Intervista ad Alessandro Gogna

Intervista ad Alessandro Gogna
di Veronica Balocco
(pubblicata su L’Eco di Biella del 31 ottobre 2016)

Le lacrime di quel pomeriggio del maggio 1976 sono l’ultimo tatuaggio. L’ultimo ricordo rimasto impresso nella memoria, il più dolce e affettuoso di sempre. Guido Machetto e Alessandro Gogna, biellese l’uno, genovese l’altro, storici amici e compagni di cordata, sono lontani da tempo. Insieme conservano la memoria delle mille avventure condivise, la grande stagione dell’alpinismo invernale scritta a quattro mani, dall’integrale di Peuterey alla Sud delle Grandes Jorasses.

Ma da quel lontano 1973, quando la spedizione all’Annapurna ha spezzato la vita di Miller Rava e Leo Cerruti, qualcosa si è rotto. Anche Guido e Alessandro erano là, membri di una spedizione che il destino non ha voluto fortunata, e proprio là la loro amicizia si è incrinata. Restare, non restare. Dopo la tragedia gli animi si accendono, e Gogna, scegliendo con cinque compagni di tornare a casa, la vede diversamente dal compagno di sempre.

Poi, nel maggio 1976, quasi che la vita voglia dire qualcosa per loro ancora incomprensibile, Gogna e Machetto si ritrovano. «Io non facevo certo il prezioso, ma fu comunque lui a cercarmi – racconta Gogna – in fondo io e Guido eravamo stati una coppia affiatata. Avevamo condiviso tante giornate sul campo, ma anche tanti momenti passati a fantasticare sulle imprese da intraprendere. Quel giorno ci ritrovammo dopo il lungo silenzio e i dissapori nati sull’Annapurna. E fu un momento particolare. Parlammo per un pomeriggio intero, a casa mia. Poi ci mettemmo a piangere. Fu chiaro a tutti e due, in quell’istante, che avevamo perso due anni e mezzo per semplice stupidità». Sarà l’ultimo incontro, l’ultimo abbraccio.

Cresta integrale di Peuterey, tentativo di 1a inv, fine gennaio 1971: Guido Machetto e Leo Cerruti

Quasi che il cielo voglia inviare un segno. Poco più di un mese dopo Guido Machetto, consacrato poi dal tempo, ma immeritatamente non abbastanza dall’opinione pubblica, come una delle perle di diamante dell’alpinismo italiano di tutti i tempi, morirà a 39 anni sulla Tour Ronde, al Monte Bianco. E ad Alessandro, amico di sempre, antagonista dialettico, compagno lontano e vicino, non resterà altro che «una grande disperazione». E il ricordo di un indimenticabile uomo, «per nulla fievole, di forte personalità, spigoloso, difficile e non discreto. Un amico con il quale ogni attimo diventava produttivo, per idee, sogni e stimoli che sapeva regalare».

Gogna, lei dice qualcosa che si potrebbe riproporre per innumerevoli casi. I grandi alpinisti dalla difficile personalità sono una sorta di leit motiv, quasi che montagna e caratteracci debbano finire per andare costantemente di pari passo. Perché?
«In fondo questo è un concetto applicabile a molti campi umani. Pensi all’arte, alle personalità degli artisti».

Facciamoci rientrare anche l’alpinismo. Forma d’arte sui generis. Che mi dice ora?
«Ci sto. E le dico che questo binomio non si verifica solo in presenza di personalità particolarmente brave o lungimiranti, ma emerge per lo più in base all’attitudine al comando della persona in questione. Nell’alpinismo un certo carattere è sintomo della caratteristica, appartenente a molte persone, di voler assumere la leadership della situazione, disputandosela con qualcuno».

Se dovesse pensare alle caratteristiche umane che fanno di un uomo un grande alpinista, a cosa penserebbe?
«Creatività e bravura. Per essere in presenza di un campione dell’alpinismo, devono essere presenti entrambe. E lasciare il segno nel lungo periodo».

Mi faccia qualche nome.
«Nomi che possono aspirare a essere considerati i massimi fuoriclasse ce ne sono parecchi. La gente si ferma a Bonatti e Messner, ma in realtà ci sono alpinisti di altissimo livello ormai in tutto il mondo, più e meno giovani.
Vuole qualche nome? Spulci gli elenchi dei vincitori dei Piolet d’or. Da lì è possibile pescare a piene mani».

Curioso. Perché i vincitori dei Piolet d’or sono anche tra gli alpinisti meno noti al grande pubblico. Significa che i mezzi di comunicazione rispondono a criteri puramente commerciali e non divulgano qualità?
«Gli alpinisti di cui le parlo fanno cose da extraterrestri, che noi trent’anni fa non credevamo neppure possibili. E continuiamo a non capirle neppure adesso. Sono imprese che vanno oltre, novità assolute. Ovvio che vi sia uno scollamento: se gente come me non concepisce quel che questi grandi alpinisti fanno, fatica a spiegarlo e a immaginarlo, come crede possa capirlo un giornalista?».

Gianni Calcagno, Alessandro Gogna, Bruno Allemand e Guido Machetto al rientro a Courmayeur dopo il salvataggio dal Col de Peuterey, febbraio 1971

Quanto è cambiato l’alpinismo dai tempi della sua gioventù?
«Tantissimo. Sia per la caduta dei tabù, sia per l’introduzione delle nuove tecniche, grazie soprattutto all’avvento dell’arrampicata sportiva. Tutto, soprattutto in termini di difficoltà e tempi, è cambiato».

E cosa non le piace di questo nuovo alpinismo?
«L’eccessiva mediaticità. Io non sono contrario ai nuovi mezzi, per carità: li trovo utili e spesso necessari. Ma si tratta di strumenti che spesso, forse abusandone, finiscono per diventare invasivi e artificiali.

Un po’ come l’ossigeno in alta quota. Telefonare ogni sera per comunicare la propria posizione al grande pubblico alla fine può essere pericoloso. Rischia di compromettere l’autenticità dell’esperienza, che invece dovrebbe trovare nell’isolamento uno dei suoi punti di forza».

Che mi dice dello slancio ormai universale alla velocità?
«Non mi entusiasma. Snatura il senso dell’avvicinamento alla montagna: pensi ad esempio alla trasmissione “Monte Bianco”, un vero passo indietro che ha ridotto l’esperienza a una banale competizione basata sui tempi».

Lei è fortemente contrario anche all’eccessivo ricorso alle infrastrutture. All’artificialità. All’uso di impianti e strumenti non naturali nel rapporto con l’alta quota. Si sente un don Chisciotte?
«Decisamente. Certo non sono io a poter cambiare il mondo, ma spesso mi sento molto deluso del fatto che si continui a percorrere una strada tanto pacchiana. E non ho a cuore solo l’alpinismo d’élite, ma anche quello della gente normale».

Ha preso di mira anche l’eliski. Perché?
«Perché l’uso dell’elicottero falsa totalmente l’esperienza.
Certo, so bene, come mi viene spesso controbattuto, che non si tratta del problema più importante del mondo. Ma credo sia nostro dovere pensarci.

E non accetto chi mi dice che il vero pericolo è rappresentato dai Suv e dai tanti mezzi che inquinano il mondo, che “c’è ben altro” cui pensare. Il “benaltrismo” mi manda letteralmente in bestia».

Ma l’eliski ha effetti anche positivi, in termini economici, sui territori in cui è praticato.
«Forse per le compagnie di elicotteri. E per le guide alpine, categoria nella quale rientro anche io. Ma la guida alpina detiene un ruolo anche morale: è toccata sì dalla questione economica, ma per definizione dovrebbe ergersi al di sopra di questa dimensione, diventando rappresentante della montagna e dei suoi valori. Se però un professionista di questo genere finisce per fare il taxista, trasportando clienti in elicottero, significa che è finita. Per lui e per la categoria».

Le foto di turisti sprovveduti, non equipaggiati, in tenuta marittima, che vagano sereni per i ghiacciai del Monte Bianco e del Rosa sono diventate un caso rimbalzato su tutti i social network. Le ha viste?
«Sì, sono le immagini che raccontano il dramma provocato da impianti come lo Skyway. Un tema sul quale sono già intervenuto in passato, cercando di non infierire ma spiegano che le opere faraoniche non fanno bene alla montagna. In fondo, dove sta scritto che mille persone al giorno debbano raggiungere Punta Helbronner?».

Eppure, inaspettatamente, la risposta del pubblico davanti ai dibattiti suscitati da quelle foto è stata di grande buon senso. I sondaggi dicono che la gente non vuole regole e divieti, ma maggior cultura. Come esaudire la richiesta?
«Io ci provo. Ci proviamo in tanti, ognuno con la propria visione delle cose. I grandi siti di informazione alpinistica, e ne ho in mente in particolare due, dovrebbero capire che, accanto alla notizia, è sempre più necessario fare anche approfondimento. Ecco da dove può nascere una certa cultura».

Entrare nelle scuole può servire?
«Io, e molti altri, lo abbiamo già fatto. È bello e appagante, ma non è sufficiente. La scuola e la famiglia oggi sono strette come in una stretta mortale dal discorso della sicurezza: un approccio gravissimo, con effetti nefasti sull’educazione dei piccoli, perché alla fine impedisce la maturazione, lo sviluppo della capacità di prendere decisioni autonome. Oggi, se succede qualcosa, qualcuno paga, l’assicurazione interviene, c’è sempre chi prende la colpa: un meccanismo infernale che compromette la possibilità di fare davvero cultura».

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Intervista ad Alessandro Gogna ultima modifica: 2017-03-22T05:34:46+01:00 da GognaBlog

8 pensieri su “Intervista ad Alessandro Gogna”

  1. @Alberto Benassi
    Nel sistema ( socio-economico-politico ) purtroppo non è tanto l’OFFERTA ( di infrastrutture turistiche che addomesticano la montagna, ecc..da parte di enti locali pubblici e/o privati ) a inseguire la “DOMANDA”, ma la domanda stessa ad essere influenzata, indirizzata e in un certo senso plagiata dal tipo di offerta…attraverso il condizionamento socio culturale promosso attraverso i media ecc proprio dal potere capillare che detiene le redini delle offerte ( turistiche ) funzionali.. al guadagno? No, al lucro senza scrupoli nella gran parte dei casi purtroppo.

  2. Concordo con il rifiuto del “benaltrismo” relativo a problemi oggettivi che vogliono essere ignorati, o peggio, elusi.

  3. @ Alessandro.
    purtroppo cedere e fare il primo passo, anche nei confronti di un amico, è dura. E più passa il tempo e più si consolidano le distanze e le incomprensioni.
    Bisognerebbe avere la forza (o la debolezza) di fare il primo passo.
    @ Antonella.
    non è solamente una ragione economica. C’è anche da dire che oggi abbiamo tutto (o almeno ci sembra…) e non sappiamo più come divertirci. Allora bisogna inventare le più grandi bischerate che , purtroppo, hanno poi dei risultati molto negativi su quello che ci circonda. Ma anche su noi stessi anche se non ce ne rendiamo conto.

  4. Caro Giorgio:

    La stupidità riguarda la vicenda umana di due amici che per “egoica” stupidità si sono ritrovati a vivere due anni e mezzo lontani l’uno dall’altro.
    La stretta mortale è la condizione nella quale si trovano oggi società e scuola, soffocate letteralmente dall’ossessione della sicurezza.

  5. Buongiorno Alessandro,

    due domande:

    1. «Fu chiaro a tutti e due, in quell’istante, che avevamo perso due anni e mezzo per semplice stupidità».

    Quale fu la “stupidità” ?

    2. Nella tua ultima risposta: in che senso dici “stretta mortale” (il senso generale mi è ovviamente chiaro)?

    Grazie Guerriero,
    un abbraccio
    giorgio

  6. La spettacolarizzazione della montagna, l’abuso di infrastrutture artificiali per renderne possibile l’accesso anche ai più sprovveduti ( sia in senso fisico che mentale ) , da ultimi gli “stadi” in alta quota e feste varie con musica assordante e andirivieni di auto persino ai rifugi alpini gestiti dagli stessi CAI …Pare proprio che il Dio danaro e profitti non conosca più limiti nel profanare la purezza di ambienti che avrebbero dovuto rimanere tali, e incontaminati ( e non solo per una questione di principio etico..) Purtroppo la legge dell’ offerta e della domanda sono reciprocamente interdipendenti. È naturale che più la pubblicità di enti locali ecc e la creazione di infrastrutture ed eventi x ” batter cassa” promettendo facili avventure fa presa su un sempre maggior numero di gente …aumenta la domanda..e il circolo vizioso si consolida e cresce nello spazio e nel tempo. Che tristezza. Per fortuna qualche angolo inespugnato perché non funzionale a tutto ciò in montagna esiste ancora !!!

  7. Condivido quasi tutto.
    In particolare l’affermazione “Oggi, se succede qualcosa, qualcuno paga, l’assicurazione interviene, c’è sempre chi prende la colpa: un meccanismo infernale che compromette la possibilità di fare davvero cultura” è assolutamente vera!
    La gestione del rischio, la capacità di affrontarlo in giusta misura, senza eccessi, è fondamentale per la crescita delle nuove e vecchie generazioni.
    Bisogna continuare, nelle scuole e fuori, a insegnare (più con l’esempio che con le parole) come portare a casa la pelle pur vivendo l’indispensabile avventura!
    E questo sottintende una quota di incertezza sull’esito.

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