Nella storia delle centinaia di Sezioni del Club Alpino Italiano si contano ormai con difficoltà le pubblicazioni edite in occasione delle classiche ricorrenze: decennali e loro multipli, che in alcuni casi hanno ormai raggiunto quota 150 anni. In questa vastità di commemorazioni stampate in volumi più o meno corposi e/o eleganti sono molte quelle che non sono riuscite ad andare neanche un po’ oltre all’interesse che può essere loro dedicato dai diretti soci protagonisti. Altrettanto parecchie però sono le pubblicazioni che sono andate al di là del semplice elenco di articoli celebrativi, nel tentativo (riuscito) di produrre storia e cultura.
Sono invece pochissime quelle che emergono dalla “solita rassegna di alpinismo giovanile, vecchietti, arrampicatori, ciclisti, soccorritori, bocciofila (Alberto Benini)”, riuscendo nel compito sovrumano quanto ingrato di presentare qualcosa che si lasci davvero leggere con interesse. Agili, godibili.
E’ questo il caso di In cammino con i pionieri, edito dal CAI Lecco in occasione dei suoi 150 anni (1874-2024), volutamente riservato ai primi cinquanta anni della sua storia.
Una scelta corretta, se consideriamo l’immane vastità di cose che avrebbero potuto trovarvi spazio se si fosse considerato il triplo degli anni. Gli autori, Alberto Benini, Pietro Corti e Sergio Poli, in accordo con la Presidenza del CAI Lecco, si sono concentrati sul filo rosso che collega l’attualità della sezione ai suoi primi decenni di vita.
Un gran lavoro, “stampato su carta a mano invece che lucida, per valorizzare figure citate a proposito e a sproposito (sempre Alberto Benini)”.
GognaBlog è lieto di presentare al suo pubblico qualche articolo estratto da queste prestigiose 128 pagine. Altri due articoli saranno pubblicati su Altri Spazi.
In cammino con i pionieri – 1
di Alberto Benini, Pietro Corti e Sergio Poli
(pubblicato su In cammino i pionieri: 1874-1924 I primi cinquant’anni del CAI Lecco)
Antonio Stoppani 1824-1891
Geologo, paleontologo, viaggiatore, alpinista, divulgatore, uomo di Chiesa, obbediente alla gerarchia e insieme deciso a non smettere mai di ragionare con la propria testa. Tutto questo è stato Antonio Stoppani. E potremmo fermarci qui, perché in fondo su di lui molto è stato scritto e soprattutto molto è ricavabile dai suoi scritti.
La doppia lapide sulla casa natale in piazza XX settembre a Lecco. Il monumento (recentemente restaurato!) sul Lungolago. Qualche copia di Il Bel Paese sugli scaffali più alti di librerie dove nessuno guarda più. Sparito il suo ritratto dalla confezione di un formaggio di produzione locale (ma di notorietà più che nazionale) che ne teneva viva la sembianza, insieme al titolo del suo più celebre libro. Cosa sappiamo davvero di uno dei padri dell’alpinismo italiano, primo presidente della sezione milanese del CAI? Di uno dei più fini interpreti del Manzoni giovane, nel paesaggio che lo vide fanciullo? Di un personaggio che pur senza appartenervi direttamente ha fatto moltissimo per il CAI Lecco, indicando, fra i primi in Italia, la via per le vette e costituendo il substrato su cui l’alpinismo poté prendere piede?
Approccio sempre concreto ai problemi, atteggiamento mentale pronto a cogliere tutte le suggestioni e piglio risoluto, nessun timore a chiamare le cose con il loro nome. Perfettamente inserito (oseremmo dire) nel filone scientifico di quella linea lombarda che scorre carsica, ma ben riconoscibile nella nostra letteratura.
Ascoltiamolo discorrere delle marmitte dei giganti, venute inopinatamente alla luce nel giugno del 1890 (l’anno precedente la sua morte, avvenuta a Milano) durante lo scavo della ferrovia Lecco-Colico. Si tratta di cavità prodotte dal mulinare dell’acqua durante lo scioglimento dei ghiacciai, un fenomeno geologico che muove immediatamente la sua attenzione, ma che offre anche l’occasione per una lezione di metodo:
“Sì, io credo che delle marmitte dei giganti nessuno possa parlare più chiaro delle marmitte medesime. Bisogna dunque vederle, e sentirle parlare là sul posto, dove tutta la natura ali’ingiro loro serve d’interprete. Bisogna vederle; ma non già semplicemente cogli occhi grulli di chi in un buco non vede altro che un buco, ma di chi abbia letto pur qualche cosa, e imparato che non è cosà a questo mondo che non abbia del suo essere una ragione sufficiente; ragione che il filosofo deve cercare, se vuole non aver altro che la coscienza di essere un imbecille”.
Esplicito quanto basta, verrebbe da chiosare. Leggendo il resto del capitolo, contenuto in una delle appendici a Il Bel Paese (parliamo dell’edizione illustrata e annotata del 1908), Stoppani torna in quelle pagine ad uno dei suoi argomenti forti, il glacialismo, applicandolo (si potrebbe dire finalmente) ai luoghi della sua infanzia. Sì, perché, senza mai scadere nel campanilismo, che è proprio all’opposto della sua mentalità aperta, le righe di Stoppani si animano di una nuova vivacità in presenza dei suoi luoghi. Vediamolo dunque fra i nostri monti alle prese con due degli elementi primordiali, l’acqua, in forma di ghiaccio, e il fuoco.

Dapprima, immaginando il ghiacciaio che occupava il ramo orientale del Lario, stretto fra le giogaie del Moregallo e del San Martino, prossimo a distendersi sulla riviera lecchese, Stoppani, ad uso dei suoi lettori, si esibisce in un pezzo di bravura, fra onomatopee e humor preistorico, ipotizzando che se il ghiacciaio fosse stato un torrente, l’ultima propaggine del San Martino, verso il lago, ovvero il poggio di Santo Stefano, vi avrebbe prodotto nient’altro che un gran bollibolli, uno spumeggiare d’acque.
Trattandosi di un fiume di ghiacci, “invece d’un semplice bollibolli ci sarà stato naturalmente un gran tic-tac, o un gran trictrac […] di ghiaccio che si spezzava. Ogni tic doveva essere una crepa; ogni toc una voragine, per dove, precipitando le acque a cascata fino al fondo, quasi per un enorme doccione, avrebbero scavata la roccia, fabbricata una marmitta, o a dirittura un intiero servìzio di ceramica ciclopica”. E passiamo al fuoco (e alla contemporaneità) immergendoci nel dialogo immaginario con i suoi nipoti, che è l’espediente letterario su cui si reggono i capitoli di uno dei libri che hanno contribuito a fare l’Italia, Il Bel Paese. Non prima di aver ricordato a titolo patriottico che, concretamente, Stoppani partecipò tanto alle Cinque Giornate che alla Terza Guerra di Indipendenza, ovviamente nelle file della sanità, le uniche che si attagliassero ad un uomo di Chiesa. Stoppani, reduce da Lecco, raggiunge i nipotini in ritardo per colpa del vapore in quella sera del marzo 1878, al termine di un inverno caldo, che sembra uno di quelli cui assistiamo negli ultimi anni, tanto che:
“Mantelli e pastrani si dimenticavano sugli attaccapanni, o si portavano sciolti o sbottonati, inutile peso alle spalle sudanti”. E relaziona loro sullo spaventoso eppure affascinante spettacolo cui ha potuto assistere sui bordi del Lario, in quei giorni di Carnevale: l’incendio di una montagna. E non di una montagna qualsiasi, ma proprio di quel San Martino dalle pareti verticali e dai canali boscosi che scendono a lambire i quartieri periferici della città, e che la protegge dai venti che scendono da nord, lungo il solco del lago.
“È un monte fantastico, vedete; tutto una rupe, nuda, aspra, angolosa, degna di campeggiare in un ‘epopea di giganti”.
È il 6 marzo: la notizia di un incendio sul San Martino inizia a propagarsi per Lecco e la sera, nei pressi della vetta del monte, appare un chiarore singolare che fa ipotizzare una meteora che illumina in modo singolare la cima. Il fuoco:
“arde in un burrone presso la vetta. Il fumo, illuminato dalla vampa nascosta, si faceva visibile, simulando benissimo la coda di una cometa. Ma quella coda s’ingrossa sempre più: si risolve in globi che si distendono largamente sulla cima del monte; finalmente ecco il fuoco, ecco le fiamme!…“.
Nelle righe di Stoppani la montagna si anima, sembra davvero posseduta dal fuoco. Il vento imperversa, alimentandolo, sospingendolo alternativamente verso la Valsassina o verso il lago… L’ampiezza dell’incendio raggiunge un fronte di 5 chilometri e si comincia a temere per la città. I contadini restano svegli la notte pronti a contrastarlo, quando le lingue scendono troppo vicine alle case. Ma la loro battaglia non è priva di rischi, oltre a quelli propri del fuoco: i sassi smossi dalle fiamme rotolano dalla pendenza. E anche le serpi, risvegliate dal loro letargo, si precipitano verso il basso in cerca di salvezza, aumentando il pericolo per i coraggiosi che combattono le fiamme non potendo contare che sui loro attrezzi di campagna, mancando ovunque l’acqua. E’ un panorama realmente infernale, descritto in un elegante alternarsi di frasi brevissime e di periodi distesi che sembrano assecondare il rincorrersi del fuoco dentro e fuori i canaloni, il suo scendere e salire lungo i dossi. Il suo nascondersi e riprendere poi l’avanzata con nuovo vigore.
Finalmente, bruciato tutto quanto poteva essere bruciato, insomma “per difetto d’alimento”, il fuoco comincia a spegnersi. Il 9 marzo il fumo è ancora forte e solo il giorno 10 tutto torna alla calma.

Sono pagine che si imprimono nella memoria fin da subito e non poco contribuisce a renderle così vive la minuta conoscenza di quei luoghi del loro autore: non c’è bisogno di nominare le valli, le cime, cosa che fa con la dovizia che gli conosciamo il Cermenati annotando il testo. Bastano pochi tratti essenziali per restituire il crescere dello spavento, cui fa seguito il rapido rasserenarsi del ciclo, cui Stoppani affida la rassicurante sensazione dello scampato pericolo.
Il ragionamento cui abbiamo affidato qui il tentativo, speriamo non del tutto inadeguato, di mettere in luce l’abilità dello Stoppani divulgatore, può naturalmente essere esteso a moltissime altre pagine sue, realmente modellate sui paesaggi naturali ed umani che il loro autore attraversa. Uno stile che pur dalla distanza, diremmo “siderale” del mondo moderno, non manca di esercitare il suo fascino e la sua efficacia. E che invita a raggiungere lo scaffale più alto della biblioteca dove Il Bel Paese attende la presa delle nostre dita e il calore dei nostri occhi.
Giovanni Pozzi 1850-1889
Nel cimitero di Acquate, che ancora nella seconda metà dell’Ottocento era un paesello ai piedi del Resegone, sul monumento al dottor Giovanni Pozzi si legge, con qualche fatica a causa delle ingiurie del tempo e della scarsa cura dei posteri: “Dottor fisico, chirurgo valente, strenuo alpinista, difensore dei diritti del popolo colle armi e colla penna”.
Giovanni Pozzi era nato nel borgo di Acquate sopra Lecco il 4 aprile 1850 ed a soli 16 anni, seguendo il fratello Ernesto, avvocato, di 7 anni più anziano, si era arruolato nei volontari di Garibaldi partecipando alla campagna del 1866 in Tirolo durante la Terza Guerra di Indipendenza, distinguendosi nella battaglia di Bezzecca al combattimento di Molina. Rientrato a Lecco, riprende gli studi e nel 1873 si laurea in medicina e chinirgia a Padova sotto la guida di Tito Vanzetti, chirurgo di fama mondiale. Quindi, abbandonato l’ambito universitario, esercita come medico condotto nei borghi di Castello e Malgrate. Mario Cermenati, presidente del CAI Lecco, volle commemorare la figura dell’amico in occasione dell’assemblea sociale del 12 gennaio 1890, a pochi mesi dalla prematura morte, ricordandone i sentimenti liberali ed i molteplici interessi, che spaziavano dalla medicina all’alpinismo, all’impegno patriottico e civile, attento com’era ai problemi delle fasce più deboli della popolazione.
Nelle sue Memorie mediche intorno a Lecco e suo territorio del 1873, Pozzi compie una lucida analisi, con l’occhio dello scienziato, dei fattori di nocività per la salute connessi con i diversi ambienti di produzione nel vorticoso sviluppo industriale lecchese. “Il commercio qui è tutto; gli stabilimenti industriali sì seguono, e si accavallano, tant ‘è la loro frequenza; ma se l’economia […] scorge in essi un grande progresso, il medico, pur […] riconoscendo che la condizione sociale di molti è migliorata, si rattrista su tutto ciò che considera dal lato igienico”. Una preoccupazione che gli deriva dall’osservazione delle condizioni di lavoro dell’epoca, in particolare quelle degli addetti alle fucine ed alle fornaci, che sviluppavano gravi disturbi di natura respiratoria e gastroenterica, problemi alla vista e all’udito. Pozzi esamina anche la vita ed il lavoro di barcaioli, lavandaie e pescatori, ma soprattutto di filandiere e filatori; “[…] teneri ragazzi e fanciulle […] mal nutriti e calzati […], donnicciole le quali […] recano in collo, al lavoro, delle giovani creature […] tremanti dal freddo.”
E ancora…. “Povero medico di campagna […]; che ha sempre davanti agli occhi lo spettacolo […] della miseria, dell’ignoranza, e, diciamolo pure, dell’ingiustizia sociale”. Pozzi non rinuncia a formulare inoltre severe considerazioni di carattere ecologico, con la denuncia dello stato di inquinamento delle acque dei torrenti lecchesi “che sovente si vedono scorrere intorbidate, giallastre, per le materie eterogenee ed insalubri che impunemente vi vengono gettate dai conduttori delle fucine”.

Anche la situazione dell’aria in certe zone del “Territorio di Lecco”, com’era uso all’epoca definire la zona collinare verso le montagne, non era delle migliori: “talora […] in una parte del territorio, quello della vallata di San Giovanni ricchissima di officine ferriere [La Valle del Gerenzone, NdR], sprezzano nell’atmosfera neri pulviscoli prodotti dalla combustione e che i venti trasportano a grandi distanze; ed è uno spettacolo curioso in certe giornate di neve vedere il bianco tappeto coprirsi d’un nero mantello di carbone incombusto, come succede a Londra e nei grandi centri del carbone e del ferro”.
Appassionato alpinista, Giovanni Pozzi compie numerosissime escursioni nel lecchese, in Valtellina e in Svizzera, e nel 1874, anno di fondazione del CAI Lecco, diventa il primo “vero” presidente dopo l’inevitabile rinuncia all’incarico da parte di Antonio Stoppani. Mantiene la carica fino al 1875 e ritorna presidente per il biennio 1888-1889, anno della morte, il 3 ottobre, dopo l’acuirsi della malattia che lo minava da tempo. Negli anni della sua dirigenza si impegna a far decollare la neonata sezione ed a stabilire contatti con i Club Alpini di altre città, facendosi attivo promotore dell’adesione al CAI nazionale, che valuta di fondamentale importanza e utilità, per la condivisione dell’esperienza dell’andar per monti e l’allargamento delle proprie conoscenze. Una frequentazione delle montagne che ritiene possa favorire lo sviluppo economico e sociale delle comunità alpine, che vedrebbero i loro territori apprezzati come punto di attrazione per il “forestiero”. L’opera del Pozzi abbraccia con esiti diversi, talvolta un po’ dilettanteschi, come ingenerosamente Cermenati non manca di annotare nella sua commemorazione, ambiti abbastanza lontani fra di loro. Oltre alla medicina, anche la geologia, la storia e l’archeologia come attestano i Cenni storici delle città di Lecco e Barra pubblicato nel 1884.
Ma la parte migliore della sua prosa ha modo di farsi apprezzare nelle relazioni delle gite, con momenti pieni di humor, di acute osservazioni sulla natura dei luoghi e degli uomini, e sullo sviluppo delle località attraversate.
Dopo aver offerto un primo contributo alla descrizione degli itinerari escursionistici del lecchese, partecipando alla stesura della Guida di Lecco sue valli e suoi laghi compilata da Giuseppe Fumagalli pubblicata nel 1881, con una trentina di pagine dedicate alle escursioni alpine, si dedica alla completa esplorazione delle montagne intorno alla sua città, raccogliendo materiali per la Guida alle Prealpi di Lecco che verrà stampata nel 1883. Scopo non secondario di questo lavoro, che coinvolge parecchi membri del CAI Lecco, è quello di rinsaldare la coesione all’interno della Sezione. Un metodo che utilizza anche per le Note Alpinistiche, altro importante progetto che raduna le esperienze escursionistiche sue e di altri soci.
Il Pozzi medico traspare nella prefazione della Guida con i suoi consigli igienici per gli escursionisti, oltre ai richiami alla pratica dell’alpinismo come antidoto ai pericoli per la salute ed ai vizi della vita urbana. Un tema che verrà ripreso e messo in primo piano dalle associazioni alpinistiche popolari nel primo ventennio del XX secolo, che conferma la saggia preveggenza del Pozzi. Nella sua rievocazione, Cermenati non manca di ricordare come al momento della sua morte Pozzi si stesse dedicando ad un’altra fatica: una mappa in rilievo del territorio di Lecco, che è desiderabile sia esposta in luogo dove i soci possano trame profitto, al quale scopo la Sezione offre la sua sala dove resterebbe a testimonianza dei grandi servigi da lui resi all’alpinismo. Un altro aspetto della inesauribile passione per le montagne della sua terra, a cui era profondamente legato e che si era generosamente impegnato a descrivere e far apprezzare.
(continua)
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Mi ha colpito molto l’osservazione del deterioramento, già a quell’epoca, a carico dell’ambiente del lecchese e degli abitanti.
Buon aggiornamento sui rapporti di Stoppani con Lecco e il territorio, mi interessa.