Arriva un’altra zampata di Messner. Senza l’utilizzo dell’elicottero durante le operazioni di soccorso in montagna ci sarebbero molti più morti. Lapalissiano, ma occorre coraggio a dirlo apertamente. Si va controcorrente, rispetto alla mentalità dominante nell’attuale società e agli interessi che spingono verso un alpinismo “di massa”, consumistico e prestazionale. La conclusione implicita del ragionamento non piace a chi governa i grandi flussi economico-commerciali. Senza l’elicottero (così come senza gli aggeggi tecnologici) assisteremmo ad un’ecatombe per qualche tempo, poi la massa si sposterebbe verso altre attività, il mercato si assottiglierebbe, ma le pareti tornerebbero alla loro dimensione originaria. Non spinga fuori strada il nome di Messner: il ragionamento non è connesso esclusivamente agli Ottomila o ai grandi exploit, anzi. Alpinisti ed escursionisti domenicali “assistiti” dal sistema sono un genere infestante per le montagne. E lo spazio per l’avventura si riduce. Come contraltare, si riporta l’intervista ad un tecnico dell’elisoccorso in procinto di andare in pensione dopo 31 anni di attività: dalle sue parole emerge incontrastato l’amore per la propria missione (Carlo Crovella).
Il soccorso in montagna con l’elicottero
La consapevolezza del rischio è l’essenza di ciò che si può definire «esposizione» in alpinismo. Poi ci sono la solitudine, l’essere altrove, lo scollegamento a internet, l’immersione in un’avventura che si può raccontare soltanto quando si è tornati a casa. Esposizione che secondo Messner «manca sempre di più».
Messner sta parlando davanti al Monte Bianco, montagna simbolo dell’alpinismo perché con la sua prima salita, nel 1786, è cominciato quel viaggio verticale che «oggi rischia di diventare sport». Perché l’alpinismo per Messner è «cultura e avventura». Ė affrontare l’ignoto, anzi, «quell’impossibile» che la tecnologia e perfino la comunicazione eccessiva tendono a eliminare.
Messner è stato a Courmayeur come testimonial alla candidatura Unesco come patrimonio culturale della montagna più alta d’Europa, Caucaso escluso. «Qui c’è la storia dell’alpinismo e di qui c’è la necessità di narrarlo. Basta guardare le sue vette dalla più alta stazione della funivia SkyWay, a Punta Helbronner, e raccontare le imprese degli alpinisti, da Walter Bonatti in giù». Proprio ricordando le grandi salite dei grandi alpinisti, Messner ha insistito sull’assenza di «esposizione» che rischia di alterare il senso dell’alpinismo. «Non ci fosse l’elisoccorso i morti in montagna sarebbero 50 volte di più di quanti sono. Una strage che costringerebbe i sindaci a firmare ordinanze per vietare le montagne. L’elicottero che recupera persone in parte è un fatto positivo, ma se esaminiamo il fenomeno criticamente, almeno io lo faccio, questo esclude l’esperienza per un alpinista che deve fare una scelta se continuare o meno la sua arrampicata».
A parte l’evidente “esagerazione” delle “50 volte in più”, pronunciata più che altro per farsi capire, ciò che dice Messner è vero solo nel caso che si sospendessero improvvisamente le operazioni di soccorso. Lui stesso avverte che, in assenza conclamata dei soccorsi, molte iniziative arrischiate abortirebbero: «Se arrampico in parete e so che, se sbaglio, indietro non torno e non ho alcuna possibilità di errore, la mia valutazione cambia».
Con l’aumento degli incidenti mortali, il pericolo che le autorità vietino o sospendano l’alpinismo è davvero reale.
Nel 1865, l’anno di svolta dell’alpinismo con la prima salita del Cervino da parte di Edward Whymper, proprio l’incidente in cui morirono quattro compagni di cordata dell’inglese, rischiò di cancellare dalle attività consentite l’alpinismo. La regina Vittoria pensò di bandire ai suoi sudditi l’arrampicata e lo stesso Whymper venne processato.
Ma senza risalire a così tanto tempo fa, basta guardare le ormai numerose ordinanze dei sindaci, tutte che vanno nello stesso senso.
L’arte dell’alpinismo, dice Messner, è «fare in modo che il pericolo, sempre presente, si trasformi il meno possibile in rischio». Le possibilità tecniche dei mezzi e la bravura dei piloti sono oggi una costante. Lo stesso «re degli ottomila» ricorda come «Maurizio Folini, il più bravo pilota di elicotteri in Himalaya, è riuscito a compiere un soccorso a 7800 metri sull’Everest». Sempre di più intervengono gli elicotteri negli incidenti anche sulle più alte montagne del pianeta. «E per questo che parlo di esposizione cancellata, di valutazioni che non pesano il rischio», spiega Messner. Un’evoluzione che segue una legge di mercato, quella domanda di alpinismo «assistito» che Messner ha da armi classificato come «turismo di alta quota che trasforma le pareti in “piste”».
Intervista a Remo Ughetto
(tecnico di volo in pensione)
di Carlotta Rocci
(pubblicata su La Repubblica (Cronaca di Torino), 5 agosto 2019
Se non fosse stato per la data stampata sulla carta d’identità, Remo Ughetto non avrebbe mai lasciato il suo ruolo come tecnico di elisoccorso. O almeno non lo avrebbe fatto così presto. Ma le regole parlano chiaro: 60 anni è il limite massimo per i tecnici del soccorso alpino che si sono specializzati a prestare servizio sull’eliambulanza, coordinata dalla centrale del 118, gestita dalla Città della Salute, «Ma potete scordavi ché io vada in pensione dalla montagna», dice Ughetto, di Giaveno, 60 anni compiuti a marzo 2019 e da 35 membro del soccorso alpino e speleologico piemontese. Ha iniziato nel 1984 come volontario, tre anni dopo è diventato un tecnico e nel 1988 è stato uno dei primi a salire sul neonato servizio di elisoccorso in montagna. «Si chiamava ancora Aci 116», ricorda.
Perché proprio tecnico sugli elicotteri?
«In realtà sono entrato nel soccorso alpino anni prima perché frequentavo il CAI di Coazze (Valsangone, alle porte di Torino, NdR) e conobbi il capostazione di allora che era Mario Bergeretti. Era stato lui a consigliarmi di fare i corsi da tecnico. Quando a luglio del 1988 partì il servizio di elisoccorso in montagna il direttore di allora selezionò quelli che erano usciti con un punteggio più alto del corso. Ero tra quelli. Oggi è una specializzazione molto ambita ma difficile».
Quindi è stato uno dei primi?
«Direi di sì. Se la memoria non mi inganna ero stato assegnato al terzo turno. L’elicottero era un Alouette e l’unica base era quella di Savigliano. C’eravamo io, il pilota, il medico rianimatore e l’infermiere. Il pilota aveva la cartina aperta sulle ginocchia e si viaggiava con il volo vista a terra. E’ capitato anche di atterrare per poter leggere i cartelli dei paesi in modo da poterci orientare. Tutto un altro mondo, rispetto ad oggi».
Lascia l’incarico con nostalgia?
«Un po’ sì, ma dopo 31 anni sugli elicotteri ci può stare. Credo di aver partecipato a 3000 interventi. Sono contento di essere stato operativo fino all’ultimo. Periodicamente dobbiamo sottoporci a verifiche e all’ultima, solo qualche mese fa, sono stato promosso. Adesso continuerò a fare il volontario nel soccorso a terra. Spero di salvare gente in montagna ancora per parecchi armi».
Immagino che lei abbia anche un lavoro “normale” da gestire, come l’ha coniugato con l’attività nel soccorso?
«Sì, certamente, faccio il manutentore di macchine industriali. Ho sempre preso ferie per dedicare tempo al soccorso alpino ma non ho mai incontrato ostacoli da parte dei miei datori di lavoro. Ho piuttosto sottratto tempo a me stesso e ai miei cari».
Ecco, e la sua famiglia l’ha assecondata?
«Molto. Anzi, un paio d’anni fa avevo detto a mia moglie che forse era arrivato il momento di smettere ed è stata lei a spronarmi a continuare Mi ha sempre detto che è molto bello quello che faccio. Bisogna calcolare che sono almeno 40 giornate all’anno solo sull’elisoccorso, in più ci sono gli interventi di valle e le esercitazioni. E poi ho sempre fatto anche l’istruttore di scialpinismo. E’ anche vero che con gli anni mi sono dato una calmata».
C’è qualche intervento che le è rimasto nel cuore?
«Mi ricordo una volta, a Mezzenile. Un uomo era precipitato e io mi ero calato con il verricello per raggiungerlo ma poi il tempo era cambiato all’improvviso e non avevamo potuto portarlo via. Sono rimasto con lui tutta la notte. Non è sopravvissuto e, anche se so che non avremmo potuto fare diversamente, non l’ho mai dimenticato. C’è un altro ragazzo, invece, che tutti gli anni a Natale mi scrive un messaggio di auguri e si firma: “Sono quello scemo del rasta che hai tirato via dal vallone del Bourcet”. I messaggi di chi come lui si ricorda di te a distanza di anni fanno molto piacere».
Valutare il meteo è determinante per evitare incidenti ma condiziona anche i soccorsi, vero?
«Il tempo in montagna ci può permettere di fare tutto o niente. Per questo ogni volta che c’è una richiesta di intervento si prepara anche una squadra da terra in modo che i soccorsi si mettano in moto comunque».
Secondo lei negli anni sono cresciuti gli incidenti in montagna con l’aumento delle persone che la frequentano?
«Gli incidenti ci sono sempre stati. L’imprudenza è sempre rischiosa. lo mi arrabbio quando sento parlare di montagna killer. E’ piuttosto un’amante pericolosa: Più vai, più vorresti andare. Bisogna rispettarla».
Un articolo molto interessante, complimenti
Se le persone intelligenti, capaci e competenti (10%) si astenessero dal collaborare con la maggioranza che comanda, penso che dopo un breve periodo questa maggioranza non saprebbe più come fare e la società si riequilibrerebbe.
Ma si teme che possa crollare o passare per un periodo autoritario… il Venezuela è lo spauracchio attuale, molto prima c’era Atene.
Non è evidente: queste società di solito non scompaiono per stupidità, loro intrinseca?
Caro Alberto, basterà far fioccare multe per far cessare ogni velleità. Nel frattempo seguo con partecipazione l’Osservatorio creato proprio da Alessandro Gogna su questo problema. Sono cresciuto in libertà nel mio rapporto con la montagna e sono preoccupato.
Nel frattempo mi impegno sul fronte dell’educazione ai bambini, visto che professionalmente posso farlo. Ma la scuola è poco interessata.
Con la scusa della sicurezza ci metteranno tutti in riga.
Allora scendiamo in piazza e ricominciamo a protestare e sbattiamocene dei divieti, assumendoci sulla nostra pelle le responsabilità di quello che ci può capitare.
Sono un po’ stanco…
La prevenzione si fa a scuola, mostrando cosa sia la Natura vera e cosa siano le aree antropizzate. C’è una preoccupante ignoranza. Ed è moltiplicata dal mondo della pubblicità. Sono stanco di spot dove gente da aperitivo (nulla contro gli aperitivi, ma mi avete capito) per sentirsi “libera” raggiunge sorridente luoghi inauditi, come dovesse tornare in movida poco dopo.
Basta. La prevenzione si fa offrendo spazio sui media a personaggi dell’avventura che siano capaci di trasmettere davvero i concetti di rischio, di esperienza, di responsabilità.
Ma vedrete che in una società come questo l’epilogo, tra un po’ di anni, è già scritto: divieti, sanzioni, proibizioni.
Sono davvero rammaricato…
Il problema maggiore è che il soccorso fa girare soldi.
In tutti gli ambiti ( ad esempio nella salute) si sono ottenuti risultati importanti investendo nella prevenzione.
Anche in montagna occorrerebbe, a mio avviso, seguire la stessa strategia investendo sulle scuole di alpinismo. In questo campo oggi l’offerta è affidata praticamente ai volontari del CAI che, con tutti i loro limiti si sforzano di lavorare in quel campo. La qualità delle Guide è indiscutibilmente un’altro pianeta ma purtroppo quello è tutto un’altro mondo in termini di costi , numeri e tempi.
Io resto convinto che occorrerebbe aiutare decisamente l’operato degli Istruttori, e con la collaborazione delle Guide probabilmente si otterrebbero risultati importanti.
Questo è il nostro mondo e la montagna è la nostra passione che rischia di venir “recintata” se nulla faremo; a quel punto perderemo tutti. E’ il momento di superare gli steccati e di collaborare.
Dino Marini
Ottimo articolo dal contenuto assolutamente condivisibile. L’eliminazione della responsabilità individuale e della capacità di valutare i propri limiti e il rischio da affrontare. La montagna ridotta a luna park. Esempio è la sentenza che condanna il parco Paneveggio a risarcire un tizio che uscendo dal sentiero è finito in un buco di una trincea della Grande Guerra, perché non era segnalato. Le informazioni su questo episodio provengono dai giornali, mancano maggiori dettagli sulle modalità dell’accaduto, ma in quelle zone come per esempio in Pasubio, è noto che i buchi non scarseggiano e bisogna guardare dove mettere i piedi. Ovviamente l’unico passo ragionevole da parte di qualsiasi amministrazione che gestisca un territorio in futuro sarà di proibirne l’accesso!
Vedo che nella nostra società bisogna garantire la possibilità di consumare tutto ciò che viene offerto, altrimenti la gente non consuma e quasi sempre si fa del male (automobile, droghe, sci, montagna, mare, gite, feste, …)
E quasi tutti fanno gli scandalizzati per il clima, per i rifiuti, per … ma solo una esigua minoranza vuole cambiare il nostro modo di vivere caratterizzato dagli innumerevoli diritti senza personali responsabilità e impegno profondo.