Verso la metà di agosto del 1940 Comici è raggiunto da Severino Casara a Selva di Gardena: l’obiettivo è risolvere un problema appassionante, un “campanile” liscio che si stacca dalla gigantesca parete settentrionale del Sassolungo. Dopo un primo tentativo convinto che però deve interrompersi per le condizioni del tempo, i due ritornano il 28 agosto. La parete del Salame non offre una sicura direttiva, non una fessura che dà fiducia di avere sempre qualche appiglio per mani e piedi. È una parete aperta, in cui bisogna navigare a vista, fessurina dopo fessurina, metro dopo metro, e sperare che ci sia sempre una combinazione possibile tra un passaggio e l’altro. Fino agli strapiombi finali che chiudono tutto.
Il bivacco lo trascorrono sotto una grandinata ed è con grande sforzo che riprendono a salire il giorno dopo, a concludere un’impresa che, al di là delle difficoltà tecniche (400 m, V+, VI- e A0, oggi VI+ se fatta in libera), rimarrà scolpita nella memoria degli alpinisti. Perché è stata l’ultima ascensione di Emilio Comici, destinato a cadere tragicamente solo qualche tempo dopo nella palestra di roccia di Selva di Gardena. L’ascensione è diventata una classica, perché ripete e riassume le caratteristiche delle grandi salite di Comici, estetica e logica che gareggiano assieme nell’ideale della “goccia cadente”: un ideale al quale, dopo essersi “esercitato” proprio sulla parete nord della Cima di Riofreddo, undici anni prima, Comici aveva dato in seguito altre grandiosi applicazioni, soprattutto in salite che non passano tra le sue più conosciute ma che sono state recentemente riscoperte, come lo spigolo nord-ovest della Cima Piccola di Lavaredo (con Piero Mazzorana, 17 e 18 agosto 1936) e soprattutto la parete nord del Dito di Dio, con Piero Mazzorana e Sandro Del Torso, 8 e 9 settembre 1936 (NdR).
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Alpinismo giuliano
(Parete nord della Cima di Riofreddo1 2507 m (Gruppo del Jôf-Fuàrt – Alpi Giulie), prima ascensione di Emilio Comici e Giordano Bruno Fabjan, 8 agosto 1928)
di Emilio Comici
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, marzo 1930)
1 Nel testo questa cima è chiamata Riofreddo della Madre dei Camosci e quotata 2503 m (NdR).
Eccoci nuovamente alle prese con la parete nord del Riofreddo della Madre dei Camosci, dopo l’infruttuoso tentativo di due anni or sono, dopo aver tanto trepidato sulla possibilità dell’esito e di aver consumato gli occhi sulla parete, entro quel pauroso vano nero, alla ricerca di una via d’uscita.
Giungemmo allora con l’amico Strekeli appena ad un terzo di quel camino alto quasi 400 metri che va su diritto come una pertica, dividendo, con la sua incisione, per metà la parete nord del Riofreddo, e va a sbucare nel nero vano summenzionato.
Ma, scoraggiati di fronte a tanta verticalità, ci dichiarammo vinti e fummo così sfiduciati che abbandonammo sul posto martello e chiodi da roccia.
Eravamo all’inizio di questi ardimenti e non sapevamo impiegare gli arnesi validamente e nel giusto momento. Ma un anno dopo, con l’amico Gino Razza, salimmo l’Innominata per la via direttissima del versante nord, via ardita che corre parallela all’agognata parete. Imbaldanzito da questo successo, ritornai a sperare, e la fiamma smorzata da quella prima sconfitta si riaccese più viva che mai. Per me l’attuazione di quell’impresa doveva realizzarsi a tutti i costi, altrimenti non mi sarei mai levata dal cuore quella spina che mi tormentava e non mi dava pace. Anche altri vennero ammaliati dalla maestà della parete; ed in primo luogo devo ricordare il tentativo fatto dal compianto avv. Spinotti col giovane compagno Gelso Gilberti, il primo luglio 1928.
Versante settentrionale della Cima di Riofreddo, della Torre Madre dei Camosci e del Jôf-Fuàrt
Attaccarono essi la parete credendo di superarla in sette od otto ore, ma già nel primo tratto del camino vennero ostacolati dall’acqua che abbondantemente vi scorreva. Il mese non era propizio per la salita, perché lassù, in alto, sulla Cengia degli Dei, la neve stava sciogliendosi. Dopo estreme difficoltà, quando stavano già per uscire dal camino, il tempo che fino allora era stato bello, mutò improvvisamente: si scatenò un violento temporale che fece trasformare il camino in un letto di torrente impetuoso. Dovettero sostare sotto un masso non solo per non farsi travolgere dall’acqua, ma anche per ripararsi dalle scariche di sassi che precipitavano dalla sovrastante Cengia degli Dei. Cessato il maltempo, sempre sotto l’acqua, uscirono dal camino ed entrarono nel grande vano nero. Ma qui il temporale nuovamente li colse, accompagnato da grandine e nevischio. Calmatasi la bufera, solo verso le ore 18, essi tentarono ancora di proseguire e di raggiungere la Cengia degli Dei, ma, superato un tratto di parete, l’avvocato Spinotti dichiarò di essere nell’assoluta impossibilità di proseguire, mentre Gilberti, più in alto, si affannava alla ricerca della strada e già scorgeva ad un centinaio di metri sopra di lui, l’agognata Cengia degli Dei, cioè la salvezza. Ad un tratto una scarica di sassi si abbatté loro vicina, tagliando nettamente in tre parti la corda che li teneva uniti: gli alpinisti poterono salvarsi per miracolo addossandosi alla parete. Vista l’impossibilità di proseguire, decisero di tentare la discesa, anche di notte, per il timore che il gelo coprisse la roccia di vetrato. Un bivacco nelle pietose condizioni in cui si trovavano, sarebbe stato certamente fatale per entrambi. Così, unirono le corde e incominciarono a calarsi giù per il camino, col sistema della corda doppia. Dopo inenarrabili fatiche e patimenti, giunsero a tarda notte sulla cengia che attraversa la parete ad un terzo dalla base, e qui, esausti di forze, decisero di aspettare il giorno. Alle prime luci ricominciarono la discesa giungendo finalmente al nevaio di attacco. Impossibile descrivere tutta l’asprezza della lotta, lotta per l’esistenza, lotta che durò fino allo spasimo: l’immane fatica fu fatale al povero Spinotti che, alla base della parete, si accasciò per mai più risollevarsi. Al suo valoroso compagno non restò altro che recarsi in Valbruna a dare la triste notizia. Inchiniamoci riverenti dinanzi a tanto valore sfortunato.
Una avventura quasi simile capitò a due valenti alpinisti jugoslavi, uno dei quali era una donna, certa Piupernik, famosa per aver scalato la parete nord dello Špik che aveva resistito ad incessanti attacchi di altri alpinisti, scalatrice inoltre di innumerevoli pareti difficili nei gruppi del Tricorno e della Scarlatiza. Costoro superarono tutte le difficoltà del camino principale e sbucarono nel vano nero, ma poi, dopo aver tentato di innalzarsi ancora, vinti dalla fatica e dalle difficoltà che si facevano sempre maggiori, desistettero dal progetto di passare oltre quelle pareti di roccia malsicura e completamente esposta sul vuoto. E li sorprese la notte e con la notte incominciò ad imperversare un furioso temporale. Si rifugiarono sotto un masso e, infissi due chiodi nella parete, si legarono ad essi, altrimenti non avrebbero resistito alla colonna d’acqua che si abbatteva su di loro. In grazia al masso che li proteggeva non vennero colpiti dalle pietre che, smosse dall’acqua, venivano giù con sinistro rumore dalla soprastante Cengia degli Dei. Dovettero passare una notte orrenda con quella tremenda spada di Damocle che incombeva su di loro, trattenuti sull’abisso soltanto da un’esile fune. Il giorno dopo, cessato il maltempo, a corda doppia si calarono lungo il precipitoso camino.
Quando giunsi in Valbruna col mio nuovo compagno Giordano Bruno Fabjan, giovane di sicuro avvenire alpinistico, arrampicatore nato, venimmo informati delle suddescritte avventure dal dott. Kugy che tentò pure di dissuaderci dall’impresa e con lui altri amici alpinisti che si trovavano in valle, dimostrandoci la scarsa probabilità di riuscita in confronto al serio pericolo cui andavamo incontro. Ma come si può rinunciare dopo aver tanto trepidato, dopo aver tanto sognato la vittoria? Una voce forte ci chiamava e ci spingeva lassù: il desiderio di svelare finalmente i reconditi segreti di quella parete; le disavventure toccate agli altri, invece di smorzare i nostri entusiasmi, riaccesero ancor più il desiderio dell’impresa, facendoci però accorti sui suoi rischi.
Abbandonammo il caro paesello di Valbruna nel pomeriggio del 7 agosto 1928 e, con due pesanti sacchi in spalla, ci incamminammo verso il rifugio Pellarini. Lungo la strada parlammo di tutto meno che della salita che ci accingevamo a fare, ma involontariamente il nostro sguardo si posava sulla parete e, a quella vista, il cuore sussultava. Anche senza guardarla, sentivamo la sua presenza, e quell’oppressione che provavamo ci diceva che essa era là, che ci attendeva. Chissà come ci avrebbe accolti!
Queste incertezze ci facevano vivere momenti più emozionanti della salita stessa, ma ormai la spinta iniziale era già data dalla partenza e noi, moralmente, eravamo lanciati all’impresa. Fummo contenti di non trovare nessuno al rifugio: così gustammo ancor più la grandiosità del luogo. Scaricati d’addosso i sacchi, andammo fuori all’aperto e, seduti sopra una rozza panca, volgemmo la faccia in alto e contemplammo; il giorno tendeva alla fine, ma lassù c’era ancora abbastanza luce e, rotto l’incanto di quel silenzio, incominciammo come al solito a voler sciogliere l’enigma dell’ultimo tratto di salita, ma senza riuscirvi. Ammutolimmo, mentre l’oscurità invadeva anche le parti più basse del monte, rendendo la parete ancor più fosca. Ben presto il freddo si fece sentire attraverso le nostre succinte vesti estive, costringendoci a rientrare nel rifugio. Così, quel sogno ad occhi aperti ebbe fine.
All’indomani quando ci svegliammo, il rifugio era già invaso dalla luce mattutina: dal finestrino scorgemmo le vette tutte scintillanti al sole. Che ora sarà? L’unico orologio era andato rotto pochi giorni prima al contatto poco delicato di una roccia, però, secondo i nostri calcoli, saranno state su per giù le sei e mezzo o le sette. Dopo esserci ben rifocillati, prendemmo le nostre cose e partimmo.
Il nostro equipaggiamento consisteva di sessanta metri di corda (una di venticinque e l’altra più sottile, di riserva, lunga trentacinque metri), chiodi da roccia, martelli, moschettoni, e scarpette da roccia; le provviste erano ridotte al minimo possibile. In breve tempo giungemmo alla base del piccolo nevaio che sta ai piedi della parete e, superatolo, abbandonammo gli scarponi e la piccozza, poi, calzate le scarpette, ci accingemmo all’arrampicata.
La prima parte della salita si svolge lungo tutto quel marcato camino, tanto caratteristico, che avrà l’altezza di circa 350 metri e che come vedremo in seguito, si dovrà diverse volte abbandonare, perché o troppo largo e strapiombante, o chiuso da blocchi, o troppo viscido con appigli malsicuri per l’acqua che vi scorre.
Versante settentrionale della Cima di Riofreddo, della Torre Madre dei Camosci e del Jôf-Fuàrt
Prima d’iniziare la scalata restammo per un attimo raccolti nel ricordo del compianto Spinotti, e mentalmente lo invocammo, acciocché ci fosse sempre accanto e nei passi impervi ci sorreggesse, e negli attimi di scoramento venisse ad infonderci forza e coraggio. Ebbimo un tacito consenso, ce lo disse il cuore; il Suo spirito era già là, accanto a noi e con benevolenza ci guardava e c’invitava a salire; Egli ci avrebbe guidati oltre i passi più difficili e pericolosi; la Sua mano invisibile ci avrebbe sorretto sul precipizio. Con quella persuasione nel cuore, attaccammo.
Appena le dita afferrarono appiglio, tutte le apprensioni, tutte le incertezze svanirono come per incanto, e venimmo invasi da quella gioia intensa, quasi selvaggia, che è l’ebbrezza dell’arrampicare. I primi passi su per il camino non sono tanto difficili, e con quella esuberanza di forze fresche e con quella smania d’innalzarsi, li facemmo di volo. Superammo un primo masso incuneato che chiude il camino a circa quaranta metri dalla base. Qui scorgemmo le tracce dei tentativi precedenti, cioè un chiodo col relativo anello di corda; lo levammo e poi avanti per trenta metri di camino. Qui, malgrado il nostro entusiasmo, dovemmo ridurre la nostra velocità; il camino si faceva profondo e strapiombante, un masso lo chiudeva completamente, inoltre vi scorreva copiosamente l’acqua. Questo è il primo passo serio dell’arrampicata, e non si può far presto sotto quell’acqua, perché la roccia è bagnata e friabile; con santa rassegnazione pigliammo una buona doccia che però valse a raffreddare i nostri bollenti spiriti ed a costringerci a trattare quella parete con la serietà che le si addiceva. Quel masso incuneato poi, lo superammo per di fuori brancicando con le gambe nel vuoto.
Continuammo con calma su per il difficile camino e, data la sua larghezza, lo abbandonammo per proseguire la salita su per la parete a destra, fino a giungere ad una larga cengia che sta ad un terzo del grande camino ed è ben visibile dal basso. Qui, altra traccia, cioè chiodo e relativo anello di corda; fin qui eravamo giunti nel primo tentativo di due anni or sono. Oltre questa cengia continuammo l’arrampicata nel camino per una ventina di metri, poi lo abbandonammo perché troppo largo e profondo, e proseguimmo la salita sulla parete di sinistra: parete, con un sistema di strette cenge con detriti e roccia friabile, molto difficile, tanto che per sicurezza conficcammo un chiodo. Ci innalzammo sulla esposta parete una trentina di metri, e, quando il camino ci parve percorribile, vi entrammo perché per quanto difficile, esso era preferibile alla parete aperta. E sempre su, su, in uno sforzo continuo, appiccicati ora sopra uno ed ora sopra l’altro lato del camino, perché il suo fondo è molto largo e strapiombante e la pietra è completamente corrosa dall’acqua che vi scorre. Così a perpendicolo salimmo una cinquantina di metri, a metà percorso conficcammo un chiodo, ed altri ne scorgemmo già piantati dai nostri predecessori. C’innalzammo ancora una ventina di metri, su per precipitoso camino, e ne mancavano ancora circa dieci per entrare nel grande vano nero, quando l’asperità ci fermò. Piantammo un chiodo, e ci assicurammo. Con difficoltà estrema riuscii ad innalzarmi tre o quattro metri per conficcare un’altro chiodo, ma poi le mani e i piedi non trovarono più prese sulla roccia viscida: rimasi appeso al provvidenziale chiodo, dal quale dovetti penosamente ridiscendere. Tentammo ancora due, tre volte di innalzarci, ma invano.
1933, Riccardo Cassin, Emilio Comici, Mario Dell’Oro (Boga) ai Piani dei Resinelli. Foto: Fondazione Cassin
Dunque era questo il punto dove le cordate precedenti non riuscivano a proseguire? Ma no, gli jugoslavi affermavano d’aver superato tutto il camino, e allora, era mai possibile che a noi non sarebbe riuscito? Però su da questa parte era umanamente impossibile proseguire; calatici allora circa cinque metri, attraversammo la parete a sinistra per una decina di metri. Quivi piantammo un altro chiodo, e facemmo una piccola sosta, prima di dare l’assalto ad una parete alta circa una ventina di metri, difficile ed esposta, ma con appigli saldi. Qui nuovamente trovammo la solita traccia, cioè chiodo e anello di corda. La cosa ci scoraggiò alquanto poiché non potevamo fare a meno di pensare: se gli altri superarono tutte queste grandi difficoltà da noi incontrate, e giunsero fino quassù, che razza di precipizio li avrà respinti? Sapremo noi superarlo? E con l’angoscia nel cuore proseguimmo, smaniosi di conoscere la parete che doveva dirci “di qui non si passa”. Salimmo ancora una decina di metri, non tanto precipitosi e poi, poggiando a destra, entrammo nel grande vano nero, donde trae origine il durissimo camino percorso. Dopo breve arrampicata giungemmo finalmente ad una larga cengia che percorremmo obliquamente a destra, per circa trenta metri, e che va man mano restringendosi: prima che essa si perdesse nell’immensa muraglia, attaccammo una parete giallo-rossa, formata da roccia friabile a squame. Dopo pochi metri piantammo un chiodo e quindi su ancora, con le dita entro una stretta fessura. Ma neanche questo difficile passaggio era quello che aveva respinto i nostri predecessori giacché al termine della fenditura obliqua, scorgemmo ancora un chiodo. E su, col cuore stretto, poggiando sempre a destra per un’altra specie di cengia, stretta e molto inclinata, che ben presto si perdeva nella vertiginosa parete. Che si fa? Ci sedemmo sopra un masso, con le gambe penzoloni nella voragine, mettemmo in bocca alcune zollette di zucchero e cupamente seguimmo con lo sguardo una pietra involontariamente smossa che filò giù, giù nell’abisso, si rimpicciolì e si perdette nel fondo; che vuoto terrificante, ma pur tanto bello nella sua orridezza! Sopra le nostre teste si ergeva una parete dalla roccia oscura, che dovevamo superare per poter proseguire: parete di una ventina di metri, verticale e in diretta continuazione con l’abisso, dagli appigli radi rivolti all’ingiù.
Per fortuna, sul lato sinistro, l’acqua aveva corroso maggiormente la roccia formandovi una leggera insenatura. Il primo terzo di questa parete fu da noi superato lungo tale insenatura: prima d’abbandonarla per prendere la parete a destra, conficcammo un chiodo che avrebbe dovuto fermarci in una eventuale caduta, ma che, in realtà, serviva più per darci un’illusione di sicurezza nel passo difficile. Superammo pure felicemente questo ostacolo e, appena giunti in posizione più sicura, volgemmo ansiosamente lo sguardo intorno: una gran luce si fece nel nostro animo, non scorgendo più traccia di passaggi precedenti. Dunque era questa la terribile balza di roccia che aveva respinto le cordate precedenti? Con gioia noi la superammo e, superandola, ci portammo a destra, oltre il grande vano nero. Ora le difficoltà dovevano essere minori e così fu infatti. Quest’ultima balza fu la chiave della salita. Percorremmo la parete, non troppo verticale, sulla destra, per circa una trentina di metri, e giungemmo sotto un largo e lungo camino che scende dalla Cengia degli Dei. Prima di accingerci a superarlo ci rifocillammo un po’; ormai tenevamo la vittoria in pugno, l’incognita non ci assillava più tanto. Contemplammo con voluttà l’orrido ambiente che aveva del fantastico e dell’irreale: sotto ai nostri piedi s’inabissava un vuoto di quasi mezzo chilometro, di fronte avevamo le pareti nord dell’Innominata, superate l’anno prima, le quali chiudevano a semicerchio la gola simile ad una voragine del nostro Carso, ma con la differenza che, invece di perdersi nel buio misterioso, essa saliva luminosa verso il cielo, e dava tutta la percezione della sua grandiosità. Vi si distinguevano i terrazzi, le cornici, le gole, le tenui cenge e i camini sottili che intersecavano la parete in parte corrosa dall’acqua, in parte con vani rossigni e gialli formati da frane, e talora bianca, screziata da cenge con detriti; giù, giù in fondo, dove tutto andava rimpicciolendosi, essa sola terminava col candido nevaio che sembrava piano, orizzontale, mentre in realtà è ripidissimo. Dopo la grande fatica e il rischio, questi attimi di contemplazione nell’immensa gioia della vittoria, sono così belli, che, rievocandoli in qualunque momento, l’animo gode, il cuore accelera le pulsazioni ed un brivido di piacere scuote tutto il corpo. Ed ecco il così detto “attimo fuggente arrestato”, attimo che non passa nell’oblio, e che il tempo non cancella: basta rievocarlo per sentirlo come allora, più forte di allora, anche perché la smania di provarne altri ne accresce il desiderio.
Ripartimmo pieni di allegrezza, ridendo, cantando e dando la voce in fondo, verso il rifugio Pellarini, colla speranza che qualcuno ci scorgesse e si associasse alla nostra gioia. L’ultima fatica constava dunque di un ampio lungo e complesso camino, che sbucava sulla Cengia degli Dei. I primi trenta metri sono relativamente facili, poi esso si divide in due rami. Noi salimmo quello di destra per circa quaranta metri, superando tre massi incuneati non tanto difficili, poi altri dieci metri facili, ed entrammo in un camino-fessura, profondo quasi dieci metri, ma tanto stretto da starvi dentro a stento, alto una trentina di metri, e difficile; la sua roccia è di color nero ma saldissima. Nel suo complesso l’ultimo grande camino è alto un centinaio di metri. Superatolo, trovammo ancora facili paretine e finalmente eccoci sulla sospirata Cengia degli Dei. Il sole ci accolse lassù e ci dette il benvenuto sulla soglia della cengia poiché giù per la parete non gli era possibile di penetrare. Dopo il suo giocondo saluto, si accinse a scomparire dietro alla vetta del Jôf-Fuàrt. Da questo fatto arguimmo che potevano esser su per giù le 18 o le 19: dunque, per superare la parete, avevamo impiegato dieci-undici ore. Erigemmo un segnale e subito riprendemmo la via della vetta, percorrendo la Cengia degli Dei a sinistra, per circa un centinaio di metri, e poi per facili pareti fummo in vetta alla Cima Riofreddo.
Lanciammo grida esultanti a quelli che si trovavano al rifugio Corsi: eravamo così contenti che sentivamo il bisogno di espandere la nostra gioia, troppo grande per poterla contenere, e al cielo e agli uomini gridavamo la nostra vittoria. Qualcuno rispose dal fondo, ma era impossibile che ci scorgesse e che pensasse alle due felici creature sulla vetta della Cima Riofreddo. Ci calmammo, rimanendo paghi dell’azzurro infinito del cielo, immersi nella grande quiete che regnava lassù.
Emilio Comici, con seduti Angelo “Deo” Dimai e Giuseppe Dimai. Sono i conquistatori della parete nord della Cima Grande di Lavaredo, 1933. Archivio: CAI Milano.
Il tempo stringeva e dovevamo perciò pensare al ritorno. La via più semplice era di scendere al rifugio Corsi, ma poiché al rifugio Pellarini si trovavano tutte le cose nostre, ci dirigemmo verso quest’ultimo, scendendo sulla Cengia degli Dei e ripercorrendola celermente verso ovest. Scavalcato il masso che sbarra la cengia sotto l’Innominata, imboccammo la gola nord-est del Jôf-Fuàrt, ove l’oscurità incipiente rallentò alquanto il nostro passo. La notte era senza luna, buia, e ancor più buia entro la gola. Al rifugio Pellarini s’accese un lume: qualcuno vi abitava. Chiamammo: nessuna risposta. L’oscurità nella profonda gola era tanto nera, che decidemmo di accendere il nostro fanalino. Non senza peripezie giungemmo sul Piccolo Jôf-Fuàrt, credendo ormai d’essercela cavata e di giungere in breve tempo al rifugio. Ma così non fu, perché, calatici a sinistra ancora pochi metri sulla roccia lavorata in tempo di guerra con tacche e chiodi, la crepaccia marginale ci fermò. La nostra lampada che già prima si trovava in pietose condizioni, ricevette il colpo di grazia da tutti gli sbatacchiamenti giù per la gola: cosicché piombammo nel buio più profondo. Vagammo a tastoni alla ricerca di un passaggio oltre il crepaccio, ma invano. Questo era sempre largo e dai sassi che vi scagliammo lo giudicammo pure profondo. Essendoci così impossibile raggiungere il nevaio, con rassegnazione, portatici pochi metri più in alto, ci cacciammo in una nicchia al riparo del venticello che ci portava il gelo del nevaio sottostante. Chiudemmo gli occhi, tentando di prender sonno; ed in quel dormiveglia trascorse del tempo. Chissà quanto? Potevano essere trascorsi 15 minuti o forse anche tre ore. Questo nostro assopimento divenne alfine impossibile per il freddo che ci martoriava. Avevamo addosso oltre ad una leggera maglia di lana anche degli eleganti pullover, che però in quel posto e a quell’ora, con tutti i loro smaglianti colori, non impedivano al freddo di pungerci le carni. Con uno scatto di ribellione ci alzammo.
Cominciai a cantare un ballabile americano di moda, mentre l’amico si mise a ballare un frenetico charleston su uno spuntone di roccia. Poi ci demmo il cambio, lui cantava ed io ballavo. Infine riscaldatici un po’, rientrammo nella nostra nicchia continuando il canto. Ben presto però le arie dei fox-trot si tramutarono nei nostalgici canti alpini; e cantammo alla montagna la nostra inestinguibile passione e l’immensa riconoscenza per i momenti di vita così intensamente vissuta, che le dovevamo. Che valgono i disagi della fredda notte, passati sulla dura roccia, le fatiche, i patimenti, i pericoli incorsi, quando la soddisfazione della vittoria rimarrà incancellabile nella nostra mente? Tutto quello che ci dà la montagna è bello e grande, tanto la gioia quanto l’amarezza. Noi veniamo a lei con devozione e, con devozione, accettiamo tutto quello che ci viene da lei.
Oltre al freddo ci accorgemmo d’aver pure fame, ma, purtroppo, delle nostre provvigioni non ci rimaneva altro che del burro, indurito dal freddo e che, così senza un boccone di pane, aveva il sapore del sego. Che ci restava a fare? Cantare sempre per non sbattere i denti. Alternammo ai canti, i ricordi delle fasi più salienti della recente impresa, poi le rimembranze di altre avventure alpine, e tra un sonnellino, un canto, e un discorso, vedemmo finalmente, in fondo all’orizzonte, sbiancarsi un po’ alla volta il cielo. Ad una ad una si spensero le stelle, mentre una nuvoletta andava tingendosi di rosso. Prima che il sole facesse la sua trionfale comparsa, noi eravamo già in piedi alla ricerca del passaggio. E lo trovammo infatti, più in giù, dove il nevaio si avvicinava maggiormente alla parete. Essendo noi senza piccozza e in scarpette da roccia, per discendere il ripido nevaio ci aiutammo con degli arpioni trovati sul Piccolo Jôf-Fuàrt. Qui ebbe termine la nostra odissea.
Fra quei monti rimanemmo ancora alcuni giorni, a godere di altre soddisfazioni. Ma purtroppo venne la mattina nella quale tristemente salutammo la Madre dei Camosci, il Jôf-Fuàrt e il caro rifugetto; le vacanze erano terminate e con esse, i bei giorni vissuti come in un sogno. Giungemmo in Valbruna, dove ci portammo subito al piccolo cimitero del paese: là, sotto un muricciolo, scorgemmo un tumulo di terra ancor smossa; una rozza croce di legno ed una corona d’alloro ingiallita: era la tomba di Spinotti. Povera tomba, relegata in un cantuccio, troppo lontana perché qualcuno vi venga più spesso a versare una lagrima. Sulla zolla ancor fresca deponemmo due mazzi di rododendri, raccolti lassù; fiori che a Lui in vita tanto piacevano e che simboleggiavano il Suo indomito carattere.
Amici alpinisti, amici di comune passione, al ritorno da quei monti portate anche voi un fiore di lassù. È un amico nostro, un compagno valoroso ma sfortunato, che per la montagna è sceso sino al sacrificio della vita.
Seguono lo schema della salita e le relazioni di altre prime ascensioni nelle Alpi Giulie (NdR).
Emilio Comici (a destra con la chitarra) con Giordano Bruno Fabjan e Severino Casara (fra le due signore) al ritorno da allenamenti sulla parete Campaccia in Vallunga di Gardena, la stessa dove cadrà il 19 ottobre 1940.
Emilio Comici
Nato a Trieste il 21 febbraio 1901 Emilio Comici ha scolpito grandi pagine di alpinismo con le sue scalate nelle Dolomiti, tra le massime espressioni del suo tempo.
All’età di quindici anni è assunto presso i Magazzini Generali di Trieste con un incarico impiegatizio. Compiuti i diciotto, aderisce ad una società sportiva, la XXX Ottobre, come membro del gruppo speleologico. Negli anni tra il 1926 e il 1928 Emilio, con i compagni, ogni domenica esplora caverne e pozzi lunghi e complessi. Poi comincia a frequentare la montagna e, dotato di un fisico asciutto e leggero, ben presto s’impadronisce di una tecnica motoria tutta sua personale, tanto da indurre in seguito Riccardo Cassin, che chiamava Comici “Maestro”, ad affermare di non aver mai visto nessuno arrampicare con tanta apparente facilità ed eleganza. Le vie di Comici si caratterizzano per purezza di stile e linearità e seguono, quanto più possibile, la linea verticale che collega la cima con la base della parete, cioè la linea della “goccia che cade”.
Nei dintorni di Trieste, la rocciosa Val Rosandra diventa la palestra che lo aiuta ad affinare il suo stile naturalmente armonioso, quindi a costruirsi come alpinista. Lì sperimenta anche nuove tecniche di arrampicata artificiale su tetti e strapiombi allora insuperabili in libera, come pure nuovi sistemi di assicurazione.
L’8 agosto 1928 compie la prima ascensione della Nord della Cima di Riofreddo. È una parete alta più di 600 metri, verticale ed esposta, cui seguono altre prime, sempre nelle Alpi Giulie. Nel 1929, assieme a Fabjan, compie un nuovo tracciato (parete nord-ovest, 24 agosto 1929) al Dito di Dio, nel gruppo del Sorapìss, con difficoltà continue di V grado, poi con lo stesso compagno supera la Nord della Sorella di Mezzo, aprendo il primo tracciato di sesto grado italiano nell’ambito della forte competizione fra scalatori dei due versanti delle Alpi, ovviamente alimentata anche da motivi politici e nazionalistici. Altra impresa, poco ricordata, è la Ovest della Croda Berti. La parete impegna molto Comici, assieme agli amici Piero Slocovich e Fabjan il 2 agosto 1930.
Il 31 agosto 1930, con Mario Cesca, percorre la Cengia degli Dei al Jôf Fuàrt, destando l’ammirazione di Julius Kugy, il grande “maestro” delle Alpi Giulie. Nel 1931 compie quella che è ritenuta la sua impresa più difficile: con Enzo Benedetti apre la diretta sulla parete nord-ovest della Civetta, via parallela alla Solleder, con pochi tratti in artificiale. Una straordinaria doppietta è il suo bottino del 1933: fra il 12 e il 14 agosto sale con i fratelli Giuseppe e Angelo Dimai la Nord della Cima Grande di Lavaredo (ascensione considerata impossibile all’epoca, prima applicazione sistematica della progressione artificiale), poi l’8 settembre con Mary Varale e Renato Zanutti lo Spigolo Giallo della Cima Piccola di Lavaredo, emblema della linea diretta.
Le grandi imprese compiute lo inducono a diventare guida alpina (primo fra i non valligiani) e trasferirsi definitivamente a Misurina. La Varale lo invita a una vacanza in Grigna (Prealpi Lombarde), dove Comici incontra Cassin e il suo gruppo di giovani alpinisti lecchesi, che dal triestino apprendono, e mettono a frutto negli anni successivi, le più avanzate tecniche di arrampicata. Nel 1937 torna sulla Nord della Grande di Lavaredo e ripercorre da solo la sua via del 1933 in 3 ore e 45’.
Il tempo non è perfetto quel mattino del 28 giugno 1937, ci sono sprazzi d’azzurro e nuvolaglia. Comici e Severino Casara hanno scelto una linea bellissima, prima per una fessura e poi per un diedro elegante, quello che permetterà loro di salire la parete sud della Cima d’Auronzo, un appicco giallastro di 400 metri che delimita a sud il massiccio della Croda dei Toni. Un luogo estremamente selvaggio e isolato, sospeso sull’orrido baratro della Val Gravasecca. Nel 1939 va a dirigere la scuola di sci a Selva di Val Gardena, dove ben presto, stimato e amato dai valligiani del luogo, è eletto podestà. Muore nei pressi di Selva, il 19 ottobre 1940, cadendo da una paretina a causa della rottura di un cordino. Il suo libro postumo Alpinismo eroico diventerà una sorta di “bibbia” per chiunque abbia ideali in alpinismo, mentre Casara e Spiro Dalla Porta Xydias gli hanno dedicato libri e vari scritti.
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La salita della Nord della Riofreddo è una pietra miliare dell’alpinismo in Giulie, nonchè una parete severa ed affascinante, la più tetra del circo di pareti che chiude la conca del rifugio Pellarini. Tra l’altro proprio il Vano Nero è ora caduto nel dimenticatoio e ripetuto rarissimamente.
Noi l’abbiamo salito quest’estate e devo dire che sebbene non sia più una via di richiamo mantiene uno straordinario fascino, soprattutto per la sua storia. Ne abbiamo parlato qui:
https://rampegoni.wordpress.com/2018/08/08/la-biblioteca-di-alessandria/
Interessanti anche le figure che si sono mosse attorno quella salita, prima tra tutte la grandissima Mira “Marko” Debelakova, insieme a Pavla Jesih una delle due alpiniste più forti dell’anteguerra.
Arturo Tanesini mi raccontò che una volta da giovane, al Passo Sella, con Emilio Comici avevano conosciuto delle ragazze e c’era euforia e facevano un po’ gli spavaldi. Lui, Tanesini, partì sul tardi, credo nel pomeriggio, per i camini Schmitt alla Punta delle Cinque Dita, con altri due (o altre due, non ricordo). Fatto sta che s’incrodarono negli stessi camini e dovettero lì bivaccare. Comici raggiunse allora, su dai ghiaioni, la base delle Cinque Dita e suonò per tutta la notte la sua chitarra, per tenere loro compagnia.
La cosa bella di Comici, oltre le risapute doti arrampicatorie, è che spesso si portava la chitarra.
Quando facevo l’istruttore ai corsi guida avevo proposto che gli allievi dovessero saper suonare uno strumento “portatile” come l’armonica, la chitarra, il mandolino, la clavietta, i bongos, (il banjo no perché troppo pesante), l’ocarina, il flauto, lo scacciapensieri, il clarinetto, ecc. Ricordo che Andrea Sarchi mi disse se fossi diventato scemo (forse aveva ragione), e la cosa finì lì.
Certo, sia la Giulie che le Carniche non sono posti per signorine (cit. Autori vari…) soprattutto per il tipo di roccia che ci si trova a scalare, difficile in intuizione e di solito poco chiodabile…
Certo Stefano hai ragione. Però tu che (se non sbaglio) sei di Trieste, sai e conosci.
Quello che volevo rimarcare è che le Giulie, soprattutto ma non solo le slovene offrono un ambiente totalmente Alpinistico. Poche strade, rifugi o bivacchi spartani; in quelle zone è davvero Alpinismo.
Io ho sempre il grande dispiacere di averle frequentate poco per motivi che non sto qui a spiegare. Li le varie polemiche spit si spit no perdono completamente di significato; ci vanno solo i duri.
Dino M, che in Slovenia ci siano da sempre alpinisti fortissimi non è un mistero… Knez, Jeglich, Cesen solo per nominarne alcuni tra i più noti, la Debelakova è invece un esempio rarissimo di donna che nei primi decenni del secolo apriva vie di livello, sesti gradi per capirci e non da seconda ma da capocordata… Non che trovi altri esempi così in giro eh… seppure è ormai piuttosto risaputo che Mary Varale conducesse spesso la cordata ma doveva poi lasciarne il merito ai compagni maschietti perché sarebbe stato uno scandalo…
Se qualcuno fosse davvero interessato all’argomento, dovrebbe parlare con Claudio (di Cave del Predil) che Paolo sicuramente conosce perché CAAI.
Si scoprirebbe che in Giulie, ed in Slovenia c’è alpinismo di alto livello. Vie lunghissime, relazioni solo indicative, attacchi selvaggi e impegnativi.
Insomma in Slovenia non c’è solo Debelakova. Anche l’arrampicata in generale è molto diffusa e molto praticata anche a livello sportivo. Insomma gente tosta.
Chic (pedule) nel senso innovativo, geniali
Prima donna ad esere ammessa nel club accademico austriaco.
Adriano mi hai anticipato di un attimo…
Sulla Debelakova feci una ricerca qualche anno fa per farne emergere la figura, che a mio avviso andrebbe inserita tra i grandi fuoriclasse dell’alpinismo ma purtroppo per svariati motivi trovare documentazioni è piuttosto difficile se non quasi impossibile…
Ora non ho più purtroppo la documentazione raccolta perché mi si è fumato il disco fisso dove l’avevo archiviata senza aver ancora fatto un backup ma ricordo bene di aver trovato anche indicazioni circa una cordata femminile, sempre yugoslava, che per quei tempi era assolutamente fuori dal normale.
Storicamente sarebbe interessante ricostruire queste figure tralasciate all’epoca per motivi politici (vedi ad esempio Miro Dougan portato alla luce da pochissimo grazie all’interessamento di Flavio Ghio e Giorgio Gregorio del quale si trova un articolo anche qui sul blog) e nel caso specifico di Debelakova e “socie” anche per motivi sessisti.
Una avventura quasi simile capitò a due valenti alpinisti jugoslavi, uno dei quali era una donna, certa Piupernik, famosa per aver scalato la parete nord dello Špik che aveva resistito ad incessanti attacchi di altri alpinisti, scalatrice inoltre di innumerevoli pareti difficili nei gruppi del Tricorno e della Scarlatiza.
alias Mira Marko Debelakova, grandissima alpinista slovena, poco o per nulla conosciuta dagli alpinisti italiani.
Crovella: le pedule di Comici non sono molto chic, sono l’innovazione che al tempo fu lui a ideare e che ancora oggi con le dovute varianti usiamo tutti.
A quel tempo le pedule d’arrampicata erano fatte con suola di feltro o di spago (ancora qualche anno fa le potevi vedere ai piedi di alpinisti dell’est), a Comici venne l’idea di provare ad utilizzare la scarpe da pallacanestro che, per non rovinare i parquet e per garantire un buon grip, erano fatte con suola liscia di gomma pura. L’esperimento risultò un’ idea geniale e l’uso delle scarpe in gomma venne poi esportato un po’ tra tutti anche perché oltre a garantire una migliore aderenza duravano di più.
Un talentuoso, un fuoriclasse!
Se avesse avuto l’aggressività decisionale e anche un po’ l’opportunismo arrampicatorio, di un Cassin avrebbe fatto tutto.
Ma forse Comici si faceva domande sullo stile da tenere.
Interessante la foto al Pian dei Resinelli: Comici indossa pedule da arrampicata, molto “chic” rispetto alle “scarpacce” di Cassin e del Boga…
Certo è stato uno dei fenomeni dell’arrampicata anni ’30. Uno che ha spostato l’asticella. Uno che ha cambiato la storia dell’arrampicata.