La Rete della Vita
di Alessandra Bracci*
(pubblicato su researchgate.net il 21 novembre 2023)
«Questo sappiamo, che tutte le cose sono legate come il sangue che unisce una famiglia… Tutto ciò che accade alla Terra, accade ai figli e alle figlie della Terra. L’uomo non tesse la trama della vita; in essa egli è soltanto un filo. Qualsiasi cosa fa alla trama, l’uomo la fa a se stesso».
Una leggenda narra che il 18 marzo di ogni anno si vede comparire, in una cappella posta nel cuore del Circo di Gavarnie nei Pirenei ove riposano sei templari, «un cavaliere del Tempio in tenuta da combattimento, con la lancia in resta e il famoso mantello bianco crociato di rosso al posto del sudario funebre. A lenti passi si dirige verso il centro della cappella, e qui manda un richiamo lacerante la cui eco si ripercuote in tutto l’anfiteatro montuoso: “Chi difenderà il Santo Tempio? Chi libererà il sepolcro di Cristo? A questo richiamo i sei templari sepolti si rianimano e si levano per rispondere tre volte: “Nessuno! Nessuno! Nessuno! Il Tempio è distrutto!” (Henry Corbin, 2010)». L’eco di quelle voci risuona nelle pieghe del tempo e dei luoghi per richiamare ad una catastrofe al centro della storia universale: la distruzione del Tempio, la distruzione di quella forma che, nella sua sacralità, è riflesso del mondo divino.
Ma nel corso dei secoli, ricorre anche un’altra immagine trionfale, che oppone a questa apparente inevitabile disfatta la volontà di una sfida permanente, ed è l’immagine della ricostruzione del Tempio, ove l’essere umano, perduta la sua anima, è chiamato ad un viaggio per ritrovare il significato della “cripta” e contribuire all’avvento del nuovo Tempio che assume le dimensioni di una restaurazione cosmica. Una vera e propria “eroica” ricerca di quel centro che “non è situato” in quanto “non è luogo”, alla quale viaggiatori di ogni epoca hanno dedicato la propria esistenza, ognuno con il proprio passo mostrando che non esiste alcuna frattura nella spirale della vita poiché essa, nella caleidoscopica varietà delle forme, si estende senza soluzione di continuità dalle più oscure profondità fino alle altezze più vertiginose. Non è da tutti avviarsi lungo un siffatto e periglioso cammino, ma ciò che conta è intraprenderlo e mantenere sempre vivo l’amore per la verità, quell’“amore” che consente all’essere umano di esprimere la dimensione più profonda e creativa della propria esistenza, di recuperare la propria esperienza di totalità, cercando di ritrovare quell’antica armonia con la Natura che costituisce la premessa vitale della sua stessa sopravvivenza.
Si tratta di un faticoso processo di trasformazione che investe, a livello individuale e collettivo, l’intera umanità:
«la domanda decisiva per l’uomo è questa: è egli rivolto all’infinito oppure no? Questo è il problema essenziale della sua vita. Solo se sappiamo che l’essenziale è l’illimitato, possiamo evitare di porre il nostro interesse in cose futili, e in ogni genere di scopi che non sono realmente importanti. […] Se riusciamo a capire e a sentire che già in questa vita abbiamo un legame con l’infinito, i nostri desideri e i nostri atteggiamenti mutano. […] La più grande limitazione per l’uomo è il “Sé”; ciò è palese nell’esperienza: “Io sono solo questo!”. Solo la coscienza dei nostri angusti confini nel “Sé” costituisce il legame con l’infinità dell’inconscio (Carl Gustav Jung, 2007)».
Può dunque l’uomo orientarsi verso tale nucleo originario, ad esso avvicinarsi e cogliere la propria totalità? Può muoversi nel labirintico percorso attraverso i più oscuri meandri della propria soggettività per compiere la propria metamorfosi? Quali caratteristiche psicologiche sono necessarie per attuare una tale trasformazione? In questa prospettiva le eterne domande dell’uomo sul senso della nascita, sul valore della morte, sul significato della vita e del suo progetto, sul perché del dolore o del piacere, diventano oggi le domande collettive più formulate.
Nell’eterno fluire dell’esistenza, il tempo si coagula in una forma, in un grumo di sensi secondo l’incessante processo che continuamente contempliamo nel farsi e disfarsi della materia. Se potessimo filmare la nostra esistenza personale, financo quella collettiva, e potessimo riprodurre la moviola e velocizzarne la sequenza all’infinito, la nostra effimera vita e quella dell’intera umanità, scomparirebbero! Ed è proprio in questo breve batter di ciglia che l’essere umano è chiamato ad andare oltre la frammentazione e le “false divisioni”, potendo riconoscere l’arazzo finemente intrecciato che costituisce il mondo di cui fa parte e risvegliare la consapevolezza di vivere in un universo interconnesso. La scienza moderna, infatti, dimostra che non vi è separazione fra uomo e ambiente, fra mente e natura, perché entrambe fanno parte di una serie di relazioni costruite su un modello a rete, che rende ogni nodo di esso relato agli altri nodi del sistema. Le recenti scoperte nel campo della biologia, dell’epigenetica, della fisica, della psicosomatica, etc. evidenziano la necessità di una metodologia e di criteri teorici di riferimento capaci di evolvere per accedere ad una visione trans-disciplinare e “a rete” del fenomeno che chiamiamo Vita.
Una visione del mondo che cerchi di intrecciare tutti i livelli – personale, sociale, collettivo e spirituale – in un modello il più possibile coerente, costituisce per l’individuo una necessaria ricerca di ordine, che va a riattivare gli archetipi universali e il loro divenire individuale, espresso non solo nelle vicende umane ma anche nella storia biologica e psicologica del corpo e della mente dell’uomo che ripete analogicamente le leggi del Macrocosmo, ove la parola “cosmo” racchiude nella sua dinamica due significati strettamente affini: l’ordine che è presente nell’Universo e che pertanto sarà presente anche nell’uomo e l’armonia che ne regge le sue leggi immutabili, che si esprimerà nell’uomo come sintesi di parti armonizzate nel tutto, come continuum biologico, psicologico e spirituale che si snoda nelle infinite metamorfosi filogenetiche, in un progetto virtuale che ha come fine la propria coscienza individuata. L’ecobiopsicologia, come sviluppo delle scienze della complessità e in accordo con le moderne teorie evoluzionistiche, propone un modello che ambisce a porre in relazione i codici semiologici delle forme del vivente e i loro particolari linguaggi (aspetto ecologico) con gli analoghi linguaggi del corpo umano, che sedimentano in sé la filogenesi del mondo (aspetto biologico) per poi ritrovare tale relazione fra “mondo” e “bios” umano negli aspetti psicologici e culturali dello stesso, grazie ai miti, alla storia delle religioni e alle immagini collettive dell’umanità (aspetto psicologico).
È in questo senso che possiamo parlare dell’uomo come “Creatura Integrale” che, nell’accezione più profonda del termine, esprime quella dimensione radicata nella sua fisicità che diviene “tempio” vivente della propria progressiva emancipazione cosciente verso l’unità, quella dimensione che non è stata ancora ordinata secondo quella costante armonica che definiamo come legge universale e che, nel suo procedere verso l’integrazione, apre la coscienza a significati non prevedibili e trascendenti l’ordinario. Per accedere a quanto vive occulto nell’intimo “santuario” della propria anima, non è possibile avvalersi di una semplice logica descrittiva “lineare”, quanto piuttosto di una lettura “circolare” capace di integrare la conoscenza razionale con il valore irrazionale dell’empatia ed una fondata consapevolezza dell’essenziale interazione ed interdipendenza di tutti i fenomeni: fisici, biologici, psicologici, sociali, culturali e spirituali. È necessario privarsi della vista esteriore che incatena l’essere umano ai bisogni entro cui imprigiona la propria esistenza, è necessario accogliere la graduale destrutturazione di ogni egoismo, è necessario sacrificare l’illusoria speranza di felicità proiettando nell’altro da sé il proprio bisogno di completezza, per aprirsi ad una vista interiore capace di andare oltre le barriere erette dalla volontà egoica ed abbracciare l’invisibile e l’inudibile.
Solo attraverso il superamento delle proiezioni dell’Io si può avviare il proprio cammino verso una piena e vera trasformazione che presuppone il dolore e la sofferenza come mezzo privilegiato di conoscenza e consapevolezza di un senso di appartenenza ad una comunità di ordine più generale, quella costituita dalla Vita: noi tutti siamo parte integrante della “famiglia terrestre” e in quanto tali dovremmo comportarci come fanno gli altri membri di questa famiglia – piante, animali, microorganismi – che formano quella vasta rete di relazioni nota con l’espressione la “Rete della Vita”. Questa rete vivente globale si è dischiusa, evoluta e diversificata nel corso di miliardi di anni senza mai rompersi. Come membri della comunità globale, è necessario che anche l’uomo sia in grado di sviluppare la propria progettualità in modo tale da non interferire con la natura della Vita. L’essere umano, parte integrante dell’universo intero, non è che un passeggero su questa terra che, di fronte allo sfaldarsi del tempo, è chiamato ad oltrepassare la soglia per accedere ad una rinnovata lettura del flusso della Vita entro il quale è costantemente immerso. Come direbbe Diego Frigoli «Il vero spirito dell’uomo integrato non ha l’obiettivo di distruggere le forze naturali, ma piuttosto di dominarle, di adattarle, di porle al servizio del proprio sviluppo interiore. In altre parole la coscienza umana deve prima dissolvere dall’interno tutte quelle tappe corporee della filogenesi, specchio individuale delle potenze cosmiche della vita. Solo con questa premessa la coscienza in corso di individuazione può aderire con il proprio movimento interiore, sempre più rapido perché ad impronta non più egoica, a quel più vasto movimento che regge la vita stessa. Ed allora in quel contatto vivificante la coscienza stessa dell’uomo diventa protagonista di quella danza eterna che trasmuta continuamente il divenire» (Frigoli, 1985).
Il problema, dunque, non è solo rispondere alle urgenze dettate dall’inquinamento, dall’esaurimento delle risorse disponibili, dalla sovrappopolazione, da un sistema economico ossessionato da idee di crescita e di espansione, dal decadimento politico, religioso, etc. quanto piuttosto iniziare a guardare in profondità dentro noi stessi fino a che non iniziamo ad essere presenti a ciò che sta cercando di emergere: mentre stiamo ancora cercando strumenti e processi per tamponare ed arrestare una crisi che si impone, convinti della nostra supremazia sulla Natura, inebriati dai nostri successi e dalle nostre incredibili conquiste, non siamo ancora riusciti a controllare la nostra più intima natura, a comprendere il tumulto di emozioni che si agita nei diversi livelli del nostro “mare interno”, ad accettare la crudezza dei nostri limiti e al tempo stesso la grazia e leggerezza che sperimentiamo nella materia dei nostri sogni, a mantenere vivo il fuoco della nostra più profonda ricerca, nonché a scoprire il prezioso oro nascosto nelle nostre profondità.
L’eco di quella lontana voce continua a risuonare: «Chi difenderà il Santo Tempio?»: ogni cambiamento si origina da qualche parte, si avvia in ogni essere umano…chiunque di noi. “Nessuno” ha il diritto di stare a guardare aspettando che altri facciano quello che egli non è disposto a mettere in atto personalmente.
Cambiare o non cambiare: questo dunque non è il dilemma! Siamo testimoni di una gara fra punti di non ritorno e, alla luce della teoria della complessità, sappiamo che tali punti di instabilità possono portare tanto a danni quanto ad innovazioni. Come direbbe Albert Einstein, la coscienza che ha creato il problema non può essere quella che lo risolve, pertanto il “superamento” si caratterizza con un innalzamento del livello di coscienza: il problema non viene risolto in modo logico, non viene rimosso, ma appare sotto un’altra “luce”. Mentre ad un livello inferiore si resta bloccati in una situazione di crisi che possiamo definire “patologica”, ad un livello più elevato, a cui chiunque potenzialmente può accedere, si dispiega un ampliamento della coscienza capace di reggere la tensione degli opposti, di riconoscere la legittimità di entrambi e di integrare nuovi orizzonti. Si pone l’accento sulla “mentalità” necessaria alla comprensione della dimensione simbolica che può consentire ai protagonisti del mondo globale di approcciare gli eventi potendo cogliere non soltanto l’aspetto visibile ed immediatamente percepibile della realtà, delle persone, delle informazioni e degli eventi ma anche di penetrarne in profondità le articolate connessioni.
A partire da tale premessa, il progetto denominato “La Rete della Vita” intende incontrare Ricercatori appartenenti alle più svariate discipline per accogliere la loro “lettura”, non solo del tempo attualmente vissuto dall’umanità quanto anche della “rivoluzione delle coscienze” che occorre mettere in atto. La spinta al cambiamento si fa sempre più intensa e risulta necessario rinforzarla ed in-formarla contribuendo a legare assieme le varie conoscenze proposte da differenti discipline sui medesimi ambiti della realtà, permettendo alle teorie costruite sui fatti empirici da parte di ciascuna scienza di trovare un accordo che permetta una sorta di criterio interno di verità e una prospettiva mirata di sviluppo integrato. Nel mentre del nostro più sincero ringraziamento a tutti i Ricercatori che hanno accettato di aprire un dialogo con la nostra Scuola, coltiviamo la speranza di poter procedere insieme lungo il necessario processo di metamorfosi collettiva della coscienza.
*Dr.ssa Alessandra Bracci – Manager presso una multinazionale automotive e vincitrice di premi nazionali ed internazionali nel marketing. Capo Redattore della rivista Materia prima – Rivista di Psicosomatica Ecobiopsicologica. Autrice di pubblicazioni in ambito scientifico.
Intervista a Giorgio Cavallari
a cura di Alessandra Bracci*
La nostra è un’epoca assai curiosa: da un lato una scienza e una tecnica sempre più avanzate ci danno il senso di un illusorio dominio sulla vita; dall’altra, mai come in questo momento, l’uomo vive un’esperienza di estraniazione della propria soggettività per non dire di alienazione da tutto ciò che è naturale e vitale. Per questo motivo “salute” e “malattia” sono concetti che assumono una rilevanza del tutto particolare, non solo in riferimento al singolo individuo nelle sue dinamiche di sofferenza del corpo e della psiche quanto anche in relazione al più ampio “disagio” che la dimensione collettiva esprime nelle forme più disparate e attraverso eventi fra loro diversissimi. In un’epoca in cui il farmaco sembra essere la panacea di tutti i mali, restituendoci l’illusione di poter sconfiggere la malattia al ritmo di compresse, sciroppi, pomate, etc., abbiamo dimenticato che, per quanto possa essere fondamentale la definizione di un adeguato apparato chimico-farmacologico, la “malattia” richiede necessariamente la conoscenza delle leggi naturali a cui l’uomo e l’universo sono inesorabilmente sottoposti, poiché nel microcosmo “uomo” si intrecciano tutte le categorie e gli strati che compongono il reale. L’uomo è infatti materia ed energia, struttura biochimica e apparato psichico, sangue e respiro, ma anche contemporaneamente linguaggio, simboli, mito, religione, arte, storia, socialità, ecc.
Il “perché” della malattia, pertanto, ci apre non solo ad una lettura oggettiva ma ci impone di comprenderne il senso in una prospettiva simbolica. Come sappiamo, molti studiosi nel corso del tempo ci hanno mostrato come il corpo, sano o malato che sia, “parla” un suo specifico linguaggio strutturato sulle leggi espressive proprie del simbolo, rendendo l’interrogativo molto esplicito: cosa vuole comunicare l’inconscio attraverso la malattia?
Se, ad esempio, pensiamo ad un paziente che ha avuto un infarto si renderà chiaramente necessario curare l’attività coronarica, ma occorrerà anche capire perché è stata colpita tale funzione in un particolare momento della sua vita personale, lavorativa, etc. Questo modo di procedere applicato alla pandemia che sta drammaticamente caratterizzando questo momento storico, ci invita ad interrogarci e a cercare di capire cosa viene fermato ed in che modo possiamo ripartire… perché tutti siamo d’accordo sul fatto che si debba ripartire! Ma come?
Nella costante attenzione alle dinamiche che stanno caratterizzando questo periodo, accogliamo la voce del Dr. Giorgio Cavallari – medico psichiatra, psicoterapeuta analista di formazione junghiana (CIPA, IAAP), Direttore Generale, Direttore Didattico e Docente della Scuola di Psicoterapia Istituto ANEB – che nel suo percorso di ricerca ha riccamente affrontato il tema della “crisi” nelle sue differenti prospettive, identificando nel tempo attuale uno “stop” ad un particolare modo di procedere che nei suoi testi identifica con l’affermarsi, ad un certo punto della storia del genere umano ed in particolare nella storia occidentale, del “patriarcato” ossia di un movimento caratterizzato da parole precise: crescita, avanzamento, conquista, sviluppo, etc. Un atteggiamento che egli non considera in sé negativo: «fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza», ricordandone quindi la fondamentale natura che porta ad esprimere ed esercitare la forza, il potere, l’intelligenza, la particolarità e l’unicità della specie umana. Purtuttavia, tutto questo diventa negativo nella sua espressione unilaterale e granitica, nella sua espressione incapace di dialogo.
Se la sopravvivenza dell’umanità dipende da un salto di “qualità” dell’uomo è lecito chiedersi cosa dovrebbero cercare di sviluppare l’individuo e la società intera per far fronte al futuro. La dimensione archetipica sollecitando la necessità di una visione unitaria e globale, comporta per i singoli “protagonisti” di questo confronto un avviamento verso una propria trasformazione nella direzione di una maggiore consapevolezza della propria appartenenza alla “rete della vita”, recuperando così una prospettiva evolutiva sempre più aperta alla comprensione delle leggi della natura. Un profondo cambiamento che non potrà pertanto essere il risultato di un progetto pianificato a tavolino, quanto piuttosto il risultato esperienziale dell’azione, “azione” intesa quale fondamento della creatività umana che, entrando in interazione con altre prospettive, è destinata ad adattarsi e migliorarsi generando nuovi percorsi evolutivi. È a partire da questi assunti che incontriamo il Dr. Cavallari per consentirci di comprendere non solo i momenti salienti della nostra crisi epocale, quanto anche la necessaria dimensione creativa ed il suo legame con quello che definisce “processo di umanizzazione”.
Nel web sta circolando una bellissima frase: “Tutto ciò che ho vissuto nella mia vita mi ha preparato per questo momento”: come questa affermazione è vera per lei? Qual è la domanda su cui si fonda il suo lavoro? Cosa c’è al cuore della sua ricerca?
Ciò che ho vissuto finora, gli incontri umani, le esperienze personali e professionali fatte in vari ambiti, le conoscenze che ho acquisito mi piace considerarli una parte del mio “destino”: Seneca disse che il destino guida chi lo segue volontariamente e travolge chi vi si oppone. Al cuore di ciò che faccio, come psicoterapeuta ecobiopsicologico, ci sono due verbi che esprimono due “azioni”: capire e curare. Dietro il primo c’è una curiosità che mi accompagna fino da quando ero ragazzo, la curiosità di capire la Vita, vita mentale, vita biologica, vita dell’uomo e dell’ambiente in cui si trova. Vita che è cambiamento e stabilità, pace e inquietudine, autonomia e dipendenza, coraggio e paura, successi e fallimenti. Vita che è esperienza di crescita, di forza, di conquista, di libertà, di creazione di scenari nuovi, ma anche esperienza di limite, di malattia e inevitabilmente di morte, dimensione oscura che dalla vita non potrà mai essere totalmente separata.
Dietro il secondo verbo, curare, c’è la convinzione che non si può essere ciechi e sordi di fronte alla sofferenza di “altri”, siano uomini, altri esseri viventi o lo stesso nostro pianeta, che ci sta dicendo in vari modi, dai ghiacci che si sciolgono all’estendersi delle terre inaridite fino ai fenomeni metereologici estremi, che è “malato”.
Al cuore di ciò che faccio dunque c’è “apri gli occhi e capisci” e poi “rimboccati le maniche e fai qualcosa”.
Considerando il Corona virus quale evento contemporaneamente individuale e collettivo, quale sintesi diagnostica e di intervento, è possibile esprimere tenendo conto delle due modalità comunicative, segnica (cioè legata alle modalità in cui tale virus circola nell’organismo) e simbolica (cioè espressione dell’inconscio individuale e collettivo)?
Sappiamo che il Corona virus dal punto di vista biologico ed epidemiologico è un virus respiratorio che “esce” dai malati e dai portatori sani attraverso gli atti espiratori normali, e ovviamente tramite sternuti e colpi di tosse, ed “entra” nelle persone contagiabili attraverso gli atti inspiratori. Dal punto di vista simbolico, per l’ecobiopsicologiam, l’apparato respiratorio è deputato alla “relazione”, allo scambio. Dal momento che gli esseri umani non possono vivere senza relazioni, la modalità di intervento deve essere ispirata non certo a soffocare il sano desiderio di incontro interpersonale, ma deve incoraggiare a viverlo concretamente con una sana “igiene” non solo fisica (ad esempio uso della mascherina) ma anche con una sana “igiene psichica”: bisogna coltivare relazioni autentiche, basate sul rispetto reciproco, sulla giusta “distanza” che evita l’invasione dell’altro, l’intrusione brutale nel suo mondo, e il “contagio” dell’altro soggetto attraverso la proiezione brutale e prevalentemente inconscia di emozioni non elaborate, di aspettative non realistiche, di cariche aggressive non comprese, di invidie psicologicamente infettive. In altri termini coltivare relazioni basate su dialoghi autentici, su una reale motivazione all’incontro e alla condivisione, sulla capacità di reggere in modo maturo i conflitti, fra esseri umani che sanno stare da soli e con altri. Evitare, per quanto possibile, una relazionalità basata su “assembramenti” non tanto fisici quanto mentali, basati su una sorta di omologazione chiassosa e superficiale di comportamenti e valori piuttosto che sull’incontro autentico di soggettività umane diverse.
Il Corona virus è una pandemia che va ben oltre una crisi sanitaria per quanto critica ed estesa a livello globale. È una pandemia che affonda le sue radici nel modo in cui l’attuale e dominante “riduzionismo” tipico dei nostri sistemi economici, politici, educativi ignora i limiti della reale capacità biologica del nostro pianeta sfruttandone le risorse vitali, mentre utilizza insufficientemente le capacità umane. Cosa ne pensa?
La pandemia, è vero, affonda le sue radici nel “riduzionismo”. Più precisamente, affonda le sue radici in un tipo particolare di riduzionismo, che consiste nella drammatica prevalenza del fattore “quantità” sul fattore “qualità”. A cavallo fra Settecento e Ottocento la popolazione mondiale era stimata su settecento milioni di esseri umani, approssimativamente ovviamente. Oggi siamo oltre sette miliardi, e con il nostro numero crescono produzione manifatturiera, consumo di materie prime, emissioni inquinanti, quantità di rifiuti, trasporto di merci e persone per terra, per mare, con aerei. Non è una cosa negativa in sé, è preoccupante che non venga adeguatamente compresa la necessità di regolare, governare, se necessario “contenere” la espansione quantitativa di tali processi, favorendo una espressione più misurata e umana, sostenibile, di essi. Mi sembra urgente anche una riflessione squisitamente psicologica: fra le capacità umane vittime della deriva quantitativa c’è la capacità di “ascoltarsi” reciprocamente. Come terapeuta incontro pazienti molto giovani, adolescenti, che sono bravissimi a inviare e ricevere, negli scambi con i coetanei, una quantità impressionante di video, foto, filmati autoprodotti, post sui social, brani musicali. Spesso, però, non sono capaci di chiedersi reciprocamente, guardandosi in volto: «… come stai?…» e ascoltare rispettosamente la risposta.
Albert Einstein raccontava che le nozioni di base che lo condussero alla formulazione della teoria della relatività erano emerse quando lui aveva immaginato di “viaggiare su un raggio di luce”. Qual è il ruolo dell’immaginazione nella creazione di nuovi scenari futuri?
Il ruolo della immaginazione è fondamentale, in tutti i campi.
Italo Calvino, parlando della creatività, disse che questa vitale ed utilissima qualità, in tutti gli ambiti, non solo in quello artistico e letterario, è sotto la protezione di due figure mitologiche: Vulcano e Mercurio. Il primo è il fidato, efficiente, abilissimo e competente “fabbricatore”, che scende ogni giorno puntuale nella sua officina e realizza ciò che gli è stato commissionato. Il secondo, il dio pagano Mercurio, ha le ali ai piedi, che non sono quindi ben piantati per terra, e “vola”, archetipo della curiosità, della inquietudine, anche a cavallo di un raggio di luce, seguendo la bella immagine di Einstein. È anche dio dei ladri, pronto a “rubare” idee, intuizioni, occasioni, simbolicamente parlando pronto a trasgredire, a immaginare una realtà diversa da quella ritenuta, a torto, l’unica possibile. L’immaginazione aiuta l’uomo ad essere sanamente anche “eretico”, dove con tale termine intendiamo, ripensandone la etimologia, l’uomo capace di scegliere, capace, per usare un termine incisivamente adottato da Albert Camus, di dare vita a delle vere “svolte” nella propria esistenza.
Al di là delle “divisioni” religiose e dei differenti “credo”, qual è l’importanza della dimensione spirituale e come renderla concreta nel nostro quotidiano?
Sappiamo per certo che, da quando esiste l’uomo, esistono forme di spiritualità. Tutte le componenti fondamentali della vita umana individuale e collettiva, nascita, morte, alimentazione, caccia, sessualità, organizzazione sociale non sono mai state esperite solo nella loro semplice “cosalità”, concretezza, utilità pratica. Hanno sempre avuto anche una dimensione ritualizzata, sacrale, in una parola simbolica.
Hanna Arendt disse che l’uomo vive su tre “piani”: il primo è quello semplicemente biologico, l’uomo che respira, si alimenta, dorme. Il secondo è quello sociale-politico-economico, il suddito, il cittadino, l’uomo produttore, consumatore, che lavora, che vota, che ha un ruolo nella società. Il terzo piano, che dà un senso, che dà ai primi due, potremmo dire, l’indispensabile respiro dell’ulteriore, è quello del simbolico, del sacro, del religioso. Un esempio, mi piace perché molto rappresentativo, appartiene alla tradizione ebraica, ma esempi simili si trovano in molte culture spirituali sia occidentali che orientali, non credo una valga più dell’altra, le rispetto tutte: molti si chiedevano perché un famoso Rabbi, assai versato nello studio acutissimo della Torah, svolgesse nel contempo l’umile lavoro del ciabattino. “Ingenuamente”, il Rabbi disse che, ogni volta che cuciva la tomaia di una scarpa con la corrispondente suola, univa Dio con la sua Shekinà. La dimensione spirituale non umilia e non schiaccia la quotidianità incarnata della vita umana. Semmai vi aggiunge senso, e la assenza di “senso”, lo sappiamo bene, è una delle malattie collettive del nostro tempo.
“Essere il cambiamento” da un lato è un concetto appassionante perché ricco di potenziale, ma dall’altro tocca paure profonde. Se la trasformazione della totalità richiede un cambiamento interiore su una scala che molti non hanno mai sperimentato, siamo davvero pronti per questo cambiamento? Quali sono le capacità e le conoscenze che, a livello individuale e collettivo, è necessario sviluppare o potenziare per contribuire ad una comprensione più autentica della vita e per scoprire chi siamo veramente e che cosa vogliamo diventare come società?
Dante fece dire ad Ulisse, nella sua Commedia, «fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza». Lo scopo delle parole dell’eroe greco era quello di convincere i suoi compagni a seguirlo in un atto di cambiamento radicale, che consistette addirittura nel varcare le colonne d’Ercole per uscire da quella parte del mondo in cui l’uomo antico e medievale erano confinati da sempre: provarono ad andare oltre quello stretto «dov’Ercule segnò li suoi riguardi acciò che l’uom più oltre non si metta».
Si trattò di una finzione letteraria, che però – forse – nascose una intuizione inconscia del grande poeta. Infatti, poco più di due secoli dopo un altro italiano, Cristoforo Colombo, varcò davvero le colonne d’Ercole, non naufragò come Ulisse, ma raggiungendo l’America riuscì veramente ad “essere il cambiamento”: dalla sua impresa nacque l’età moderna, nulla fu più come prima nella storia dell’uomo. L’“invito” a seguir virtute e conoscenza muove in noi lo slancio a provare ad “essere il cambiamento”, nello stesso modo in cui la conclusione dell’impresa dell’Ulisse dantesco ci fa provare un autentico brivido di terrore, leggendo le parole immortali: «un turbo nacque e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».
Si tratta di due stati d’animo entrambi necessari per l’evoluzione umana, individuale e collettiva: il primo è l’entusiasmo trasgressivo, quasi adolescenziale, di Ulisse e dei compagni nel varcare le colonne d’Ercole, espressione del valore del proprio potere, la fonte del coraggio necessario per ogni cambiamento, che si incarna nella virtù della fortezza. Il secondo, non meno prezioso, è quel timore che emerge, e deve emergere, quando si pensa che ogni cambiamento importante potrebbe attivare quel turbo che percosse il legno di Ulisse. Qui emerge la virtù della prudenza, che fa responsabilmente ponderare le conseguenze di ogni processo di cambiamento.
La domanda “quali sono le capacità e le conoscenze che è necessario sviluppare o potenziare per comprendere più autenticamente la vita e scoprire cosa vogliamo diventare come società” è affascinante e impegnativa, provo a fornire una mia risposta che non vuole essere definitiva ma piuttosto l’apertura ad un confronto. Io credo che la capacità da coltivare sia prima di tutto una capacità etica, una capacità di comprensione etica, una cultura etica. Non voglio fare un discorso retorico, sia ben chiaro: quando parlo di cultura etica intendo una visione in cui i fini non scompaiano di fronte alla, per alcuni versi entusiasmante ed eccitante, egemonia dei mezzi.
Poco sopra ho esposto la preoccupazione che la dimensione “quantitativa” finisca per prevalere su quella qualitativa. Le due “forze” che reggono il mondo contemporaneo, mi viene quasi da dire le due “divinità” che dominano il Pantheon laico dei nostri giorni, sono, come è noto, la economia e la tecnica. Non ho alcuna intenzione di demonizzarle, pensiamo solo a quanto la informatica ci abbia aiutato ad attraversare i difficili giorni del lockdown dovuto alla pandemia, riducendo le conseguenze dell’isolamento forzato. Si deve però sottolineare come tale bi-teismo, mi si passi il brutto neologismo, non sia infecondo, ma generi due “figli” che rischiano di divenire pericolosi per la salute e per la stessa sopravvivenza dell’uomo e della Terra: il primo si chiama Volume, il secondo Velocità. Crescita, espansione, sviluppo, aumento dei fatturati, efficientazione e razionalizzazione dei processi produttivi che esitano nella loro velocizzazione… è la virtù della forza, o fortezza, che domina. E la prudenza? E la valutazione delle conseguenze, dei costi umani, psicologici, ambientali? Riflettiamo, prima che sia troppo tardi, su quanto volume e velocità possano diventare traumi, cioè colpi intollerabili, per la vita dell’uomo e del pianeta. Nessuno si illuda di cancellare l’economia e la tecnica, insieme, però, e su questo come esseri umani non dobbiamo essere divisi, riportiamo l’etica, il discorso sui fini, sulle conseguenze, sulla assunzione di responsabilità anche per le generazioni a venire come terza figura in un Pantheon oggi troppo unilaterale.
Il cambiamento in grado di fare la differenza avviene nella profondità del nostro cuore. Quanto c’è di vero in questo e come questo processo è possibile?
È vero che il cambiamento, anche a livello collettivo, non può prescindere da un cambiamento che avvenga nei singoli individui. La domanda è ben posta, perché parla di “profondità del nostro cuore”. Molte tradizioni antiche mettevano nel cuore dell’uomo, piuttosto che nel suo cervello, la “sede” della vera comprensione, e anche pensatori contemporanei hanno parlato di “intelligenza del cuore” riferendosi ad una intelligenza che coglie i valori etici, le risonanze affettive ed empatiche, e che permette agli esseri umani di capirsi l’un l’altro.
Terminata da poco la seconda guerra mondiale, in una intervista fu chiesto a Jung – fondatore della psicologia analitica – cosa lui, in qualità di studioso di psicologia, suggerisse perché l’umanità potesse evitare per il futuro la tragedia di una nuova guerra. La risposta fu che, per aiutare i processi di pace nella comunità internazionale, i singoli uomini dovevano essere prima di tutto in pace con se stessi.
Come attivare il processo nella profondità del cuore di ognuno? Una risposta pragmatica: creando tempi, spazi, e dedicando energia ad una sana solitudine. Sana solitudine, non isolamento narcisistico, sia ben chiaro. Agostino scrisse che «in interiore homine habitat veritas». Il dialogo con se stessi è la base di ogni dialogo fecondo con gli altri esseri umani.
Infine, le chiedo di descrivere “GAIA AS IS & TO BE” utilizzando parole ed immagini atte a simboleggiarla. In altri termini, quali immagini potrebbero descrivere il nostro Pianeta nel tempo attuale e nel tempo futuro che si auspica?
Due “quadri” mi vengono in mente: il primo è quello dell’alternarsi, nel mondo naturale, delle stagioni nell’anno, e del giorno e della notte. Quiete e attività, luce e ombra, movimento e riposo, in una parola senso della misura, modus, usando un termine antico.
Il secondo è quello di una madre con il suo bambino, dalle meravigliose e immortali rappresentazioni artistiche fino alle immagini reali di vere madri con veri figli.
Bibliografia di riferimento
Giorgio Cavallari, 1990. Il doppio e lo sviluppo della coscienza, in Il doppio, psicoanalisi del compagno segreto. Como: RED
Giorgio Cavallari, Diego Frigoli e Donato Ottolenghi, 2000. La Psicosomatica. Milano: Xenia
Giorgio Cavallari, 2003. L’Uomo post patriarcale. Verso una nuova identità maschile. Milano: Vivarium
Giorgio Cavallari, 2005). Dal Sé al Soggetto. Un itinerario psicoanalitico. Milano: Vivarium
Giorgio Cavallari, 2009. Bios and Archetype, in Jung Today Vol. 1. New York: Nova Science Publishers
Giorgio Cavallari, 2013. Creatività: l’Uomo oltre le Crisi. Milano: Vivarium
Mara Breno, Giorgio Cavallari, Leonardo Menegola e Naike Michelon, 2020. L’Armonia nel Dolore. Milano: Vivarium
Giorgio Cavallari e Simona Gazzotti, (2020). Le Forme del Male. Milano: Vivarium.
Giorgio Cavallari
Medico, psichiatra e analista del Centro Italiano di Psicologia Analitica e dell’International Association for Analytical Psychology.
E’ docente nelle scuole di specializzazione in psicoterapia Corso EEv-SPP di Milano dove insegna Psicoanalisi: elementi fondamentali – storia, teoria e teoria della tecnica; Psicosomatica, e presso CIPA, Istituto di Milano. E’ inoltre direttore scientifico e docente nella Scuola di Psicoterapia Istituto ANEB di Milano.
I suoi studi sono stati rivolti in particolare al concetto di Sé in relazione alla teoria e alla prassi della psicoterapia, al tema del rapporto mente-corpo, alla psicosomatica ed alla umanizzazione della medicina, all’etica nell’ambito della psicoterapia. E’ autore di diversi lavori scientifici e libri.
Vive e lavora a Milano.
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Non comprendo, altresì, perché prerogative quali la forza, l’intelligenza, o fasi come la crescita e lo sviluppo siano accostate al patriarcato in senso negativo.
Non comprendo come il passaggio di Frigoli, che sostiene che gli umani debbano dominare le forze naturali, adattandole e ponendole al servizio del proprio sviluppo interiore, possa collegarsi con il resto del testo.
Iniziativa molto interessante, mi riferisco alla linea editoriale di Rete della Vita, ma temo che rimarrà sul terreno prettamente culturale. voglio dire che arriverà a conclusioni molto particolari, con dialogo approfondito fra ricercatori e pensatori diversi fra di loro e magari pure antagonisti, ma poi non si concretizzerà nella vita di tutti i giorni. I grandi trend della stoia umana partono dal basso, da un coacervo di esigenze primarie e di senso di sopravvivenza e da lì salgono alla ribalta e prendono la scena (finché un altro trend primario li scalzerà e dominerà a sua volta per qualche decennio). Se, da un lato, sono molto interessato ad ogni forma di creazione culturale, dall’altro, scetticaemnte, non credo che queste attività influeenzeranno dall’alto i veri trend primari. Se accade è solo perché il trend primario è già in atto e sta emergendo per conto suo. l’influenza ideologica gli dà un aiutino, ma non è lei che innesca i cambiamenti della storia.
Ciò premesso, esprimo i miei complimenti per l’iniziativa e cerco di seguirne l’evoluzione.