Metadiario – 188 – Il sesso delle rocce (AG 1994-016)
(scritto nel 1994)
20 agosto 1994. Flaine appare in mezzo ai boschi e ai prati come potrebbe comparire un marziano. Pensato e costruito in anni recenti, è il tipico villaggio della vacanza totale, per chi ha poco tempo e chiede solo di divertirsi. In questo del tutto simile a tanti altri, chiede solo di essere abbandonato il più in fretta possibile.
Da Flaine Popi Miotti ed io saliamo con la cabinovia ai Grandes Platières 2480 m, sull’orlo nord occidentale del grande altopiano calcareo del Desert de Platé. Questo è una caratteristica distesa di rocce lavorate dall’erosione, adagiate tra la Tête du Colonney e la Pointe d’Anterne; dall’orlo meridionale precipita sulla Valle dell’Arve un’immane parete verticale e biancastra. A settentrione invece sono meno netti i confini tra baratro e deserto e quest’ultimo è diviso in due da una valle carsica abbastanza profonda che raccoglie le acque del Torrent de Salles e della Cascade de Rouget.
Dalla Pointe de Platé, verso (a ds) la stazione d’arrivo dei Grandes Platières; al centro, sullo sfondo, la Tete du Colonney.
Dai Grandes Platières scendiamo verso sud, saltellando tra le belle formazioni rocciose e i pozzi carsici, senza una traccia precisa: lasciamo a ovest la formazione di roccia ed erba dei Chateaux de Cran e per bellissimi prati raggiungiamo il sentiero GR 96 (che collega Sixt-Fer-à-Cheval con Flaine) proprio dove questo diventa ripido per salire al Col de la Portette. Stando più o meno a quota 2250 m, aggiriamo il piede nord-orientale della Pointe de Platé per poi salire faticosamente per ghiaie fino alla Spalla Nord. Per poter ammirare il grande panorama sul Monte Bianco e sulla Valle dell’Arve dobbiamo proseguire su cresta, con qualche passo di facile ma delicata arrampicata, verso la vetta della Pointe de Platé 2554 m. Questa escursione panoramica esprime una delle vedute più imponenti delle Alpi: un paesaggio ampio, a volte fiorito e a volte lunare, uno spazio di luce e colori, un balcone eccezionale di fronte allo scintillio di grandi castelli innevati e allo svettare di giganti di pietra nel fiabesco Monte Bianco.
Il Desert de Platé è un’estensione di “campi solcati”, un fenomeno carsico prodotto dallo scorrimento delle acque lungo le placche calcaree. Col passare dei millenni, iniziando da un punto più solubile o da una preesistente solcatura, l’acqua scioglie il calcare e crea il fenomeno che qui oggi è tanto ben visibile. Larghe superfici calcaree sono percorse da infiniti solchi paralleli divisi da rilievi crestiformi. La profondità di tali solchi dipende dalla ripidezza della placca, dal tipo di calcare e dalla sua esposizione; non è escluso che in questi ultimi anni le piogge acide abbiano aumentato velocità e intensità di questo lavoro della natura.
L’esagerata estensione di questo fenomeno ha creato un ambiente per nulla consueto che non lascia indifferenti: in più stupisce l’accostamento con la montagna più alta delle Alpi. Osservare il Monte Bianco da questa vastità orizzontale è un’impressione immediata: al ritorno, risalendo verso la stazione d’arrivo della funivia che da qui riporta agli orridi complessi turistici di Flaine, sono colpito dall'”irreale realtà” che vedo. Sembra di essere in un quadro tridimensionale del futuro ideale. Una natura ancora sovrana stagliava nel cielo terso l’imponente castello di rocce e ghiacci del Monte Bianco, bruni camosci ci tengono a distanza, colorati parapendii volteggiano fra bianchissimi cumuli salendo e scendendo lungo gli invisibili sentieri delle correnti aeree e pochi altri nostri simili passeggiano fra pascoli e calcari.
Giuseppe Miotti dalla vetta della Pointe de Platé contempla il Desert de Platé (Savoia, Francia).
Anni fa la redattrice di un importante mensile geografico italiano mi interrogò sulle Dolomiti. Doveva coordinare un grande servizio su quelle montagne, che per gli italiani sono un mondo a parte mai conosciuto a sufficienza. In quel momento ero molto occupato, cose da fare in fretta e bene. Mi infastidiva dover collaborare ad un servizio che non prometteva né grandi compensi né grande profondità di svolgimento. La redattrice però era molto gentile ed io, pressato dalla domanda semplice “come definirebbe in una parola le Dolomiti”, risposi femmine senza pensarci più di tanto. La redattrice ne fu molto incuriosita, forse perché lei mai avrebbe pensato a una montagna al femminile. Fin da piccoli siamo tutti abituati a vedere il mondo della montagna come a una realtà di eroi e di leggende, di forza, di energia. La bellezza c’è, è riconosciuta, ma equivale alla bellezza dei Bronzi di Riace.
La mia affermazione “le Dolomiti sono femmine” presupponeva che ci fossero delle montagne coniugate al maschile. La redattrice mi chiese subito quali erano i “maschi”, e io risposi “tutte le altre montagne”, intendendo quindi le Alpi Occidentali, il granito in generale e quei gruppi che in lingua tedesca si chiamano Urgenstein.
Naturalmente tutto ciò era una fantasia del momento, un’intuizione che come tutte le altre osservazioni dietro l’angolo non può essere condivisa dalla maggior parte degli interessati. Che importanza può avere la divisione delle rocce in maschi e femmine? Non ne abbiamo già abbastanza della separazione che in qualche maniera viviamo tutti i giorni? È poi proprio vero che il mondo è fatto a nostra immagine e somiglianza? Eppure, quando risposi alla redattrice, ero sicuro della mia affermazione.
In realtà mi riferivo soprattutto al giudizio che il maschio circondato, messo alle strette, ha della donna in generale: bella, bellissima, repentina traditrice; snella, flessuosa, un po’ assassina. La mamma non c’entra in questa analisi e neppure le sorelle. Stiamo parlando della nemica-amica-amante. Le donne sono così? No, naturalmente: ma togliamo loro l’illusione che il giudizio su di loro sia sempre positivo!
In ogni caso, quando al mattino il sole splende sulle pareti verticali delle Dolomiti, la roccia non si scalda mai fino al punto di scottare. E quando nel pomeriggio si avvicina un temporale, il cambiamento delle condizioni atmosferiche è immediato, come un salto d’umore: con risultati anche catastrofici, per nulla pietosi della nostra debolezza.
Dal Desert de Platé visuale sulle Aiguilles de Chamonix e sul Monte Bianco.
Le Dolomiti sono montagne dalla composizione chimica assai simile a quella del calcare delle Hautes Alpes Calcaires. Queste sono composte di calcare puro, ancora più bianco e un po’ meno stratificato. Di calcare sono piene le Alpi, ma in certi luoghi gli affioramenti sono giganteschi. Qualche volta creano grandi pareti verticali, in qualche caso depositano in vastissimi altopiani. Nel Carso triestino abbiamo gli esempi più caratteristici di quanto il calcare sia estremamente creativo, dalle forme bizzarre e dai meandri contorti e segreti.
Il sesso delle rocce è una discussione come quella del sesso degli angeli: non porta da nessuna parte, perché è questione di fede. Ma quando penso al calore immagazzinato dalle rocce metamorfiche o vulcaniche, scure e ricettive, non posso non pensare al maschile; quando penso alle rocce intrusive e alla durezza che evoca il granito, mi si ripropongono sempre le stesse immagini. Il calcare è più leggiadro, più tenero, si colora di tonalità più varie. Toccarlo dona sensazioni di leggerezza anche quando è aspro e puntuto.
E arriviamo così al Desert de Platé, una distesa sconfinata di calcare solcato da milioni di fessure e di buchi: in qualche punto il pulviscolo atmosferico si è addensato e ha potuto favorire lo sviluppo di vegetazione, ma in genere prevale una misteriosa eleganza di forme barocche che nulla concede alla razionalità e alla voglia di sicurezza che di fronte a tanto sconfinamento ci pervade.
Non è usuale che all’orizzonte visibile di tanta orizzontalità, dietro una quinta di vuoto, si erga il massiccio del Monte Bianco con tutta la sua potenza di espressione, ghiacci, creste nevose, guglie appuntite che cercano di perforare il cielo. Il Monte Bianco è simbolo certo di maschilità, di energia, di colossale potenza e vigore. Pochi si domandano cosa vi sia intorno, i più vedono solo valli vuote e vacue: ma, al di là di queste, sono altre montagne che delimitano la grandezza del colosso. Il Desert de Platé è una colossale massa di rocce chiare che si contrappone con paritetica dignità alle figurazioni violente dell’Aiguille Verte, del Petit Dru, dell’Aiguille du Midi.
Pochi avranno notato che accanto al famoso gruppo delle Pale di San Martino, tra i più celebrati delle Dolomiti, sono alcune catene di porfido rossastro che ne sottolineano la grandezza e ne sposano la differenza di forme. Si tratta della Catena del Lagorai e del sottogruppo Cima di Bocche-Giuribrutto, che là ricreano all’opposto il contrasto Desert de Platé-Monte Bianco. E qui si comprende che la verticale è soltanto una dimensione momentanea, che l’alternarsi con l’orizzontale costituisce proprio l’essenza delle forme stesse.
Questo discorso potrebbe diventare inutile se protratto ancora a lungo. Io credo che l’intuizione, come tale, debba essere comunicata per mezzo di altre intuizioni, e non con pretese dimostrazioni. La dimostrazione serve solo a mettere in pace la nostra incapacità di far intuire anche gli altri, dove questi non arrivano. Dimostrare vuol dire soprattutto far sopravvivere l’errore.
Perciò il sesso delle rocce è uno di quegli argomenti che potrebbe essere confinato nelle pagine di astrologia di una rivista di bassa lega: cose dette per accontentare il lettore predicendogli un futuro tanto bello quanto scontato. Eppure rifletterci sopra può essere divertente, chissà quante analogie e associazioni d’idee ciascuno di noi potrebbe fare in proposito, mescolando ricordi, aspirazioni, gioie e dolori. Già, perché se riusciamo a isolarci nelle nostre immediate profondità, ecco che dal fondo arrivano le prime immagini, rocce personalizzate, fate, gnomi, principi e streghe. E un momento di anni prima, del tutto dimenticato, improvvisamente riaffiora e riempie la coscienza del suo meraviglioso profumo, facendoci rivivere una sensazione che giudicavamo perduta. E l’unico paragone che viene in mente quando succede questo è sempre e soltanto l’incontro tra un maschio e una femmina che si piacciono: oppure che decidono di stare di fronte per milioni di anni come il Monte Bianco e il Desert de Platé, a condividere colori e nuvole, freddo e raggi ultravioletti.
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Per me il Cerro Torre è femmina. Spesso, scalando sul Fitz Roy o sui suoi satelliti, si avverte una presenza alle spalle. È il Torre che come una donna ti spia, per me. Ma poi chissà.
A fianco della parete della Vetricia (Alpi Apuane gruppo della Panie) ) che fa da guardaia all’ingresso del vallone della Borra di Canala, c’è la Torre Oliva, dove ci sono anche due vie che ho aperto io (Segmenti Irrazionali e Equelibri Apuani) .
La Torre Oliva la potremmo dire femmina ma l’aspetto è decisamente maschile.
un ambiente simile, lo si trova anche sull’altopiano della Vetricia in Apuane nel gruppo delle Panie . Dove la roccia calcarea è tutta solcata da fenditure, buchi e aperture di grotte tra cui anche l’abisso Revel.
E allora il Monte………….Amaro?
Si è vero c’è l’Uomo Morto. È stretto tra due femmine: le Panie. Forse sarà per questo che è morto…?
Poi c’è anche il Pizzo d’Uccello…
Per il Cerro Torre bisognerebbe chiedere alla “signora guida” Marcello, che c’è stato pure sopra e quindi ha potuto verificare di persona. 😄😄😄
Però in questo caso, perfino per i poveri pellegrini che frequentano l’Appennino, credo che non esistano dubbi: maschio.
Nelle Alpi Apuane c’è anche un Uomo Morto.
Qui però bisognerebbe chiedere il parere del signor Alberto, esimio apuanista. 😊😊😊
C’è anche una Femmina Morta, ma quella non conta. È morta. 😨😨😨
PREMESSA. Nell’Appennino Tosco-Emiliano vi sono almeno tre montagne chiamate La Nuda per le loro forme sinuose.
DOMANDA PROVOCATORIA: secondo voi, la Nuda è maschio o femmina? 😈😈😈
SECONDA DOMANDA PROVOCATORIA: secondo voi, considerate le loro forme, il Campanile Basso di Brenta e il Campanile Toro (qui conta anche il nome) sono maschi o femmine? 😆😆😆
Forse questo scritto dimostra perfettamente come la psicanalisi sia una bella invenzione, ma una fesseria grandiosa?
Allora si può parlare di alpinisti etero e omo a seconda di dove di solito scalano?
Quelli che preferiscono andare nelle Alpi orientali sono etero e quelli che preferiscono andare nelle occidentali sono omo?
E quelli che amano andare nelle Alpi centrali sono bisex?
Comunque, se è per me, io dico sempre LE Jorasses e IL Civetta, ma il mio cervello è strano e non sono per nulla omo quindi il mio dire è difettoso. 🙂
Divertente!
Anche io, nel mio piccolo, da sempre divido le montagne in “maschi” e “femmine”. Piu’ che una questione di rocce, la mia distinzione poggia su valutazioni circa la personalità di ciascuna montagna. Alcuni esempi? Il Cervino è sicuramente un maschio, un po’ per la silohuette fallufirme, ma molto per il suo carattere da macho. La vicina Dent d’Heten anche solo a vederla capisci che è femmina, capricciosa, vanitosa, seduttrice…se poi la analizzi, né scopri la storia e le conquiste… e non si ha dubbi. E così via.
Mi piacciono tutte le montagne sia quelle che io vedo maschili che quelle prettamente femminili. Perche’ vedo l’idea astratta della Montagna come emblema della femminilità, con tutti quei risvolti citati da Gogna.
Visione sessista la mia? Mah, puo’ darsi, ma cosi’ é. Forse molte mie posizioni ideologiche derivano da questa visione di fondo.
Carl Gustave Jung racconta che all’età di sei anni gli apparve in sogno al fondo di una caverna, un fallo gigantesco e parlante che gli disse: “Io sono colui che dirige il mondo”. Ho messo questa frase come incipit del mio prossimo romanzo che avrà come protagoniste le donne di un uomo che accarezza le montagne. La frase non la devo alla lettura delle opere di Jung ma a quella di un’opera di un grande arrampicatore come Patrick Cordier, che l’ha riportata nel suo bellissimo libro Cathedrales de Trango. Il sesso è fondamentale anche nell’alpinismo. La metafora sesso e montagna che Alessandro ci propone magistralmente in questo articolo mi ha ricordato emozioni importanti che ho vissuto anch’io su di un altro balcone con sullo sfondo il Monte Bianco.