“To feel not to know” vent’anni dopo

Poche righe per proporre una prospettiva stile uovo di Colombo dedicata alla riduzione del rischio d’inconveniente. Nessun consiglio. Nessun esperto. Nessun decalogo. Nessun metodo. Nessuna verità definitiva. Nessuna tecnica né sapere, nessuna scoperta né nuova idea. Solo noi e la nostra relazione col mondo.
Solo una precisazione: capire non basta. Ri-creare è necessario.

Chi vuole mettersi in gioco può, se già non l’ha fatto, fare mente locale al fine di dare la sua risposta alla domanda “in cosa consiste la sicurezza?”. Nel presente articolo è un’inconsueta risposta da valutare.

To Feel Not to Know vent’anni dopo
(sentire, non sapere: vent’anni dopo)
di Lorenzo Merlo
(ekarrrt 9 ottobre 2023)

Premessa
Vivo nelle regole sacre / Al cielo lo sguardo ho volto / Vivo nelle regole sacre / Molti sono i miei cavalli (Canzone pellerossa)”.

Vent’anni fa scrissi un pezzo dedicato alla sicurezza. Il titolo di quell’articolo era To Feel Not To Know. Ovvero, dove sta la sicurezza.

(Il 4 settembre 2017 GognaBlog ripropose, rivisto e ampliato dallo stesso autore, lo stesso articolo che quindici anni prima era passato quasi inosservato, quando non osteggiato. Commentammo: ‘Un articolo fondamentale, nel tema del quale è la madre di tutte le nostre battaglie odierne e venture’, NdR).

L’articolo di allora si dedicava a far presente che, quando cerchiamo responsabilità, per cultura siamo indotti a guardare fuori da noi. Filosoficamente parlando, è una modalità che allude al materialismo, al positivismo, al razionalismo, allo scientismo, all’egocentrismo. Tutte fonti dell’oggettivazione del mondo e sostegni dell’oggettività della realtà.

E invece non posso ragionare, non devo. Alla perfezione non occorre (Alessandro Gogna, Un alpinismo di ricerca)”.

Nel caso della sicurezza – termine che sarebbe opportuno dismettere, in quanto fuorviante, nel senso che implica che essa esista o possa esistere –, significa che se prendiamo un gruppo eterogeneo di persone, adulti e bambini, uomini e donne, professionisti e dilettanti, professori e gente comune, e chiediamo loro in cosa consista la sicurezza – o come si riduca il rischio d’inconveniente –, tendenzialmente avremmo a che fare con risposte di tipo esogeno, cioè esterne. Più precisamente, chi più, chi meno, riferirà di saperi e averi, cioè di conoscenza e materiali, di dati e tecniche “corrette”. Tutto senza dimenticare l’esperienza, facilmente citata in testa a un’ipotetica graduatoria in termini d’importanza per realizzare sicurezza. Pardon, per ridurre i rischi d’inconveniente.

Tutte risposte condivisibili, come accennato, legittimate dalla mente culturale che domina il nostro immaginario e quindi il nostro pensiero e fare. Una mente è in pratica simile a un campo chiuso, del quale non vediamo delimitazioni, nel quale giochiamo la nostra partita, rispettosi delle regole che lo governano, ma inconsapevoli del campo stesso. Non è in questi termini che seguiamo il flusso che dalla nascita assorbiamo e ci viene impartito?

L’elemento principe dell’educazione che ne deriva è quello di ritenerci, identificarci in un nome, una professione, un ruolo, una prestazione, una malattia. Tali identificazioni sono armature del nostro io. Queste non rappresentano ciò che siamo, ma ciò che crediamo di essere. Il primo connotato dell’io è di farci sentire entità separate dagli altri, dalla natura, dal cosmo.

Le molte esperienze visionarie di un’attività alpinistica ormai quasi trentennale hanno notevolmente contribuito alla mia autocomprensione. A volte esistevo per null’altro che la mia coscienza, altre volte ero immerso in una intensa sensazione cosmica. In quei momenti il sapere è una presa di coscienza, senza che la ragione la debba ulteriormente elaborare (Reinhold Messner, Il limite della vita)”.

Malefatte dell’io
Coloro cui sfugge completamente l’idea che è possibile aver torto non possono imparare nulla, se non la tecnica (Gregory Bateson, Mente e natura)”.

Con queste premesse, è comprensibile che ci si dedichi all’esterno. La logica della cultura della competizione non è innocua, è una delle menti storiche che dominano. E pure quella della perenne soddisfazione del desiderio. Più l’io ha (accumulo), meglio è (stima di sé). Siano essi dati, riconoscimenti, beni. Così l’erudito, o presunto tale, è meglio dell’ignorante, o presunto tale. L’io, infatti, è maestro di graduatorie che, sotto l’egida della mente che lo possiede, stila a sua immagine e somiglianza. Esso è anche un segugio di differenze e un incompetente a riconoscere l’identicità che indistintamente ci rappresenta. Sì, è un asino a riconoscere che il prossimo è un noi stessi in altro tempo, forma e spazio. A riconoscere che siamo un solo corpo unito da una rete di relazioni; che ciò che osserviamo e critichiamo nel prossimo è esattamente ciò che sostanzialmente – non formalmente – abbiamo fatto, facciamo o faremo noi stessi. È un’osservazione disponibile a tutti. Non è esperienza di tutti avere preso le distanze da qualcosa che abbiamo fatto, fino a considerare quel noi del passato altro da noi? Non possiamo concludere che l’io di allora non è l’io che crediamo di essere oggi?

Anzi, John von Neumann, nel suo famoso libro [Theory of Games and Economic Behavior, NdA] sottolinea espressamente le differenze tra il suo mondo tautologico e il mondo più complesso delle relazioni umane (Gregory Bateson, Mente e natura)”.

Crollo di un mito
Raccogliendo le risposte del gruppo di persone intervistato, al fine di redigere un elenco per preferenza, facilmente la parola ascolto non comparirà. E neppure relazione. Come detto prima, con pari buona probabilità sarà la parola esperienza una tra le preferite.

Partiamo da questa. Tenendo presente, però, che è impiegata alla stregua di un qualunque elemento del nostro corpo di competenza, misto di cognizioni (i saperi), abilità (il muoversi), tecniche (le manovre) e materiali ed equipaggiamento a disposizione.

Gli errori li commettiamo sempre noi. Certo, non ho mai fatto mistero del mio atteggiamento al limite e ho irritato tutti i sostenitori dell’associazionismo, che vorrebbero metter in sicurezza la montagna e l’alpinismo per poi concedere agli associati le loro prestazioni (Reinhold Messner, Razzo rosso sul Nanga Parbat)”.

Non si tratta di negare il valore di quella competenza. Né di sostenere che un’esperienza ampia valga come una minore. Piuttosto di fare presente che in tutti quei dati, abilità, tecniche e vissuto troviamo le membra, ma non l’anima della conoscenza.

Si tratta infatti di riconoscere che, particolarmente in contesto critico/decisionale, l’esperienza può agire in noi come un campo chiuso. Quando questo accade, la creatività tende a ridursi e la ripetitività ad affermarsi. Quindi il rischio di scelte inadeguate si alza. Al contrario, in libertà abbiamo opportunità di coniugare l’esperito, il conosciuto e il disponibile in modalità inusuali e utili al momento. Un po’ come impiegare un cacciavite in modo diverso dalla sua missione di nascita.

Come la libertà dal conosciuto comporta vie nuove, così il suo opposto implica l’obbligo a ripetere pedestremente.

Non essere emancipati dal mito dell’esperienza comporta una forza che tende a costringere il problema, la situazione critica e non solo, entro lo stagno casellario delle nostre credenze. Sarebbe come cercare di comprimere l’infinito nel finito. Un’assurdità alla quale non di rado sottostiamo, finché restiamo privi delle consapevolezze necessarie alla liberazione.

Ecologia della mente
Le montagne sono munite di denti. Per trasformarti in cibo per loro, non c’è niente di più sicuro che la distrazione emotiva (Mark Twight, Confessioni di un Serial Climber)”.

L’emancipazione passa dalla scoperta dell’ascolto. Una specie di contrario dell’affermazione. Esso permette la visione delle forze che agiscono su di noi, sulle persone e nelle relazioni, tanto con altri esseri senzienti, quanto con la cosiddetta materia inanimata.

Se nella modalità dell’affermazione giochiamo la nostra partita entro il campo del razionalismo, del materialismo e della logica, in quella dell’ascolto possiamo riconoscere i limiti di quel campo che credevamo assoluto e vedere le verità energetiche, accreditare quelle non aristoteliche, accedere a luoghi e riconoscere ordini che la cultura dei dati non contempla.

I limiti della conoscenza e del conosciuto scompaiono […]. Da questo momento in poi regna sovrana la spontaneità.” (Lilian Silburn, La kundalini o L’energia del profondo)”.

Il modo dell’ascolto ci permette prospettive che quello dell’affermazione castra, ci apre visioni altrimenti precluse. Una di queste riguarda la visita a profondità inusuali, che riguardano noi e la nostra reale motivazione, l’altro e la sua intima condizione, il terreno quale solo referente di verità.

Inquinati da pretese (affermazione) e preoccupazioni (paura), non possiamo essere creativi, cioè seguire il sé che tutto raduna, come invece può l’oracolo dello sciamano che getta le pietruzze.

Un uomo sacro ama il silenzio, ci si avvolge come in una coperta: un silenzio che parla, con una voce forte come il tuono, che gli insegna tante cose. Uno sciamano desidera essere in un luogo dove si senta solo il ronzio degli insetti. Se ne sta seduto, con il viso rivolto a ovest, e chiede aiuto. Parla con le piante, ed esse rispondono. Ascolta con attenzione le voci degli animali. Diventa uno di loro. Da ogni creatura affluisce qualcosa dentro di lui. Anche lui emana qualcosa: come e che cosa io non lo so, ma è così. Io l’ho vissuto. Uno sciamano deve appartenere alla terra: deve leggere la natura come un uomo bianco sa leggere un libro (Cervo Zoppo, dei Sioux – a cura di Guasco Delia, Una storia degli Indiani del Nord America)”.

La conoscenza è già in noi. Essa sgorga dal sentire, dalla meditazione, dalla contemplazione, dall’empatia. Come un luminol spirituale, ci mostra quanto e come investiamo la realtà del nostro giudizio o siamo in grado di vedere il fenomeno senza imbrattarlo di noi stessi. Quanto tutto dipenda da noi, quindi dalla relazione che giocoforza mettiamo in essere. Relazione sempre soggetta al nostro stato intimo, ai nostri pregiudizi, eccetera. La conoscenza dei dati è superficiale, tecnica e temporale. È solo il sentire che ci dice con precisione cecchina cosa ci stressa, quanto siamo concentrati, quando è ora di smetterla.

Ma il sentire è facilmente disturbabile. Per eludere interferenze, diversivi e distrazioni, che lo sommergerebbero facendo perdere il suo segnale, è necessario emanciparsi dalle sirene dell’io, dalle fuorvianti verità culturali e dall’interesse personale. Restare in relazione con il nostro sé profondo è alzare il rischio di sicurezza.

Mi ha salvato il mio istinto ed ho imparato che bisogna soffrire per comprendere quanto siano stupide le idee che a volte ci aiutano nella follia. Non più ‘incedere elegante e veloce’, non più narcisismi idioti. E forse, soprattutto, non si può elevare a sistema la sfida a se stessi e alla montagna (Alessandro Gogna, Un alpinismo di ricerca)”.

Muoversi attraverso l’ascolto significa, quindi, non andare oltre il passo della nostra gamba, o andarci consapevolmente. Significa rispettare e accogliere il comportamento altrui, oppure sopraffarlo per consapevole scelta. Significa prendere coscienza che, concentrati sulla prestazione, possiamo distrarci dalla relazione col terreno e l’ambiente, fino a sostenere che “abbiamo dovuto bivaccare, perché la notte è arrivata all’improvviso”.

L’ascolto permette di riconoscere in noi – sempre – la responsabilità di quanto è accaduto, di come sono andate le cose. Ma non una responsabilità giuridica. Questa non solo è necessariamente razionale, uniformata e circoscritta, ma non fa testo in contesto evolutivo. L’assunzione di responsabilità è strumentale a vedere come componiamo la realtà che, altrimenti, crediamo oggettiva. Ci impedisce di appellarci ottusamente alla modalità giuridica. C’è sempre una nostra scelta originaria, trovarla è evolutivo. Farsi carico di quanto accade è orientarsi al miglioramento delle cose.

Dunque, non è più “lui che non capisce niente” o “glielo avevo detto”. L’esperienza non è trasmissibile e la lettura della situazione risente di noi stessi. Quante volte abbiamo creduto bastasse quanto fatto e detto per farci capire, seguire, ubbidire? Muoversi attraverso il sentire permette di rinunciare, senza cadere nei gorghi della frustrazione o nel buio della depressione, è sempre riconoscere la nostra misura e quando la eccediamo.

La risposta alla domanda
Allenando il modo dell’ascolto, tendiamo a ripulire il nostro sentire dall’inquinamento di idee e sentimenti. Quanto più la pulizia è fine, tanto più saremo in grado di cogliere e leggere informazioni sottili che il crasso farfugliare ci nasconde.

Armonia è un’altra parola rivoluzionaria, che implica la presenza incarnata in noi del valore, non solo concettuale (dato), dell’ascolto. Essa è con alta probabilità assente dall’elenco delle risposte di quel gruppo intervistato. Essere in armonia è essere parte del tutto, disperdere l’io – il contenitore che ci fa sentire autori di quanto stiamo facendo –, divenire il fare stesso. È in questo la risposta tofeelnottoknow alla domanda dove sta la sicurezza?

In tutta la narrativa alpinistica e non solo, si può trovare in altre parole come tutti noi possiamo esprimere il potenziale dell’ascolto.

Nell’ultima mezz’ora sono stato come fuori di me, mi vedevo arrampicare e non mi accorgevo di nient’altro (Mark Twight, Confessioni di un Serial Climber)”.

Dunque, per alzare il rischio di sicurezza, riferirsi al conosciuto, all’esperito e all’esperto può non bastare. Quando attraversiamo un incrocio affidandoci al verde, senza relazionarci all’ambiente, e un distratto non vede il suo rosso, il danno è compiuto e la responsabilità è nostra. Se dite che è sua, significa che non mi sono spiegato.

Il valore di queste note non sta nel prendere parte al fine di definirle vere o false. Tutto è in divenire, chi non è ancora transitato in questi mondi non è detto che mai li conoscerà. E voler viaggiare per ideologia o pretese è quantomeno garanzia di rinuncia alla propria evoluzione spirituale. Quindi riconoscere in noi in quali termini e quando qualcosa è vero o falso significa adottare il modo dell’ascolto, della relazione, dell’identicità, dell’evoluzione e dell’armonia. È la consapevolezza della propria ricreazione. È il segno che si è su una via con un cuore. È un canale di conoscenza che può chiamarsi empatico oppure amore.

Infine, le parole sono campi. Non riconoscerli, credere siano e stiano entro i nostri significati genera conflitto e rifiuto. Diversamente, ogni possibile equivoco muta in lezione di vita.

Udite questi dolcissimi accordi, / lasciatele presto, le favole. / L’antica folla dei vostri dei / sparisca, ormai passò. / Più nessuno vi comprende. / Più alta meta è ormai la nostra. / Perché dal cuore deve venire / quel che sui cuori vuole agire (Wolfgang Goethe, Faust)”.

Note
Testo originario del 2002: http://www.victoryproject.net/upload/articoli/1361043386.pdf

Testo riveduto nel 2017: https://gognablog.sherpa-gate.com/tofeelnottoknow-sentire-non-sapere/

I testi della Canzone pellerossa e del Faust di Goethe sono tratti da Alessandro Gogna, La parete.

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“To feel not to know” vent’anni dopo ultima modifica: 2024-01-07T04:49:00+01:00 da GognaBlog

8 pensieri su ““To feel not to know” vent’anni dopo”

  1. Caro Fabio, grazie per le risa!

    Non ho l’onore di conoscere il Lanzavecchia, ma conto di farmi illuminare da Lorenzo al più presto!

  2. Cara Grazia, il buon Lanzavecchia è tanto inferocito col Merlo che sospetto fortemente che non sia solo una mera divergenza ideologica.
     
    Per me c’è ben di piú: trattasi di una questione di vita o di morte. Quale questione? Ci ho ponderato a lungo.
    Dopo tanta riflessione, ecco che cosa mi è frullato in testa: entrambi sono alpinisti e Lorenzo perfino guida alpina, anche se lui, nella sua modestia (virtú rara!), non l’ha mai evidenziato nel GognaBlog. A questo punto mi sono domandato: è possibile che il livore lanzavecchiano abbia lontane origini alpinistiche? In gioventú Marco è forse stato abbandonato da Lorenzo in fondo a un crepaccio nella Mer de Glace? a metà del Pilone Centrale in balia degli eventi? oppure, in vetta al Monte Bianco dopo una settimana di ascensione estrema, gli è stato rifiutato un sorso d’acqua dalla borraccia?
    Soltanto il Lanzavecchia potrebbe illuminarci, ma non lo fa. Cosí noi restiamo al buio. ??? ???
     
    P.S. Marco, perdonami! Lorenzo, torna con noi!
     

  3. Questo testo mi riporta con nostalgia al corso guide, quando lo lessi per la prima volta e, visti i pochi strumenti a disposizione, non ebbi modo di assorbirlo. Per fortuna il concetto di esperienza non trasmissibile me lo sono portata dietro, grazie anche ad un amico-collega che ogni tanto me lo ricorda!

    Lorenzo non è, evidentemente, la stessa nostra volontà di partecipare soprassedendo a commenti poco costruttivi.

     

    A tal proposito, viene spontaneo chiedermi se si conoscano personalmente con Marco Lanzavecchia, visti i termini del suo commento.

  4. Anche a me piacerebbe sapere perchè Lorenzo non commenta. Ma forse, per commenti come quello di Marco mi fanno dire a quest’ultimo: perchè non ti sposti tu su altri blog?

  5. Penso che tu x cominciare non dovresti abusare del plurale e parlare a titolo personale. Tra l’altro ( e forse ricordo male ) non mi pare di ricordare un qualche tuo apporto costruttivo negli unltimi tuoi interventi

  6. Invece di continuare a pigiare i ditini sulla tastiera per sparare minchiate perché non ti trasferisci tra gli aborigeni così la finisci dibabusare della nostra pazienza? 

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