problemi ambientali generati da tecnologie manipolatorie, le quali nuove tecnologie manipolatorie genereranno verosimilmente nuovi problemi ambientali che richiederanno nuove tecnologie manipolatorie. Evidentemente, siamo molto lontani dalla soluzione definitiva auspicata da Kostigen. Anzi, all’opposto, siamo dinanzi a una soluzione in-definitiva, che riapre e rilancia continuamente il problema, aggravandolo a ogni giro.
Anziché stabilizzare la situazione, ripristinando rapporti più armonici tra – perdonate la semplificazione – umano e naturale, riportando le attività umane entro i confini della sicurezza planetaria, le “soluzioni definitive” della geoingegneria destabilizzano, scuotono, violano altri confini, svegliano altri giganti problematici, giocano con quelli che Kostigen stesso definisce azzardi morali declinati sotto forma di azzardi ambientali. Azzardi pericolosi in se stessi e che diventano pericolosissimi se vanno a innestarsi su una base di grande pericolo già in atto.
Il bias di questo approccio è certamente socio-economico (il rifiuto di certi attori di rinunciare ai privilegi dell’attuale modello hard di sfruttamento della natura e organizzazione sociale), nonché di oggettiva difficoltà dei processi (si tratta di smontare intere infrastrutture materiali e immateriali), ma anche, più essenzialmente, di forma mentis: una sorta di ecologismo tolemaico convinto che nove milioni di specie girino intorno alla specie umana come il Sole di Tolomeo girava intorno alla Terra. Cioè, che la classe “esseri umani” sia l’unica che conta e tutto il resto è finalizzato al suo appagamento. Che dunque per quattro miliardi di anni la Terra abbia atteso la comparsa della specie homo e solo allora abbia finalmente acquisito una funzione (nella fattispecie, di servitù). Un pensiero scientificamente errato, moralmente ingiusto, ambientalmente distruttivo, prospettivamente devastante. Un enorme azzardo.
Ridare la Terra alla Terra
Come modificare questo pensiero? In termini generali, capovolgendone l’assunto di base, da siamo i soli che contano a non siamo i soli che contano, e riorganizzando, intorno a questo nuovo principio, mentalità e pratiche umane. Qui entra anche in gioco, tra gli altri, l’obiettivo che la natura sia restituita a se stessa mediante l’ampia dis-occupazione di spazi oggi antropizzati. Un impegno stringente, se davvero si desidera che la biodiversità continui ad arricchire l’avventura del pianeta Terra. Edgar Wilson ha quantificato in metà della Terra, con l’istituzione di “riserve inviolabili”, la dis-occupazione necessaria.
Le quote della nuova Strategia europea per la biodiversità sono meno ambiziose ma non poco significative, essendo peraltro provviste di carattere altamente istituzionale: il 30% del territorio europeo, terrestre e marino, da destinare a tutela efficace e il 10% a una protezione rigorosa, secondo un modello riconducibile a quello della wilderness.
Il punto che qui ci interessa, in chiave transecologica, è che questa visione è al tempo stesso romantica e illuministica, cioè in grado di unificare, ovvero far convergere gli approcci dell’utile e del giusto. Restituire la Terra significa da un lato rendere la giusta opera, materiale e morale, al resto del vivente che della omni-occupazione umana paga un grande prezzo, e dall’altro creare tecnicamente le condizioni affinché i beni e i servizi che la biosfera offre all’umanità siano risanati e preservati. Significa cioè soddisfare tanto il bisogno di una relazione più autentica con l’altro da noi naturale, quanto la necessità di garantire al genere umano un utile sufficiente e duraturo. Come dire: opportunità ed etica, convenienza e giustizia, assieme.
Salvezza come integrazione
Analogamente, un passaggio obbligato consiste nel doppio superamento 1) della credenza calda che la coscienza (la cultura, l’educazione, il sentire) possa fare a meno della tecnica, e 2) della convinzione fredda che la tecnica (la scienza, i dati, l’ingegno) possa fare a meno della coscienza. Cioè, l’errore speculare dei fini che non necessitano di mezzi e dei mezzi che hanno perso contatto con i fini.
È del tutto irrealistico immaginare che la conversione ecologica di miliardi di persone, che praticano stili di vita impattanti e radicati e hanno industrializzato gran parte del pianeta, possa avvenire solo per mezzo di un grande moto di coscienza. Per questa gigantesca impresa, un uso persino massiccio di tecniche (strumenti, metodi, processi ma anche istituzioni e organizzazione) è indispensabile. Altrettanto irrealistico (meglio: irragionevole) è ipotizzare un futuro di totale razionalizzazione del vivente, in cui, in ultima analisi, nemmeno siamo più in grado di cogliere la ragione per cui vale la pena vivere.
Del resto, per tornare ai casi illustrati da Kostigen, esiste una netta differenza tra la creazione di insediamenti umani negli oceani e la trasformazione ecologica delle città, o tra il progetto di catturare un asteroide per allontanare la Terra dal Sole e lo sviluppo di nuovi materiali sostenibili per l’edilizia, o tra la completa ingegnerizzazione dell’agricoltura e un’agricoltura che, ai principi dell’agroecologia e alla lotta agli sprechi, abbini tecniche avanzate e opportunamente mirate. O ancora, tra le enormi distese di eolico e fotovoltaico impiantate sugli ultimi territori italiani non antropizzati e una strategia variegata che affronti cambiamenti climatici e conservazione della natura come un’unica sfida.
La differenza non è di grado, o di modi, ma di mondi: un mondo che, in ultima analisi, porta alla sostituzione della natura con una seconda natura, postnaturale, grazie a cui si possa ancora consumare ai ritmi attuali; l’altro, che sostanzia le nostre tecniche con solidarietà, comprensione, pensiero, sobrietà, persino irrazionalità, e le rafforza con le straordinarie nature based solutions offerte copiosamente dalla natura. Potendoci a quel punto permettere di godere persino del supporto delle tecnologie più avanzate, esponenziali, sapendo che la ragione e i fini che le guidano sono garantiti e volti al bene.
“Non sono per la cieca opposizione al progresso“, scrive a fine Ottocento John Muir, “ma per l’opposizione al progresso cieco“. Ecco un’idea semplicemente transecologia e più attuale che mai: un progresso che vede, possiede una visione, sa agire per il bene allargato, umano e non umano.
La visione e la realtà
I segnali che giungono dai programmi istituzionali di transizione ecologica sono contraddittori: di speranza e di timore. Candidatasi con il Green Deal a guidare la transizione mondiale, l’Unione europea non manca di mostrare la sua doppiezza, tra i programmi ambientali e i programmi di sviluppo.
Una doppiezza analoga a quella italiana: ampiamente deludenti, ove non preoccupanti, i contenuti del Recovery Plan, con uno scarno 1,5% dei fondi destinati alla biodiversità e la semplificazione delle procedure ambientali, confortanti i primi segnali che giungono dalla Proposta di Piano per la transizione ecologica, il documento generale che guiderà la transizione del Paese.
La versione trasmessa al Senato della Repubblica nello scorso agosto per l’acquisizione dei pareri, assegna alla biodiversità una linea di azione specifica (la numero 6) e recepisce obiettivi rilevanti della Strategia europea, sulla cui base l’Italia si impegna, tra l’altro, ad estendere le aree protette terrestri e marine al 30% del territorio nazionale, proteggere rigorosamente gli habitat, tutelare le specie, favorire la connettività ecologica, agire su Natura 2000, ecosistemi, mare, foreste, nature based solutions, biodiversità urbana, suolo, agroecologia.
Il tutto arricchito da passaggi testuali che, in un contesto di tale rilievo istituzionale, assumono una valenza notevole: dall’urgenza di avviare una “trasformazione radicale degli assetti economici, industriali e sociali attuali” al paragrafo dal titolo Una rivoluzione culturale, in cui si afferma che “la transizione ecologica dovrà far sì che ogni azione divenga naturale, nel senso che risulti semplice e conveniente nelle relazioni rispettose tra Homo sapiens e il pianeta in cui vive e che consegnerà alle future generazioni“. “La nostra – aggiunge sulla falsa riga il recente Quarto Rapporto sullo Stato del Capitale Naturale in Italia – deve essere la prima generazione che lascia i sistemi naturali e la biodiversità dell’Italia in uno stato migliore di quello che ha ereditato“.
È davvero giunto il momento della svolta? È soltanto visione o anche realtà? Non possiamo ancora dirlo. La portata della sfida è immane e le difficoltà, gli ostacoli, i conflitti saranno senza precedenti. Potrebbe dunque accadere che il carattere della transizione che adotteremo risulti infine tutto tecnologico e per niente coscienzioso, in un’operazione mirata al mero mantenimento dello status quo. Ma è per questo che l’ecologismo, inteso in senso lato, è oggi chiamato a un ruolo ancora più alto e a un impegno doppio: quello di spingere per una trasformazione vera, che metta la natura al centro delle nostre vite e ci conduca verso un pianeta più sano, una società migliore, e quello interno, transecologico, capace di sanare l’antica frattura tra la mente e il cuore, mettere assieme le grandi politiche e i piccoli passi, integrare la tecnica con i valori e potenziare i valori con la tecnica.
Il pensiero secondo cui la visione è solo dei sognatori (che desiderano la realtà) e la tecnica è solo dei tecnocrati (che progettano la realtà) è ormai insostenibile, ecologicamente superato. Non abbiamo più bisogno né di una visione senza realtà, né di una realtà senza visione. Dobbiamo guardare, ed agire, in una prospettiva più vasta.
Bibliografia e documenti
Thomas M. Kostigen, Cantiere Terra. Come l’ingegneria climatica può salvare il pianeta, Luiss 2021;
Edward O. Wilson, Metà della Terra. Salvare il futuro della vita, Codice 2014;
John Muir, Andare in montagna è tornare a casa. Saggi sulla natura selvaggia, Piano B 2020;
John. R. McNeill, Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XXsecolo, Einaudi 2020 (nuova edizione);
Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero 2018;
Commissione europea, Riportare la natura nella nostra vita. Strategia dell’Ue sulla biodiversità per il 2030;
Comitato interministeriale della transizione ecologica (Cite), Proposta di Piano per la Transizione ecologica, 2021;
Comitato Capitale Naturale, Quarto Rapporto sullo Stato del Capitale Naturale in Italia, 2021.
Danilo Selvaggi
Nato a Matera nel 1968, vive a Roma. È Direttore generale della Lipu – BirdLife Italia, di cui è già stato responsabile dei rapporti istituzionali e delle politiche ambientali. È membro del Comitato nazionale per il Capitale naturale, con il quale ha contribuito alla Terza (2020) e alla Quarta (2021) edizione del rapporto sul Capitale naturale in Italia. È consigliere della Fondazione Roffredo Caetani. Dal 2006 al 2008 è stato consigliere del Ministro dell’Ambiente per le normative naturalistiche, curando, tra le altre cose, la redazione e l’emanazione del decreto per le misure di conservazione della rete Natura 2000. Laureato in filosofia, si occupa dei risvolti ambientali delle discipline filosofiche e di ecologia della cultura, curando, tra l’altro, la rubrica “Apertura” sulla rivista Ali. Docente in vari master post universitari su temi relativi alla comunicazione e alla cultura ambientale, ha scritto e scrive, anche in tema di ambiente, per riviste e quotidiani. Si occupa di arte e scrittura, anche da autore di testi per canzoni e teatro.
Saluti.
Questi progetti di geoingegneria climatica sono degni degli esperimenti di Frankenstein. E qualcuno ci guadagna (come con le rinnovabili, soprattutto quelle selvagge, per giunta con oneri a carico di tutti gli utenti collegati al servizio elettrico nazionale, che è quello successo con i vari Conti Energia: semplicemente scandaloso!).
Bisogna tornare alla natura. Piantiamo alberi.
«L’uomo deve dimostrare che il cervello è un vantaggio evolutivo e non il contrario. La soluzione non è l’auto elettrica. L’unica possibilità è piantare mille miliardi di alberi, di cui non si parla perché non è un’opportunità economica. Ci consente di guadagnare settant’anni in cui trovare altre soluzioni». Solo le piante ci salveranno.
Stefano Mancuso, 2021
Saluti.
MS
manipolazione su larga scala di processi ambientali che influiscono sui cambiamenti climatici terrestri allo scopo di contrastare gli effetti del riscaldamento globale“
https://www.reuters.com/article/us-geoengineering/u-n-urged-to-freeze-climate-geo-engineering-projects-idUSTRE69K18320101021
Non so se l’articolo è stato postato come provocazione, ma questo articolo sembrerebbe dire l’opposto
“Perché questa missione si compia, serve anzitutto una riappropriazione benefica della tecnica, abbandonando il pregiudizio secondo cui la tecnica sia, sempre e di per sé stessa, una forma di inautenticità che insidia le nostre vite”.
Non so chi pensi come dicono le tre righe.
La tecnica è impiego creativo di strumento.
La tecnologia e il suo culto sono il problema. Il suo assolutismo in quanto punto di attenzione magnetico per la risoluzione dei problemi del mondo. Punto di attenzione assolutamente eletto, promosso e alimentato dalla politica sciagurata.
La tecnica non dà dipendenza. La tecnologia non solo dà dipendenza se concepita come valore universale, ma domina il fare e il pensare degli uomini.