In attesa della prossima avventura
di Marco Marrosu
(scritto nel 2014 per la Pietra dei Sogni)
Un errore di calcolo…
– Marco passami gli scarponi!
La voce di Roberto Masia, che nel frattempo si leva le scarpette, rimbomba nella mia testa e lo guardo con aria interrogativa.
In quei giorni volevamo salire il Jebel Misht, una superba parete di mille metri, ma durante l’avvicinamento in auto avevamo notato un bel pilastro di media altezza e ritenuta interessante l’idea di aprirci una via, ci siamo diretti alla sua base per sgranchirci prima le dita. Dopo ore di cammino abbiamo raggiunto il suo punto più basso e abbiamo iniziato la scalata, portandoci dietro, giusto per essere previdenti, persino una confezione di snack e 750 cl di acqua a testa.
Il triste e insonne bivacco in maglietta a maniche corte, ormai quasi senza più acqua, ci ha fatto capire quanto avevamo sottostimato l’altezza del pilastro!! Il giorno seguente, oggi… siamo finalmente arrivati in vetta anche se a fine giornata.
– Marco… ajò! Gli scarponi!
Al secondo sollecito, la mente intorpidita si sveglia e solo allora ricordo di averli dimenticati in una sosta, circa duecento metri più in basso!
Il sole sta calando sul deserto, il freddo e l’oscurità sono un mantello minaccioso che corre inesorabile da est verso ovest. Fossi stato sulla spiaggia, davanti al mare e magari in gentile compagnia, l’avrei sicuramente apprezzato ma ora siamo in Oman, sulla sommità di una parete di quasi mille metri, con un telo termico, senza cibo e con mezzo bicchiere d’acqua a testa. Ma soprattutto, se adesso abbiamo risolto il problema su come riuscire a salire la parete, ora subentra il secondo, altrettanto importante, da dove e come cavolo fare per scendere!
Con gli ultimi raggi di sole, comunicando ormai a monosillabi e gutturalmente a causa della poca saliva, cominciamo una rocambolesca e interminabile discesa tra cenge e strapiombi, entrambi con narici da segugio, alla ricerca del profumo dell’acqua. Io, per punizione, ancora con le mie scarpette d’arrampicata ai piedi e Roberto calzando i miei scarponi, di un numero più piccolo. Ormai al buio assoluto e deliranti, cominciamo a sognare le taniche di succo di frutta e i meloncini che ci attendono nel fuoristrada, tra la distesa di acacie sottostante. I miei ricordi e pensieri vanno oltre, si affidano ad altre esperienze simili da me vissute e mi aiutano a essere fiducioso, perché l’esperienza d’altronde dovrà pure valere qualcosa! Mi chiedo che ci faccio qui, chi me lo fa fare e come mai sono finito in un luogo così distante e diverso dalla mia isola.
I primordi
Comincio da ragazzino e ancora alle medie conosco quello che diventerà per molti anni il mio compagno di cordata e migliore amico, Lorenzo Castaldi. L’entusiasmo di uno cattura sempre quello dell’altro e la voglia di mettersi alla prova e vivere esperienze sempre più avventurose, ci fa incontrare altri ragazzi appassionati come noi. Vivevamo in periferia ed era facile fuggire dalla città e rifugiarsi tra le querce e le pareti, per giocare a salirle o compiere acrobazie d’ogni tipo.
Non sapevamo che esisteva l’alpinismo e neanche l’arrampicata ma alla rivendita scout compriamo la nostra prima corda: venti metri di canapa intrecciata da nove millimetri di diametro che sfruttavamo per tendere teleferiche, fare pendoli, scendere dalle pareti e farci grossolane sicure. Insieme ad altri fondiamo cosi nell’88 il gruppo “Gli Intrepidi” il cui scopo era quello di organizzare e vivere memorabili avventure. Avevamo pochissimi soldi ma molta iniziativa, perciò prima di una scalata facevamo sempre un salto presso i cantieri edili, per prelevare moschettoni a pera (gli unici che conoscevamo), corde da cantiere e cunei per casseforme che muniti di cordini sfruttavamo come chiodi da roccia. Qualche volta venivamo rincorsi dagli stessi muratori ma eravamo giovani e molto scattanti. Non sapevamo dell’esistenza dell’imbraco, arrampicavamo con la corda legata alla vita e le protezioni intermedie erano veramente poche, anche a causa della scarsità di materiale. Affiancavamo all’attività di arrampicata anche quella di lettura delle carte topografiche cercando di raggiungere obiettivi con l’uso della bussola e avevamo sempre con noi un vecchio manuale di sopravvivenza che sfruttavamo per imparare a bivaccare, cacciare, fare il fuoco, costruire rifugi. Dopo avere visto un po’ di foto, spaventati per la piega che la mia passione stava prendendo e per le sicurezze aleatorie con cui compivamo le cose, i miei genitori decidono di farmi iscrivere al Gruppo Speleologico della città dove perlomeno avrei acquisito un minimo di conoscenze tecniche e criteri di sicurezza. Ben altri cinque intrepidi mi seguirono e in breve imparammo a salire e scendere con le corde. Ci arrampicavamo e appendevamo ovunque, anche in grotta, con terrore dei soci più anziani che di tanto in tanto cercavano di tenerci a freno. Era un momento di passaggio tecnico nella speleologia dove da poco si era passati dall’uso delle scalette a quello dell’imbraco e delle risalite su corda mediante attrezzi meccanici. Si stava cominciando a utilizzare gli spit per armare ma l’armadietto era ancora colmo di nut, friend e chiodi da roccia. Tre dei soci avevano letto i libri di Walter Bonatti e spinti da uno spirito di emulazione arrampicavano già, cercando di salire alcune pareti presenti nei dintorni di Sassari ed Alghero. L’arrivo della nostra banda di scalmanati li coinvolge e così cominciamo a uscire insieme, affiancando alle uscite speleologiche quelle di arrampicata in una cava di trachite a Caniga, a pochi chilometri dalla città. Le vie venivano rigorosamente salite dal basso usando chiodi, nut e friend e qualche volta venivano provate prima con la corda dall’alto e poi salite dal basso posizionando le protezioni. È così che nasce la prima falesia di arrampicata classica del nord Sardegna, dove apriamo, nel giro di pochi anni, quasi una trentina di itinerari, e la prima palestra di arrampicata indoor, che realizziamo con tavole e appigli di roccia nella nostra sede, per poter proseguire l’attività anche durante le sere d’inverno.
Attorno a Sassari cominciano a nascere le prime falesie di arrampicata sportiva e iniziamo a incontrarci con i primi arrampicatori non speleologi, ma è la conoscenza dell’utilizzo delle protezioni removibili che ci dà la libertà assoluta di scegliere il nostro itinerario e di andare dove vogliamo.
Diventa per noi importante non solo il gesto tecnico, ma anche la sfida di riuscire a superare le difficoltà che la roccia ci pone e raggiungere quello che ci eravamo prefissati. Ben presto le pareti sotto casa cominciarono a starci strette e con l’arrivo della mia patente e dell’auto ormai non avevamo più limiti: comincia l’esplorazione di tutta la roccia che ci circonda.
Giorrè
Sempre con la cartina in mano e grazie al gruppo speleologico, individuiamo nel 1997 un’ampia fascia rocciosa situata a soli quindici minuti d’auto da casa. Si tratta di Giorrè, la parete più alta del Sassarese. Sapevamo che qualcuno c’era già passato con l’intento di fare delle vie sportive o aveva posizionato qualche spit, ma tutti erano tornati indietro perché la parete, esposta a nord e sovente coperta da licheni, era costituita da un calcare poroso molto tenero dal quale gli spit uscivano a trazione. A noi Giorrè sembrò subito una parete fantastica, perfetta per mettere alla prova il coraggio e la nostra abilità: il versante nord è caratterizzato da lunghe cenge orizzontali sormontate da tetti arcuati dove l’unica maniera per passarli è aggirarli o risalire le fratture che talvolta li segnano. Lunghe fratture dalla base alla vetta sono l’ideale per proteggersi e imparare le tecniche di incastro, i tetti sono severi professori che insegnano la difficile arte dell’uso delle staffe, la roccia, non sempre buona, insegna a distribuire bene il proprio peso durante la progressione e la lunghezza delle vie è una buona scuola per le vie “più impegnative”.
Vengono qua aperte a opera del nostro gruppo di amici, nel corso degli anni, alcune delle vie classiche più dure e complesse del nord Sardegna come Mani Dure, una via dove l’arrampicata è in strapiombo e viene superato su staffe un tetto di otto metri orizzontale, dove Lorenzo in solitaria ha poi aperto una variante di settimo grado. O anche altre vie come Grandi Labbra e Sesto Senso, dove i lunghi tetti sono segnati da spaccature che ti obbligano a percorrerli con il corpo in opposizione, disteso quasi orizzontale, e il viso rivolto verso il vuoto.
Quel giorno di febbraio del 1998 con Lorenzo avevamo appena salito la parete raggiungendo la croce posta sulla sommità. Ai friend preferivamo chiodi da roccia e nut su quel tipo di roccia e, senza troppa fatica, avevamo aperto la prima via sul costone. Durante la discesa a piedi, galvanizzati dal successo e indecisi sul nome da dare alla via, non ci siamo accorti che qualcuno ci attendeva tra i cespugli della macchia. Il tizio, probabilmente proprietario delle pecore circostanti, compare all’improvviso e comincia a chiederci della nostra salita. Continua la conversazione raccontandoci del dopo guerra, quando ragazzini avevano scalato senza corda, a piedi nudi, una guglia di venti metri là vicino. Veniamo a scoprire di avere amicizie in comune e accompagnandoci alla macchina conclude: – Beh, salutami tanto Antonio.
– Senz’altro, chi devo dire?
– François Cochon in fransè… non conosci il francese?
Ci guardiamo perplessi, ma la risposta di François ai nostri sguardi arriva veloce: – Francesco Porcu, alla maniera sarda!
Ridiamo ed è così che nasce il nome della prima via sul grande muro di calcare di Giorrè.
Capo Caccia, l’isola e le pareti
Nel 1991 con Lorenzo avevamo diviso la spesa per l’acquisto di una copia di Pietra di Luna, la guida all’arrampicata in Sardegna, e per vie traverse avevamo procurato una vecchia copia di Mezzogiorno di Pietra e la guida Sardegna del CAI-TCI. Eravamo particolarmente affascinati dalle vie lunghe e avevamo, a questo punto, tutto il necessario per ripetere le più alte e vicine pareti di casa. Cosi indirizziamo subito i nostri sforzi esplorativi ad Alghero, Capo Caccia, dove le pareti sono di solido calcare e arrivano sino a trecento metri d’altezza a picco sul mare. Ripeto con vari compagni le vie aperte da Manolo, Gogna, Bonelli e Mazzucchi tra Torre della Pegna e Punta Cristallo. Sono nomi per noi entrati nel mito come Cristalli di Paura, Sperone del Grifone, Tegole Grigie. Per dare un’idea dell’entusiasmo che pervadeva il nostro gruppo di amici in quegli anni, basti pensare all’affilata guglia posta poco sotto la Torre della Pegna: la sola vista della foto a piena pagina su Mezzogiorno di Pietra, con didascalia “mai scalata”, spinge Lorenzo una sera a salirla in solitaria senza auto-assicurarsi e ridiscendere alla base senza corda, per evitare di dovere abbandonare costoso materiale in vetta. Eternamente squattrinati, utilizzavamo i soldi guadagnati durante i lavori estivi solo per corde, moschettoni e benzina.
Dopo avere ripetuto, iniziammo ad aprire nuove vie sfruttando inizialmente le cenge per giungere sino alla base delle falesie e cercando pareti sempre più strapiombanti o lisce da superare. Nascono così le vie di più grande impegno tecnico e psicologico di Capo Caccia. Sono itinerari dove non hai normalmente la possibilità di esplorare bene la parete, sotto hai spesso il mare e grande difficoltà a tornare indietro. Tutto era un grande viaggio nell’ignoto, reso affascinante dalle emozioni e dalle incognite. Non sempre ci riusciva una prima salita al primo colpo, ma poi si tornava sempre. Come nel caso in cui stavamo aprendo Starsky & Hutch, quando, gettata la corda per ritirarci, rimase sospesa a circa dieci metri dalla superficie del mare e distante, a causa dello strapiombo, venti metri dalla parete. Era autunno, quasi buio, e fummo costretti a tuffarci completamente vestiti, con casco e imbraco stracolmo di attrezzatura, e ovviamente l’ultimo durante il tuffo si appese come un disperato all’estremità della corda per ritirare la doppia.
Trovarci al buio divenne una costante e finimmo per farci l’abitudine. Una delle avventure più grandi e rocambolesche fu senz’altro quella dell’apertura del Bacio della Luna, era il 1997 e scrivevo:
“- Lo sai, Marco, sì?! che devi uscire dalla parete?… lo sai?!!… vai!
È imbrunire inoltrato, siamo senza luce e la parete è completamente in ombra, quando raggiungo Lorenzo, che mi incita a superare gli ultimi venti metri vergini di parete. Siamo appesi nel vuoto su due chiodi universali (Dio li benedica) su un muro liscio e verticale. Scopriremo poi che dei poliziotti, avvisati da alcuni turisti che ci osservavano dal piazzale, stavano cercando di venirci incontro per illuminarci dall’alto la parete. Toccava nuovamente a me, tutto era insicuro, la luce calava impietosamente, la roccia, compatta, respingeva ogni mio chiodo e a causa del buio vedevo con molta difficoltà la mia mano. Ma la determinazione era tale che nulla poteva impaurirmi e salivo perché dovevamo uscire da quella parete, perché non potevamo rimanere là e arrivava la notte. Come la mia mano ha raspato il ripiano finale e mancavano solo tre metri all’uscita, tutto è diventato più chiaro. Il forte raggio di luce della luna piena quasi mi acceca da quanto mi ero abituato a salire nell’oscurità assoluta. E la luce aumentava a mano a mano che salivo e con lei il mio entusiasmo e la mia felicità. Ce l’avevamo fatta!”.
Non tardò molto che acquistammo un canotto per bambini da fare scivolare nel braccio antistante il Belvedere, con lo scopo di raggiungere e scalare i versanti nord e ovest dell’Isola Foradada che presenta pareti a picco di oltre cento metri d’altezza, continuamente sconvolte dalle peggiori mareggiate. Con questi mezzi, e una volta addirittura a nuoto trascinandoci un piccolo canotto con i materiali, sono nate infine Robinson Crusoe, Slide Shit, Ombre nella mente.
Il servizio militare e la scoperta del granito della Gallura
Durante un periodo di convalescenza obbligato a causa di una lussazione recidiva della spalla, mi sono accorto che i movimenti che si utilizzavano per la progressione su granito erano meno rischiosi per i miei arti di quelli spesso obbligatori su calcare. Avevo già arrampicato su granito nella Valle della Luna, presso Santa Teresa Gallura, dove splendide rocce modellate dal tempo erano segnate da fessure lunghe oltre cento metri. Era un’arrampicata che mi piaceva per le linee e la possibilità di proteggersi facilmente utilizzando i friend. Perciò quando venni inviato a fare il servizio militare nelle isole dell’Arcipelago di La Maddalena, nella Gallura Orientale, comprai immediatamente le carte topografiche della zona e cominciai a pianificare, durante i turni di guardia, la scalata delle principali vie esistenti e contemporaneamente l’apertura di nuove.
Con Lorenzo ripetiamo ad Àggius Sussurri e Grida, VII+, la via più difficile della Gallura, e da qua in poi cominciamo la ricerca di nuove mete. Con vari compagni di cordata inizio a esplorare nuove pareti e gruppi rocciosi, aprendo i primi itinerari sul Monte Sa Curi di Olbia, Multa Longa di Porto Cervo e Monte Ruju di Monti, Viddalba ed Aglientu. Scaliamo per primi a San Pantaleo le torri di Punta Lu Lurisincu, la Costa e Guglia di Beddoro. Individuiamo e scaliamo le numerose strutture rocciose situate sul Monte Limbara, nel gruppo del Monte Biancu, sfuggite a chi ci aveva preceduto, e aggiungiamo itinerari a numerose strutture in cui spesso Ivo Mozzanica o Alessandro Gogna aveva posato il loro zampino tra gli anni ‘70 e gli ‘80.
Oramai stavo collezionando tanti piccoli sogni nel cassetto e per condividere i più belli aspettavo con trepidazione il rientro in Sardegna di Lorenzo, che nel frattempo si era trasferito per lavoro fuori. Era la fine di aprile del 1999 quando il mio Pandino romba dirigendosi verso il Supramonte di Oliena. L’equipaggio era agguerrito e formato da me e Lorenzo, determinati a tracciare un nostro ardito itinerario su una delle pareti di calcare più belle della Sardegna, la Sud-est del Monte Uddè. Si tratta di una conca verticale e strapiombante di trecento metri di dislivello, delimitata a sinistra da un torrione e a destra da un affilato spigolo, scalati entrambi negli anni ’80. Era incredibile che quella conca non fosse stata ancora scalata. Con gli spit nello zaino sarebbe stata una tentazione troppo forte utilizzarli in caso di guai o forzare la salita, ma ci eravamo ripromessi di scalarla nella maniera per noi più autentica, a costo di calarci e rinunciare. Dopo quasi tre ore da casa facciamo la salita a piedi sino alla base della parete e cominciamo a prepararci indossando l’imbraco e posizionando il materiale. La tensione è alta e la parete impegnativa, percorro i primi metri e vedo incredibilmente una lama di roccia trapanata e spuntare dal foro artificiale un cordino, più in alto segue una fila di spit che percorre la linea che volevamo seguire. Ci avevano preceduti! Dopo le prime esclamazioni di sorpresa, bastano pochi sguardi tra di noi per comprendere come la delusione fosse tanta. Facciamo una breve riflessione se ci interessava ripetere un itinerario di quel tipo e, riposto il materiale nello zaino, volgiamo le spalle alla parete e cominciamo la discesa verso l’auto. È in quella occasione che apro uno di quei famosi cassetti e comincio a parlare a Lorenzo della possibilità di aprire la via di granito più lunga della Sardegna. Avevo girato la mia isola abbastanza e sapevo che nella Gallura Orientale era presente Punta Scala M’Predada, almeno trecento metri di dislivello, il cui splendido spigolo non era ancora stato scalato. Senza pensarci due volte facciamo altre tre ore e mezza di auto sino ad arrivare allo Stazzo Manzoni, San Pantaleo, dove bivacchiamo in attesa dell’alba. Il giorno dopo ha visto la nascita della via Territorio Comanche, uno di quei sogni dai quali ti risvegli con un sorriso che serbi a lungo: arrampichiamo per oltre quattrocento metri di sviluppo, superando un difficile camino di venti metri, diedri, fessure strapiombanti, un tetto. Superiamo un tunnel tra le rocce e ci sediamo infine in vetta ad ammirare dall’alto la distesa di roccia, il mare, il verde lussureggiante della primavera e a percepire il calore del sole e il profumo del vento.
Il calcare del Supramonte
La maggiore parte degli itinerari aperti, sia classici che sportivi, era concentrata nel calcare del centro Sardegna e della costa orientale, località che conoscevamo bene e che frequentavamo abitualmente durante le esplorazioni speleologiche. Ripetevamo abitualmente le vie sportive e anche le classiche tra Oliena, Dorgali e Urzulei ma con il passare del tempo cominciamo con Lorenzo a individuare la possibilità di salire dove ancora nessuno era passato. Ci concentriamo sulla parete ovest del Cusidore, facendo la prima ripetizione di tutte le vie classiche presenti e aprendone due, e in seguito sulla sua parete nord, aprendo a pochi metri di distanza da Mercanti di Chiacchiere, La Martora e il Deserto.
Nella Guida ai Monti d’Italia era stilato un elenco delle vie più impegnative della Sardegna e alcune non avevano ancora delle ripetizioni o ne avevano veramente poche, una di queste era il Pilastro Gianni Comino aperta da Bernardi, Persico e Gobetti nel 1980. La via è situata sul Monte Oddeu e delimita il lato ovest della Gola di Gorropu. Riuscire a salirlo ci affascinava e solleticava la nostra ambizione e così il 7 agosto del 2001 raggiungiamo la base della parete dopo due ore e mezza di cammino, decisi a partire all’alba per concludere la salita in giornata. Il giorno dopo, il primo tiro fila liscio ma già dal terzo ci troviamo a vagare nella parete concludendo, date le difficoltà superiori incontrate, che avevamo sicuramente sbagliato. Il tempo passava e ormai la salita ci sembrava giocata. Non avevamo acqua con noi e pensavamo di procedere molto più veloci. Decidiamo, a malincuore, di calarci. È allora che mi accorgo, durante la discesa, della cresta di Punta Cuccutos. È la cresta che vista da sud delimita il lato sinistro della Gola di Gorropu e la cui base era proprio sotto la nostra linea di calate. Decidiamo di andarci sotto e alle 11, senza acqua e cibo, cominciamo la salita. La roccia iniziale richiede un po’ di delicatezza, ma come inizia a migliorare comincia la grande corsa contro il tempo: nei tratti più facili procediamo di conserva e nei tratti più difficili procediamo decisi. Lorenzo supera un difficile muro verticale traversando delicatamente sino a un pulpito sospeso e a mano a mano che saliamo la cresta diventa sempre più affilata. La gola da cui nasce la cresta è larga alla sua base circa cinquanta metri, ma salendo le due pareti che la delimitano iniziano ad allontanarsi una dall’altra: ci sembra di spiegare le ali e volare. Il sole comincia lentamente a inclinare i propri raggi, siamo assetati ma non abbiamo acqua, la concentrazione nella scalata è totale, non abbiamo la torcia frontale e dobbiamo arrivare con il sole almeno in vetta. Quando la cresta finalmente si abbatte, è il crepuscolo e raggiungiamo il tratto piano dopo ottocento metri di scalata e corsa contro il tempo. Ci accoglie in vetta il maestrale che soffia freddo e violento. Siamo stanchi, accaldati prima e congelati ora, in maglia a maniche corte, al buio, barcolliamo muovendoci a tentoni, cercando di orientarci e raggiungere la strada Orientale Sarda. Dopo due ore e mezzo di cammino arriviamo finalmente al bar nel passo di Genna Silana, assetati e affamati, senza niente per dormire. Dando come “pagherò” al barista la nostra attrezzatura alpinistica riusciamo ad avere acqua, bibite, patatine e cibo a volontà. Per festeggiare ci accasciamo in un edificio in costruzione dalla parte opposta della strada. Dentro quelle mura troviamo dei teli di plastica con i quali ci avvolgiamo per passare la notte. Dal niente arriva un gattino nero che cerca ostinatamente di salire sulla fronte di Lorenzo. Ridiamo a crepapelle e alla fine Lorenzo decide di usarlo come scaldino tenendolo sulla pancia.
Esordisco con: – Come la chiamiamo la via?
Lorenzo, avvolto nel telo di plastica e sempre con il gatto sulla pancia, mi guarda e poi volge di nuovo lo sguardo al soffitto: – Riflettevo, mentre salivamo dal fondo della gola… che mi sentivo come doveva sentirsi l’araba fenice che, essere mitologico immortale, rinascendo dalle proprie ceneri, spicca il volo verso il cielo.
Dopo la decisione unanime di chiamarla Araba Fenice, chiudiamo gli occhi quasi ignorando i primi brividi di freddo… in attesa della prossima avventura.
15
Bel racconto, storie di sete di avventura che mi sono gustato con un pizzico di nostalgia…..
un bel ricordo anche dell’’indimenticabile Lorenzo, che ho avuto la fortuna di conoscere anche se molto brevemente. Le loro scorribande nel nord Sardegna in quegli anni e senza connessioni con altre realtà di arrampicata erano decisamente all’avanguardia. Ho ripetuto qualcuno dei loro itinerari, tutti di carattere, uno su tutti la bellissima Ombre nella mente alla Foradada (con Marco in canotto a farci da cicerone!) oppure Starsky e Hutch (che in cima, mentre il mio socio chiamava Marco per dirgli che eravamo usciti , io baciavo la roccia piatta in segno di riconoscimento agli dei di Capocaccia , dopo la smaltita sull’aragonite friabile ????)
un saluto al grande Marco!!
Bellissimo davvero, forse anche un omaggio al suo inseparabile compagno d’avventure che aveva perso la vita da non molto, travolto da una slavina.
Sono rimasta rimasta meravigliata di questo bellissimo racconto.
Che storia e che splendido racconto!
“e via verso nuove avventure”
ce lo siamo ripetuto spesso, alla fine di una via appena salita.
Bellissimo racconto di vita verticale intensamente desiderata e vissuta. Incoscenza e cosapevolezza si alternano in un vortice continuo, com’è giusto che sia.