Iniziazione a Camporotondo

Metadiario – 163 – Iniziazione a Camporotondo (AG 1991-006)

La gravidanza di Bibi era agli sgoccioli, ma ero abbastanza tranquillo sul lasciare Milano per qualche lavoro in quanto la fine era stata programmata con taglio cesareo per il 29 novembre 1991. Così il 26 novembre, con Marco Milani e Michele Fumagalli, ci recammo sul Ghiacciaio di Plateau Rosa: uscita assai comoda, in quanto servita dalla funivia. Per una volta non facemmo una fatica porca ad andare a raccogliere ghiaccio da mettere in flaconi. Giunti all’arrivo della funivia, scegliemmo un luogo abbastanza crepacciato per fare il nostro lavoro.

Bibi e Marina a metà novembre 1991
Plateau Rosa e l’omonimo ghiacciaio, con lo sfondo del Breithorn. Foto: Sandro Vannini.

Non posso dire la stessa cosa per l’ultima uscita in programma, quella al Ghiacciaio di Presena Orientale, svoltasi con il solo Marco il 3 dicembre. Aveva nevicato, ma era un martedì, dunque al Passo del Tonale c’era il deserto. Funzionava però la funivia del Presena, quindi raggiungemmo facilmente Passo Paradiso 2573 m. Da lì, incollate le pelli, salimmo con gli sci vicino agli impianti fino alla capanna Presena 2740 m e poi fino al Colle del Cornicciolo 2900 m c. Per arrivare a questo colletto nevoso occorre passare in traversata a sinistra sotto un rilievo, la Quota 2938 m, chiamata dagli alpini la Sgualdrina, per via delle insidie che nascondeva: caverne, gallerie con cannoni, poste dagli uomini del gen. K. Steinhardt, sostanzialmente tese a far cadere gli alpini in un agguato.

Gatti delle nevi in azione la sera a Plateau Rosa. Foto: Comunità Montana Cervino.

Per me era in serbo un altro tipo di insidia, di certo non paragonabile ma comunque assai fastidiosa. Tanto per cambiare avevo un paio di attacchi nuovi: mi erano stati dati in prova. Peccato che facesse molto freddo, probabilmente stavamo sfiorando i -30°, e di certo le solette di materiale sintetico che facevano da base ai congegni meccanici di attacco non erano state testate alle basse temperature. Proprio nel bel mezzo della traversata mi ritrovai con lo sci staccato, perché si era rotta in due pezzi la soletta. Impossibile ogni riparazione o artificio di fortuna, perciò mi risolsi usando uno sci solo a raggiungere Marco che era già arrivato al Colle del Cornicciolo.

Il Ghiacciaio di Presena Occidentale. Sulla cresta in alto le tracce per il Colle del Cornicciolo, tra il Cornicciolo e la Sgualdrina. Foto: Giuseppe Veclani.

Senza riflettere più di tanto cominciammo a scendere sull’opposto versante, quello dove appunto si stende il Ghiacciaio di Presena Orientale. D’improvviso ci trovammo in un luogo selvaggio, al cospetto del versante settentrionale della mastodontica Cima della Busazza. In quel freddo siderale cercammo e trovammo un buon crepaccio in cui fare il nostro lavoro e infine, belli carichi, riprendemmo la discesa sul ghiacciaio e poi lungo la sponda sinistra della Val Presena. Il mio procedere era penoso, la neve era abbondante e avevo il terrore che mi si spaccasse anche l’altra soletta. Il che avrebbe significato una lunga marcia a piedi, sfondando fino all’inguine. Il povero Marco si era fatto carico della maggior parte del peso dei campioni, ma ciò nonostante facevo una fatica indiavolata. Finalmente la valle sfociò nella Val di Sole, ma noi ci eravamo tenuti abbastanza in alto per raggiungere il Passo del Tonale senza dover risalire. Semi-assiderati ci rifugiammo nella mia auto, che era al sole; il termometro segnava -22°, ed eravamo circa mille metri più bassi del Colle del Cornicciolo…

Francamente non vedevo l’ora di tornare a casa e di stare un po’ con Petra, nata da soli quattro giorni.

Natale 1991. Petra è in braccio alla madrina Uli (Giulia Uliva) Cislaghi-Fundarò.

Con il Presena si concludeva la lunga campagna sui ghiacciai di Aquila Verde: personalmente ero stato presente a nove delle quindici location.

Come già detto, Aquila Verde era nata nel 1990 dall’esigenza di raccogliere dati scientifici relativi alle condizioni ambientali delle Alpi e delle nostre montagne in genere, allo scopo di poter informare il pubblico delle problematiche che affliggono queste aree. Il settimanale L’Espresso si era incaricato di divulgare i risultati della prima campagna, quella del 1990, tesa a investigare le condizioni ambientali di nove grandi stazioni del turismo alpino.

Alla luce dei risultati del 1990 i due sponsor dell’iniziativa (So.Ra.Ro. e CRC) decisero di riproporla anche nel 1991; pur essendo forte la tentazione di ripetere le medesime indagini del primo anno al fine di mantenere sotto pressione le Amministrazioni coinvolte, prevalse l’idea di non sostituirsi alle autorità competenti; con questa scelta si volle evitare di aprire inutili vertenze diventando la controparte degli organi preposti a controllare lo stato di salute dell’ambiente: infatti, con le analisi del primo anno era stato ampiamente dimostrato che la situazione delle zone investigate era tutt’altro che tranquilla, ma si era pensato anche che fosse compito delle amministrazioni raccogliere positivamente gli stimoli offerti.

Piazza centrale di Finalborgo. Al secondo piano della casa rossiccia in fondo abbiamo abitato al freddo per una settimana.

Furono dunque individuati altri tre aspetti dell’inquinamento dell’ambiente montano che parevano di grande interesse, sia per i possibili coinvolgimenti futuri, sia per l’ampiezza del territorio interessato: lo stato chimico delle grandi masse glaciali, importantissima riserva di acqua dolce, l’impatto ambientale dei rifugi alpini che con più di un milione di pernottamenti annui rappresentavano la più rilevante catena alberghiera d’Italia, e infine uno studio sulle caratteristiche fisico chimiche della neve artificiale e dei suoi possibili effetti sull’ambiente.

Il coordinamento tecnico di Montana s.r.l. questa volta era anche patrocinato da Mountain Wilderness.

Per affrontare lo studio della qualità chimica dei ghiacciai si doveva tenere conto che quasi nulla era stato fatto fino ad allora nelle regioni alpine. Qualcosa era stato fatto dai glaciologi svizzeri, ma in modo molto puntiforme. Aquila Verde voleva dunque come primo obiettivo eseguire un primo studio che coprisse, per quanto possibile, l’intero arco alpino italiano, tenendo conto delle diverse esposizioni e delle diverse quote.

Attraverso uno studio così vasto, dal punto di vista altimetrico e geografico, si voleva cominciare ad avere dei dati di base sulla qualità della più importante riserva d’acqua dolce, e quindi portare l’attenzione della comunità sulla necessità di preservare integra tale preziosissima risorsa. In sostanza fummo i primi ad interessarci ad un problema che oggi ha assunto toni di gravità.

Resti neolitici alla Casa del Vacché. Foto: Alfredo Izeta.

La scelta dei 15 ghiacciai tenne conto della distribuzione geografica, delle diverse esposizioni e della quota; furono presi in considerazione anche ghiacciai utilizzati per lo sci estivo.

Alpi Occidentali:
Lyskamm (AO); Tza De Tzan (AO); Morillon (AO); Plateau Rosa (AO); Col Maudit (AO); Gran Paradiso (AO).

Alpi Centrali:
Stella (Ponciagna) (SO); Ventina (SO); Scerscen Inferiore (SO); Vitelli (BS) (impianti dello Stelvio); Presena Orientale (TN); Careser (TN).

Alpi Orientali:
Hochjochferner (BZ) (impianti di Val Senales); Übeltalferner (BZ); Marmolada (TN) (impianti della Marmolada).

Fedeli allo spirito dell’iniziativa, per le operazioni sul terreno non furono utilizzati mezzi meccanici, se non le funivia presenti. Il campionamento avveniva calandosi all’interno di un crepaccio in ciascun ghiacciaio ed effettuando prelievi di ghiaccio a diverse profondità. I livelli ai quali eseguire i campionamenti erano di volta in volta concordati con il glaciologo, quasi sempre presente durante il lavoro, in considerazione delle caratteristiche peculiari di ciascun ghiacciaio.

Il coordinamento scientifico fu assicurato dal prof. Claudio Smiraglia e dal dr. Antonio Galluccio, coordinatore del Servizio Glaciologico Lombardo.

Qui si possono consultare i risultati dell’indagine Aquila Verde Ghiacciai 1991.

Resti neolitici alla Casa del Vacché: i lavatoi. Foto: Alfredo Izeta.

Nel pomeriggio del 29 novembre accompagnai Bibi all’ospedale di Niguarda. Cominciò la classica attesa snervante dell’evento, moderata dal maggiore controllo che si può avere con la modalità parto cesareo. In realtà eravamo abbastanza sicuri che tutto sarebbe andato come doveva, sia perché eravamo fiduciosi nel chirurgo ginecologo che l’aveva seguita e che avrebbe praticato l’intervento, sia perché ci rassicurava l’atmosfera che regnava nell’equipe e nel reparto. Non nascondo che avevo una grossa preferenza per femmina piuttosto che per maschio, ma ero pronto ad accettare sereno ciò che il destino ci aveva da tempo riservato e che noi non conoscevamo ancora.
Quando alla fine Bibi fu portata in sala operatoria rimasi in silenzio su una sedia, non ricordo neppure se ero solo o c’era qualcun altro della famiglia. Non lessi nulla, tanto ero concentrato. Poi finalmente me la mostrarono. Con quel suo ciuffo rossiccio a cresta mi sembrò bellissima e non posso certo dire che i neonati mi facessero impazzire, anzi. Anche oggi ricordo così bene quell’immagine che, a distanza di 32 anni, ogni tanto mi capita di sovrapporla al viso reale di Petra, come se il tempo si fosse fermato o, meglio, come se la magia non avesse tempo.

Qui ho riportato un breve filmino girato nei giorni di Natale a Milano.

Camporotondo. Foto: Alfredo Izeta.

Una settimana prima del 29 novembre, a Marina e Alberto Sorbini era nato Pietro. Le due gravidanze erano state a stretto contatto per mesi. Così, a lieti eventi realizzati, avevamo deciso di affittare assieme per Capodanno un appartamento nel pieno centro di Finalborgo. Un po’ di giorni per continuare quella vicinanza e anche per mutua assistenza.

Nel mezzo c’era stato un Natale che rimarrà impresso nella mia memoria per la smisurata quantità di regali presente sotto l’albero a casa dei nonni. C’era di tutto, per piccini (Tommy e Petra) ma anche per i grandi. Da vergognarsi.

Purtroppo il periodo di Capodanno si rivelò assai freddino, e quella casa antica ed enorme, senza riscaldamento (neppure il camino), si rivelò una cattiva scelta, almeno per ciò che riguarda le attenzioni che occorreva riservare ai nostri figli di appena un mese, oltre che per deprecare la continua freddezza dei nostri piedi. Le case in Liguria, d’inverno, sono prodighe di quell’umido freddo che non varia neppure se fuori c’è un bel sole. Quando eravamo seduti, o mangiavamo, eravamo avvolti da coperte e, soprattutto al mattino, il freddo era proprio fastidioso. Per evitare che Petra si svegliasse prima di Pietro, appena alzato me la caricavo addosso, non sulle spalle ma sul petto. E avevo scoperto che il rumore del rasoio elettrico faceva le veci di una ninna nanna mattutina. Peccato che non mi accorgessi che i peli di barba triturati cadessero sul viso della piccina, sul berretto da notte e sulle spalle coperte di lana.

Camporotondo

– Ma cos’è ‘sta roba che è già il secondo giorno che vedo addosso alla bambina? – si chiedeva Bibi perplessa. Quando confessai le mie responsabilità, presenti anche Alberto e Marina, ci fu quel tipo di risata che denuncia non tanto umorismo quanto riprovazione. Ma a me sembrava la cosa più normale del mondo…

Sapevo da sempre che Finale Ligure non è solo mare e rocce per arrampicare: le valli fossili e le caverne mostrano le tracce di un lontano passato neolitico.
Non ero mai stato a Camporotondo, eppure c’ero stato più volte vicino, per esempio andando a scalare nei pressi della Casa del Vacché.

Lastre neolitiche nei pressi di Camporotondo. Foto: Alfredo Izeta.

Sapevo che al centro di Camporotondo spicca un grande pianoro che potrebbe aver ospitato delle capanne (delle quali peraltro non esiste traccia). E che esistevano invece alcune costruzioni con muri a secco che attestano una certa perizia edificativa. Avevo già avuto modo di osservare, a poche centinaia di metri, la Casa del Vacché, costituita da una serie di abitazioni trogloditiche destinate all’allevamento del bestiame e – più in basso – da terreni (rari nel finalese) in passato coltivati a grano, ceci e fave.
La costruzione principale è in rovina: ospita ancora tre abbeveratoi (vasche da bagno): gli altri edifici sono ormai un cumulo di detriti.
Camporotondo è stato definito, con solo un po’ di verità, “la Stonehenge finalese”.  

Avevo sempre avuto molta curiosità al riguardo, dovuta alla mia ricerca di un rapporto semplice, diretto e privilegiato con il divino e con il mistero.

Il 29 dicembre partimmo da una frazione alta di Finale Ligure, San Bernardino: con Bibi portavo Petrina sulle spalle e lentamente seguimmo il sentierino che sapevo ci avrebbe portati a Camporotondo.

Quando ci arrivammo ci si confermò quell’aria un po’ misteriosa e magica che ci aspettavamo. Ma subito non eravamo in grado di capire se ciò che ci veniva suggerito proveniva da una particolare energia del luogo o se era solo prodotto dell’abbandono. Perché c’era anche un senso di rassegnata desolazione.
È difficile indagare su cose antiche e misteriose, fatte da un’umanità così diversa e lontana dalla nostra.

Camporotondo è un prato circolare e piano, un Cerchio come spazio “sacro”, che protegge dallo spazio “profano”. Quell’uomo si riconosceva piccola creatura in un contesto che per lui era infinito, a volte generoso, ma il più spesso sterile e ostile. C’era bisogno di venerare e ingraziarsi gli dei. Per lui il Cerchio era simbolo della sacralità di un ciclo vitale che, dopo avere fatto un suo percorso, ritorna all’origine. Tanti sono i cicli: i giorni, le stagioni, la vita. Sotto la cupola del cielo, la stessa terra è vista come un cerchio: qui rappresentata dal prato circolare, figura geometrica e perfetta, armonica. Ritenere sacro quel Cerchio significava ritenere sacra Madre Terra.

Che fosse un cerchio non c’è dubbio: lo testimoniano i grossi lastroni megalitici, il cui scopo è tuttora ignoto, con ipotesi che vagano tra esoterismo e semplice pastorizia.

Essere lì, in un freddino pomeriggio invernale con un pallido sole neppure sempre visibile per vie delle piante: essere lì con la mia famiglia, da poco accresciuta, faceva impressione. Sacro? Esoterico? Semplice pastorizia? A me sembrava che ogni elemento di quel luogo fosse fuso in una sola grande e silenziosa energia, quella che oggi forse solo gli asceti, i monaci e i mistici sanno vivere a comando. La forza veniva da lontano, dal Neolitico, ma era così potente che non riuscii a non pensare che forse l’inconsapevole Petra ne sarebbe stata “contagiata”, una specie di iniziazione al mistero.
Ma anche noi eravamo lì, ancora piacevolmente scossi dall’arrivo di nostra figlia: anche per noi quella gita era un pellegrinaggio, una via iniziatica. Ci aspettava un nuovo periodo della nostra vita, anche per noi era finalmente transumanza, che ha bisogno di recinti ma anche di una via.

A San Bernardino (Finale Ligure)

Secondo me poteva essere utile saper “leggere” quelle poche tracce, disordinate e manomesse nei secoli (lastroni, incisioni): ma nessuno c’era ancora riuscito, perciò non era essenziale. Mi apparve chiaro che quello spazio circolare poteva apparire facilmente sacro solo se lo si guardava in determinate condizioni di spirito.

Tornando ad argomenti più spiccioli, a conclusione di questo strano capitoletto di Metadiario, citerò solo le arrampicate sportive che più a quel tempo mi diedero soddisfazione. A La Brigue, nel settore Col de la Loubaria/Guerre et Pais, salii onsight (21 dicembre 1991) la prima lunghezza di Guerre et Pais (6c), mentre al settore La grand Face ebbi successo, sempre onsight (22 dicembre), su Exsiste en Ciel (6c) e su Édition spéciale (6c).

Nella zona di Albenga, al Bausu destro di Oresine, fui graziato su Bocca di Rosa (7a, onsight, 4 gennaio 1992) e sui tre tiri (fino al 6c+, onsight) di Parole che non esistono (assieme a Beppe Villa); e ancora, il giorno dopo al Bausu centrale, su Maestro di sogni proibiti (6c+, onsight). Infine, il 5 gennaio 1992, con Mauro Curzio andammo alla Rocca dell’Arma (Caprauna) e, sulla Placca di Guz, ebbi successo con Sulle orme di Guz (6c+, onsight).



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Iniziazione a Camporotondo ultima modifica: 2024-01-06T05:37:00+01:00 da GognaBlog

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5 pensieri su “Iniziazione a Camporotondo”

  1. Graziosissimo ed intimo “Metadiario”. Mi ha portato alla memoria i ricordi dei primi giorni con nostra figlia Margherita. Il primo in assoluto. L’ostetrica del Sant’Anna che scrive “Bosco” sul pancino della mia piccola … col pennarello … “…sà, è per evitare confusioni …” (il Sant’Anna è una specie di “Mirafiori” delle nascite torinesi … personale solerte, competente ma … sbrigativo …).
    Petra l’hanno chiamata … mmmm … vediamo cosa dice Goggle “Il nome Petra è ispirato alla roccia …”. Ma dai … che strano … chi lo avrebbe mai detto 😉.

  2. Attendevo con gioia il racconto dell’avvento di Petra.
    I momenti più intensi del mio vissuto sono stati sempre accompagnati dall’attrazione per i luoghi naturali, come se il mio istinto mi suggerisca che è quello il luogo giusto in cui vivere.

  3. Suggestioni, informazioni, cultura propria, momenti particolari, persone e situazioni, tutto contribuisce alla costruzione interiore di ognuno di noi.
     
    D’altronde anche religioni funzionano così. Quello che gli animali, e l’essere umano di una volta, sentono col proprio istinto fa parte di ognuno, della propria formazione, che sempre passa per iniziazione, e ci plasma in un modo.
    Quando certi esseri umani riescono a fare a meno di tutte le sovrastrutture che gli stessi hanno inventato, dalla leva in poi, ecco che si vive secondo percezioni cosmico-animalesche che si cerca di far durare se le si è cercate.
    L’ho capito perché anche a me capita spesso. E non mi drogo.

  4. Grazie Alessandro di averci fatto partecipi di questo racconto così intimo e del delizioso filmetto sulla nascita di tua figlia. Ma grazie anche delle tue riflessioni sul nostro passato Neolitico e sulla spiritualità spontanea e immensa che viveva l’umanità allora, su quella presenza costante e necessaria che noi, esseri “evoluti” abbiamo sfregiato e ignorato, considerando la Madre Terra come cosa da sfruttare a nostro piacimento, senza rispetto e gratitudine. Buon 2024 a te e a tutti i tuoi cari, a Petra in particolare, che vorrei ritrovare ancora su questo blog. 

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