Una coppia consolidata del mondo alpinistico che da alcune generazioni era diventata un punto di riferimento.
Silvia Metzeltin e Gino Buscaini, in cordata in montagna e nella vita
a cura di Oriana Pecchio
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 232, gennaio 2000)
Ho conosciuto Silvia Metzeltin e Gino Buscaini molti anni fa e non dimenticherò mai l’emozione del primo incontro, la loro semplicità, la loro sincerità di fondo, l’energia e la creatività. Molte delle cose che ci siamo detti allora mi sono rimaste dentro, un punto di riferimento in momenti delicati della mia vita, quando c’è stato da scegliere dove indirizzare il proprio impegno. L’amicizia e un profondo reciproco rispetto, nonostante le scelte diverse di vita ci abbiano tenuti lontani per tanto tempo, ancora ci legano. Qualche mese fa, guardando una loro foto, comparsa su Lo Scarpone, che li ritraeva in un momento di riposo, ho ripensato alla loro lunga unione nella vita e nell’alpinismo, forse con una punta d’invidia per il loro essere una coppia sempre. Così è nata l’idea di questa chiacchierata, fatta in una giornata un po’ uggiosa, di quelle che invitano alla riflessione, tra gli ulivi di un buon ritiro, a metà strada tra mare e monti.
Non tutti gli alpinisti hanno una storia di unione anche affettiva come la vostra. Non sarete gli unici, ma sicuramente tra i pochi ad avere costruito di fatto un alpinismo di coppia.
«Gino: in effetti sì. Si può dire che il 95% delle ascensioni le abbiamo fatte insieme. Non so se per altre coppie è successo così. A volte uno fa le salite più difficili con un compagno e altre con la compagna. Invece noi ci siamo messi dentro sempre alla pari, sia nei pasticci che nelle grandi soddisfazioni. Mi rendo conto di come questa parità sia difficile da far capire agli altri. Ricordo che nella presentazione di una nostra conferenza, veniva citato il mio curriculum alpinistico e poi quello di Silvia, presentandolo come inferiore, qualitativamente e quantitativamente. Nonostante avessi precisato che Silvia aveva addirittura qualche salita più importante delle mie, il presentatore continuava a insistere sulla sua idea iniziale».

Tu, Gino avevi avuto anche un periodo in cui facevi delle salite in solitaria. «Gino: è stato un periodo molto limitato, un momento di crisi che ho risolto con qualche solitaria, anche perché conoscendo Silvia, abbiamo trovato reciprocamente il compagno ideale».
Trovo molto bello questo. Sarà stato il caso o la necessità…
«Silvia: se vuoi parafrasare Monod si può fare, anche perché la necessità in questo caso è stata la passione per la montagna che avevamo già tutti e due. Una passione molto forte, che ha potuto svilupparsi liberamente, mantenendo le caratteristiche che ci avevano portato all’alpinismo, anche all’interno della coppia. Io credo che nessuno dei due avrebbe rinunciato all’alpinismo di per sé, soprattutto non in quegli anni, e trovare il compagno giusto per poterlo sviluppare nel corso della vita (non pensavamo allora a tutta la vita, ma agli anni vicini), però senza sacrificarsi l’un l’altro, è stato fondamentale. Penso che un compagno non alpinista non sarebbe andato bene perché non mi piace scindere le cose: avere un compagno in città e poi vivere con altri questa parte così importante, così coinvolgente da un punto di vista emozionale che è l’alpinismo. L’alpinismo è molto coinvolgente, più di un’altra attività sportiva, non solo perché ci sono le bellezze ambientali e la natura, ma proprio per il tempo materiale passato insieme. Noi abbiamo passato anni ad arrivare a casa la domenica notte o il lunedì mattina, mettere a posto le nostre cose e il mercoledì ritrovarci a pensare alla prossima ascensione, sognarla, preparare tutto, ripartire e questo è coinvolgente anche dal punto di vista del tempo materiale. Se tu hai un compagno al di fuori di questo, in fondo la parte essenziale della tua vita la vivi con un altro, mentre poterla vivere insieme è positivo.
La cosa fondamentale di cui adesso mi rendo perfettamente conto è il fatto di non lasciare a casa l’altro. Noi andiamo in giro senza telefonino, senza l’angoscia di dire l’altro è a casa e si preoccupa per me. Siamo via insieme e se capita qualcosa, capita. È anche vero che c’è il pendant, ma che forse è stato un bene, che qualche volta abbiamo rischiato di meno, proprio perché ci vogliamo bene. Spesso ci siamo detti: dobbiamo proprio correre questo rischio, anche se tecnicamente siamo in grado di farlo? Vale la pena se questo pendio ci arriva addosso? Stiamo bene insieme, ci vogliamo bene e certamente ci sono state delle rinunce alpinistiche a salite che indubbiamente erano alla nostra portata tecnica, ma che sono state un bene, perché abbiamo rischiato di meno.
Gino: una cosa che trovo simpatica è che siamo partiti subito in parità anche sul piano tecnico. Io non pensavo di avere una persona debole con me, come compagna, mi sentivo più che tranquillo con lei.
Silvia: anch’io con te, tranquillissima, e alla pari, anche se poi Gino è andato su all’80% da capo cordata su roccia, ma perché lui perdeva meno tempo da capo cordata, mentre io ero più veloce da secondo. Quindi ci siamo trovati ad avere dei ruoli in base alle predisposizioni naturali.
Gino: mentre invece sul misto, sul ghiaccio, sulla neve, sulle porcherie, va avanti lei, ben contento io. Altre volte è stata decisamente Silvia a condurre, come quando ha attaccato con decisione la Solleder della Civetta, in una situazione delicata, dopo che era caduto, sulle rocce fredde e bagnate, il primo di una cordata davanti a noi e un nostro compagno pure aveva rinunciato.
Silvia: insomma è sempre stato molto naturale. Non abbiamo mai fatto i conti ogni tiro, uno di qua, uno di là, perché per noi la coppia è la cordata».
Ci sono stati anche degli stimoli competitivi tra di voi. In senso positivo, stimoli a forzare i propri limiti?
«Gino: no, anche perché io non sono assolutamente competitivo e se c’è stato era al di fuori del sesso, a livello di diversità individuale, anche perché dal punto di vista sportivo, in salita, per arrivare al rifugio, lei mi batte sempre, da allora e ancora adesso.
Silvia: io però non faccio mai la gara con lui, la gara la vado a fare da un’altra parte.
Gino: perché lei è sempre più in forma di me, si allena seriamente».
Tu, Silvia, avevi la concezione dell’alpinismo come sport, con allenamento serio e studiato, più di Gino.
«Silvia: ci sono arrivata tardi però, lui non l’ha mai avuto».
E la preparazione fisica rimane ancora separata?
«Gino: diciamo che su dieci allenamenti suoi, io ne faccio sei.
Silvia: sono anche diversi. In inverno se siamo qui e non siamo in Patagonia, io faccio fondo e faccio gare, perché mi piace l’ambiente delle gare. Allora vado a fare allenamento e Gino va a fare una scialpinistica, più o meno nello stesso posto. Il suo allenamento è diverso.
Gino: qui a Finale, però andiamo sempre a fare giri insieme con la bicicletta».

E per l’arrampicata fate trazioni, pesi, ecc.?
Silvia: io sì, faccio qualcosa, Gino no, ma siccome lui è più dotato di me per l’arrampicata…
Gino: alla fine riusciamo ancora a essere pari.
Silvia: non facciamo delle cose così precise come allenamento, perché non miriamo a una prestazione sportiva nell’alpinismo di per sé. Nell’alpinismo il filo conduttore che ci ha portato alla montagna, è più l’aspetto natura e avventura. Aver fatto in tante ore una salita non ci interessa. La spinta competitiva ce l’ho più quando vado in giro in bicicletta e trovo qualcuno e lo supero, io con il rampichino e lui con la bici da corsa e mi fa piacere. Quando vado a fare le gare di fondo sono contenta quando non arrivo ultima o mi piazzo bene. A me piace quest’aspetto della competizione dichiarata, perché nell’alpinismo non c’è, ho sempre trovato molto falso nell’alpinismo questo voler essere più bravo di un altro, ma non volerlo dichiarare, far finta di… per cui a me fare la competizione col numero sta bene.
Gino: invece noi in montagna non ci siamo mai sentiti competitivi. Per esempio gli altri facevano una salita in un giorno e noi partivamo al pomeriggio e andavamo a bivaccare a metà parete e il giorno dopo continuavamo: uno scandalo! Perché tutti la facevano in giornata e non si partiva al pomeriggio! Silvia: era il modo nostro di vivere la montagna, anche avendo poi dei risultati, perché era chiaro che anche noi abbiamo passato gli anni dell’elenco delle salite, però volevamo farle come interessava a noi. Siccome servivamo tutt’e due per realizzarle, ognuno con le sue capacità, era la cordata che doveva riuscire e la competizione intra-cordata non c’era. Era stato chiaro fin dall’inizio che per riuscire bisognava essere insieme».
L’aver vissuto in zone estremamente isolate, come la Patagonia, ha influito sul vostro rapporto? Il vivere separati dagli altri vi ha legati sempre di più?
«Silvia: forse sì.
Gino: anche perché in questi anni, nei viaggi esplorativi, in queste zone nuove, ti senti ben piccolo di fronte all’incognito e ci si sente più uniti».
E poi è meglio affrontare viaggi simili con una persona che conosci fino in fondo e di cui hai una fiducia totale.
«Silvia: dobbiamo dire che entrambi siamo degli individualisti e che quindi ci troviamo bene anche in solitudine e questo facilita il fatto di essere via isolati, ma in due. Anche se tutti abbiamo bisogno degli altri, noi compresi, non stiamo male a stare via, lontani anche trecento chilometri dagli altri, senza comunicazioni.
Gino: non è che dopo un mese o due vorremmo tornare…
Silvia: noi non vorremmo mai tornare a casa! Al limite potrebbe essere un rischio di chiusura, non dobbiamo andare a cercare un altro per arrampicare e viaggiare, siamo già noi due, prendiamo e andiamo. Il bello è che noi viviamo insieme anche tutta la fase sogno, preparazione del viaggio».

In questa fase di preparazione c’è una “specializzazione”? Ho spesso pensato a Silvia come a un vulcano di idee e a Gino come a un “pianificatore”.
«Silvia: Non è proprio così, anzi direi che per le idee alpinistiche, Gino è più attirato dalla forma delle montagne e io più dall’atmosfera. È più facile che lui scelga una montagna bella da vedere, mentre per me è uguale, non è l’estetica che mi attira. Invece la mia parte meticolosa consiste nella preparazione logistica, dei viveri, della farmacia, delle razioni d’emergenza.
Gino: infatti, in qualsiasi momento, anche difficile, che so, in bivacco nel vuoto, dici: “vorrei una caramella” e… Eccola qua. Io approfitto di questa sua propensione naturale.
Silvia: per questo l’alpinismo rimane un’attività bella. Non esiste nessun’altra attività dove tu possa sceglierti la meta, organizzarti come vuoi, seguire le proprie propensioni, avere il compagno giusto che fa le cose per cui sei meno portato. L’alpinismo rimane quello che era nelle sue offerte quando avevamo 15 anni e continuiamo a viverlo così».
Un bilancio, dopo le vostre oltre 1300 ascensioni, a distanza di almeno vent’anni della scelta comune di fare “alpinismo a tempo pieno (Qui la Pecchio si riferisce al libro Alpinismo a tempo pieno, di Silvia Metzeltin, Dall’Oglio, 1984, NdR)”?
«Silvia: il famoso “tempo pieno” si presta a un equivoco, perché in realtà il tempo pieno è un filo conduttore, perché a me l’alpinismo di soldi non ne ha mai portati. Io ho sempre guadagnato con altre attività. Non vorrei lavorare per l’alpinismo nel senso stretto della parola».
Silvia, tu scrivevi che non esiste un solo tipo standard d’alpinismo a tempo pieno, cioè di lavoro in cui si possa esprimere, nel contempo, la passione alpinistica: c’è chi sceglie di fare la guida, chi il gestore di rifugio, chi lavori acrobatici o lo stuntman per il cinema.
«Silvia: per me l’alpinismo è diventato lo studio, la parte intellettuale. Il riconoscimento alpinistico mi ha aiutata in altri campi: nel contatto con gli studenti l’essere anche alpinista, fa sì che io sia punto di riferimento per chi ama la natura, va in montagna e così via. Mi ha dato degli atout in più, un senso di responsabilità, ma anche il poter trasmettere agli altri un’esperienza che non è solo professionale o di studio, ma anche un vissuto alpinistico. Sono di riferimento alla radio, in università, per quello che so, per il lavoro che faccio, ma anche perché sono un’alpinista e spesso mi trovo con persone più giovani che arrivano da me per motivi professionali, ma anche per la comune passione per la montagna e questo è stato ed è tuttora una cosa molto bella. Essere alpinista in questa veste diciamo così “ufficiale”, essere interpellata a prendere posizione da alpinista indipendente, mi sta bene. Alpinismo a tempo pieno nel senso che ho un’etichetta che mi va bene, ma dal punto di vista intellettuale; con l’alpinismo direttamente non ho mai fatto quattrini.

Gino: per me è diverso perché io ho il lavoro legato all’alpinismo. Ormai sono trent’anni che dirigo la collana delle guide dei Monti d’Italia. All’inizio l’ho fatto come volontario, perché nell’ambito CAI non si poteva osare di chiedere dei soldi, poi nell’ambito Touring… Mi trovo bene. Mi ricordo sempre quando sono andato il primo giorno a lavorare al Touring: era una bella giornata di sole, era maggio e nell’ufficio c’era la luce accesa e ho pensato: mah, non so se verrò sempre qui e, infatti, il giorno dopo sono andato dal capo del personale a dirgli che lì non sarei più andato e se volevano avrei assicurato lo stesso lavoro come collaboratore esterno. Hanno accettato e così ho continuato e adesso sono contento. Sono uscite 42 guide da quando sono lì, otto le ho scritte io e questa è una bella soddisfazione. Silvia: anche il suo però è un lavoro intellettuale. Io quando vedevo quelli che avevano scelto di vivere in montagna e di montagna, mi rendevo conto che erano scelte difficili, e poi che per un cittadino erano molto rischiose dal punto di vista della sua evoluzione personale: fare il rappresentante di scarponi o stare in cucina a preparare il minestrone, non è quello che uno sogna quando dice la montagna è bella, mi piace fare questa vita, e spesso alcuni hanno anche avuto difficoltà a essere accettati in questi luoghi di montagna, perché finché ci vai come alpinista, va tutto bene, ma quando ci vai per lavorare, il valligiano ha anche paura, si può capire, che tu gli voglia portar via il lavoro. Alpinismo a tempo pieno nel senso di filo conduttore della vita, anche se penso che si sia concluso un ciclo di un certo tipo di alpinismo, perché nella vita si passa per cicli e certe cose che ti hanno interessato tanto, dopo un po’ t’interessano meno e ti rivolgi ad altro. La concezione di arricchimento intellettuale spinge ad allargare i confini dell’alpinismo più che la concezione puramente sportiva».

Pensate di essere un esempio che l’alpinismo a tempo pieno non ha bisogno di sponsor?
«Silvia: se è fatto in questo modo non ha bisogno di sponsor, però deve essere inteso nella forma di restare svincolati dalla parte mercantile, devi avere un lavoro distinto dall’alpinismo. Forse è più semplice, anche se per certi aspetti più rischioso. D’altra parte conosciamo anche altri che fanno alpinismo a un livello ben superiore al nostro, come vari patagonici, che non sono degli sponsorizzati e fanno delle cose bellissime. Si può scegliere di praticare l’alpinismo come cosa molto importante, molto bella nella vita e che in parte dia anche da vivere in senso materiale, senza quello che io chiamo vendersi, mantenendo la propria libertà. Per me uno degli atout dell’alpinismo è proprio quello di essere libero, non essere condizionati dagli altri. Non che si debba essere estremamente rigidi in questo senso: è anche giusto che uno riceva un aiuto da qualcuno, ma più si viene aiutati da persone al di fuori del mondo alpinistico, più si può essere soggetti a pressioni che con la passione alpinistica non hanno niente a che vedere o addirittura sono controproducenti. Può essere interessante ancora vedere l’evoluzione dell’alpinismo spagnolo che, nel dopo Franco, per primo ha introdotto la squadra nazionale. Oggi o uno si fa sponsorizzare personalmente o entra nella squadra nazionale.

Sembrerebbe una cosa assurda perché l’Ovest che ha sempre criticato il sistema sovietico, dell’Est, di avere le squadre nazionali, in realtà le sta introducendo come unico argine alla sponsorizzazione selvaggia individuale. Questo fa riflettere: ambedue le forme allontanano però da un alpinismo inteso come autonomia di vita».
Ad un certo livello, oggi, è possibile farne a meno?
«Gino: come risultato sportivo senz’altro sì. Come diffusione della notizia del risultato sportivo, no. La differenza è tutta lì.
Silvia: conosciamo persone che fanno cose grandiose, ma che abbiamo conosciuto per caso. Dell’Himalaya sappiamo poco, ma in Patagonia ci sono alpinisti che fanno cose bellissime, di cui non si sa praticamente niente. Addirittura certi ci hanno detto di non metterli neanche nel libro».
Perché lo fanno per se stessi.
«Silvia: questa è un’evoluzione molto bella, molto spirituale, perché noi quando abbiamo incominciato l’alpinismo, non saremmo stati capaci, credo, di non dire a nessuno di aver fatto una bella salita. E io senz’altro ho fatto qualche ascensione perché si era importanti se si era fatta quella salita e quando si è giovani… Per me, insomma, è stato giusto così, mi ha fatto crescere. Se oggi vedo un giovane che ha fatto cose spettacolari e a cui non interessa niente che venga o no pubblicato, mi dico bene, allora questo è un passo avanti, forse questa è la “via di mezzo” che mette da una parte la sponsorizzazione selvaggia, con quelli che si devono piegare a un mercantilismo che non volevano nemmeno all’inizio e di cui diventano poi vittime, e dall’altra parte la squadra nazionale, che forse è un po’ meglio, perché ha dei responsabili che non vogliono mandarti alla morte, anche se vogliono comunque dei risultati».
Se si pensa ad altri sport, direi che oggi è quasi impossibile arrivare a prestazioni ad alto e altissimo livello al di fuori dei circuiti di sponsorizzazioni ed è difficile purtroppo non lasciarsi tentare dall’uso e dall’abuso di sostanze dopanti.
«Silvia: l’alpinismo rimane un’isola fortunata, perché si possono fare cose ad altissimo livello senza bisogno del doping né di venderti malamente. Ed è interessante vedere che giovani ad altissimo livello sono in grado di gestirsi bene.
Gino: anche a proposito dei costi, se è vero che una spedizione in Himalaya costa cara, questo non vale per la Patagonia. L’aereo costa poco, vivere là costa meno di qua, anzi addirittura risparmi sul telefono e, se vai giù nell’inverno, su riscaldamento e regali di Natale. Adesso la sponsorizzazione attira molto perché ti fa pubblicità, ti assicura il riconoscimento anche al di fuori dell’ambiente alpinistico, ti serve ad arrivare prima a un traguardo di notorietà.
Silvia: il nodo del problema è la trasformazione in spettacolo, sia per il singolo che per le squadre nazionali, perché anche loro poi vanno a cercare lo sponsor».

Nel bollettino UIAA 153, marzo 1996, Silvia ha scritto che il valore sociale ed educativo dell’alpinismo risiede nella caratteristica unica di libere scelte in libera natura. Alpinismo, quindi, come sport senza regole rigide, dove conta l’autodisciplina. Un riferimento all’anarchia?
«Silvia: usiamo pure il termine anarchia nella sua accezione più bella, perché nell’anarchia si possono coniugare libertà e solidarietà. L’alpinismo è una delle pochissime attività in cui si può realizzare quest’utopia: al di là dell’arricchimento individuale che ti può portare, può essere socialmente utile, se quando torni al piano fai vedere che è possibile essere insieme liberi e solidali, senza imposizioni esterne. Tu fai una libera scelta di andare da qualche parte, ma se una persona è in difficoltà ti fermi e l’aiuti. Una scelta di umanità diretta, che nella vita di ogni giorno è sempre più difficile, perché deleghi a qualcun altro di farsene carico. Invece lì no, sei responsabile della tua scelta, della vita del tuo compagno e di chi potresti incontrare. Credo sia uno dei valori dell’alpinismo da conservare, sviluppare e diffondere, al di là dell’essere o meno sponsorizzato, al di là della squadra nazionale, facendo vedere che al di là di un’attività egocentrica, c’è anche questa possibilità di essere liberi, autonomi e nello stesso tempo solidali e generosi. Nell’alpinismo non si delega, si è responsabili in prima persona. Non è un discorso solo teorico: per la Patagonia, per la zona Fitz Roy-Cerro Torre, ci sono state proposte che mi sono sembrate sensate. La gente del luogo non è in grado di prestare soccorso e fino a qualche anno fa si doveva semplicemente firmare che non si pretendeva soccorso. Poi era ovvio che, se c’erano altri alpinisti sul posto, si muovevano per aiutare. Adesso si vorrebbe rendere ufficiale il soccorso, nel senso che se sei alpinista e entri nel parco devi renderti disponibile per un eventuale soccorso. È un po’ triste doverlo mettete nero su bianco, però è un modo per arginare questa tendenza a lavarsene le mani. Forse in Patagonia sarà più facile, perché molti alpinisti lì ci vanno senza sponsorizzazioni, con i loro risparmi e se tu non devi rendere conto a nessuno, forse rinunci più facilmente alla salita per andare ad aiutare. È anche triste che il problema sia scoppiato solo adesso con il libro di Krakauer (si riferisce al libro Aria sottile, di Jon Krakauer, Corbaccio, 1998, NdR), ma se si leggono attentamente tante cronache alpinistiche, purtroppo si trovano tanti casi di abbandono del compagno in difficoltà anche sulle Alpi. Come si trovano tanti casi di alpinisti che per aiutare il compagno hanno rinunciato alla vetta e hanno rischiato la vita o avuto dei danni. Mi sembra che l’alpinismo himalayano con la storia dei permessi abbia contribuito a far nascere questi atteggiamenti qualunquistici: il non poter cambiare meta e il costo altissimo delle spedizioni ti porta a scelte che diversamente forse non avresti fatto. Noi andiamo in montagna volentieri solo con persone che hanno questa disponibilità umana. Se mi faccio male davvero forse nessuno potrà aiutarmi, come io non potrò aiutare loro, ma c’è comunque in partenza la disposizione d’animo per cui la persona vale più della cima. Può darsi che l’alpinismo di coppia, l’andare solo con persone cui vuoi bene, siano amici cari o il tuo partner nella vita, abbia ulteriormente favorito questa sensibilità».
Oltre al prossimo viaggio in Patagonia, che se non sbaglio è il ventesimo, programmato per dicembre-gennaio prossimi, che progetti avete?
«Gino: la nostra ultima iniziativa di coppia è stata di far stampare su una maglietta questa citazione di Catullo: “Cesare, non ho voglia di piacerti e non m’importa sapere se tu sei bianco o nero”, già riportata da Giovanni Arpino in uno scritto intitolato L’intellettuale asservito al potere. Ci siamo divertiti a stilare una lista di persone cui mandarla con una lettera in cui si spiega la motivazione: un plauso per aver saputo assumersi delle responsabilità personali, per aver avuto il coraggio di esporsi e prendere una posizione, anziché nascondersi o stare zitti, solo per il fatto che tutti gli altri pensano il contrario, oppure subiscono in un grigiore generale».
Nota
Nella notte tra sabato 14 e domenica 15 settembre 2002 Gino Buscaini è mancato.
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Diversi anni fa, di ritorno dalla via Scalet-Biasin al Sass Maor, ci hanno chiesto di unirci al loro tavolo alla locanda La Ritonda per raccontare l’esperienza che avevamo fatto con la relazione tecnica tratta dal loro libro. Ne “Le Cento più Belle delle Dolomiti Occidentali” c’è una foto del diedro della via Scalet-Biasin che non è loro ma di Manolo e quando dissi che avevamo tardato perché qualcuno aveva portato via lo zaino al mio compagno e non riuscivamo a capire il perché, Silvia ci ha tranquillizzato e ha precisato che loro non si curavano del tempo impiegato e che il tempo passato sui monti è sempre benefico. Avevano un sorriso bellissimo e si sentiva la loro grande intesa.
Magici Silvia e Gino, che emozione rileggerli insieme! Nostalgia di un Capodanno bellissimo passato insieme, per puro caso, nel rifugio ai piedi del Torre e del Fitz Roy, tanti anni fa…Nostalgia dei loro articoli su “Dimensione Sci”… Gino redattore di lusso della Rivista della Montagna, presenza importante nelle riunioni di redazione, sempre tranquillo e disponibile. Un marchio di qualità. Silvia un vulcano attivo, e lo è ancora tuttora! Si completavano perfettamente, questa era la loro forza di coppia, una vera coppia. Peccato che non siano andati anche per mare insieme oltre che per monti, perché anche navigando avrebbero potuto dimostrare che solo una “a” distingue le parole”mare” da “amare”! E cosa dire di Silvia adesso, rimasta sola? Bellissima, sempre lei, forte e decisa anche quando parla del suo passato. Gino sembra essere sempre lì con lei, discreto e sorridente. Ed è bello pensare che lo sia ancora davvero. Un esempio unico, una speranza in questi tempi bui.
Interessante e nostalgico. Come passa il tempo. Come cambiano usi e costumi. Una coppia di un’altra epoca, quando gli uomini esercitavano la responsabilità e le donne la pazienza. Un’intervista di altri tempi, quando gli intervistatori non osavano guardare dal buco della serratura e il pubblico non si eccitava distruttivamente a veder trasformare l’agiografia di persone famose in una pubblica ordalia.
Gino e Silvia, Silvia e Gino. Impossibile vederli in modo separato e diviso. Una vita dedicata all’alpinismo e, soprattutto, una vita trascorsa in coppia. A guardarli, e per quel poco che li ho incontrati di persona, davano proprio l’impressione di essere, reciprocamente, l’altra metà della mela. Gino è stato il grande demiurgo della Collana Monti d’Italia. Intere generazioni di alpinisti hanno consumato gli occhi su quelle pagine. Alcune le ha scritte di suo pugno, altre le ha governate dall’alto, ma sempre con il suo stile, inconfondibile. Gino ci ha lasciato ormai 18 anni fa: un’assenza che si avverte. La sua personalità risente profondamente della vita condivisa con Silvia. Anzi è impreciso parlare della personalità dell’uno e dell’altra. Una coppia è una squadra, in montagna come nella vita. Bellissima e toccante la loro intervista.