Italiani nel Bianco e nel Rosa

Italiani nel Bianco e nel Rosa
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-16)

L’intensa attività dei Sella
II primo nucleo di alpinisti italiani si era dunque venuto a formare soprattutto in Piemonte, a seguito della fondazione del Club Alpino Italiano. Abbiamo visto che i rappresentanti di questa prima schiera, anche se non raggiunsero i livelli degli inglesi più famosi, tuttavia produssero un’attività assai fitta e di valore in tutte le valli piemontesi, concedendosi anche delle «sortite» più audaci verso il Bianco, il Cervino, e il Rosa. Abbiamo anche osservato che la levatura sociale di questi alpinisti li poneva decisamente tra i ranghi dell’aristocrazia piemontese: è naturale che il loro alpinismo fosse di stampo prettamente classico. Comunque l’esempio di Mummery anche in Italia ebbe i suoi effetti, infatti non furono pochi coloro che vollero cimentarsi con la nuova avventura dell’alpinismo senza guide. Vi è poi da aggiungere che la passione alpinistica, per ovvi motivi di espansione, dilagava anche verso strati sociali meno abbienti, dove l’alpinismo senza guide, meno dispendioso e più gratificante sul piano individuale, poteva avere migliore fortuna.

Il versante nord del Dente del Gigante

Tra i «classici» che seppero però elevare il tono dell’alpinista italiano di quell’epoca, dobbiamo annoverare la lunga schiera di figli, nipoti e cugini di Quintino Sella. In famiglia pare che l’alpinismo fosse quasi un obbligo, comunque lo statista ne andava assai fiero e soleva dire che «nelle montagne troverete il coraggio per sfidare i pericoli, ma vi imparerete pure la prudenza onde superarli con incolumità. Uomini impavidi vi farete, il che non vuole dire imprudenti ed imprevidenti. Ha un gran valore un uomo che sa esporre la propria vita, e pure esponendola sa circondarsi di tutte le ragionevoli cautele». Anche se il tono è un po’ enfatico e paternalistico, in fin dei conti vi è pur qualcosa di vero in queste parole.

Che dire dunque dei Sella? La loro attività fu decisamente intensa e fu soprattutto caratterizzata da un’accurata ricerca dell’alpinismo invernale, sulla scia dell’impresa di Martelli, Vaccarone e Castagneri all’Uia di Mondrone, di cui già si è detto.

L’impresa che li rese più famosi, comunque, è la prima salita del Dente del Gigante, avvenuta il 29 luglio 1882. Sappiamo che in precedenza già Mummery e Burgener avevano tentato, ma si erano arrestati sotto la gran placca insuperabile senza ricorrere a mezzi artificiali. Invece i Sella, desiderosi forse di vincere ad ogni costo una guglia così ardita e significativa, assoldarono Jean-Joseph, Baptiste e Daniel Maquignaz (guide di Valtournanche) affinchè trovassero una via di salita. Via di salita che infatti fu trovata lungo la gran placca e oltre, ma ricorrendo a mezzi artificiali che lasciarono adito a molte discussioni. Qualcuno disse che un gruppo di muratori e di carpentieri avrebbe forse svolto un lavoro migliore e più rapido, infatti durante la prima salita fu impiegata una pertica, si ricorse all’uso di molti chiodi e furono anche ricavati degli appoggi con il martello e lo scalpello. La stessa polemica sorgerà più tardi per la prima salita del Grand Capucin.

Invece da altri ambienti più patriottici e nazionalisti l’impresa fu esaltata come supremo atto di coraggio e di bravura. Senza voler esprimere alcun giudizio, ci pare che i Maquignaz durante la loro prestigiosa carriera abbiano realizzato imprese ben superiori, anche se meno spettacolari. Forse a quel tempo il Dente del Gigante era scalabile solo in quello stile poco pulito, almeno da quel versante, poiché solo nel 1900 fu realizzata la prima scalata in arrampicata libera dal versante nord da Thomas Maischberger, Heinrich Pfannl e Franz Zimmer, lungo la parete che già Mummery aveva indicato come la sola possibile «by fair means».

Vi è comunque da dire una cosa importante: di fronte ad alcuni problemi che essi reputavano irrisolvibili senza ricorrere a mezzi artificiali, i grandi inglesi seppero sempre ritirarsi con grande rispetto ed eleganza, lasciando eventualmente alle generazioni più preparate la soluzione futura. Così fu al Dente, alla cresta des Hirondelles e molte altre volte. Non piace invece ed è assai poco «fine» il «lavoro» in parete dei Maquignaz, della durata di quattro giorni. Un lavoro che ricorda assai da vicino lo spirito di certe scalate artificiali dei giorni nostri, dove conta soprattutto vincere ad ogni costo. Più volte si è detto (ed è vero) che la rinuncia è più difficile della riuscita. Sta il fatto che probabilmente pochi decenni dopo, la gran placca avrebbe potuto essere superata in arrampicata libera, con alcuni chiodi di assicurazione. Comunque, a scanso di ogni moralismo e proprio per difesa della libertà, che in montagna resta il bene più prezioso per l’individuo, si è soltanto espresso un giudizio di valore estetico e non etico. Come vedremo, un buon esempio ci giunge dall’alpinismo californiano e dalle pareti granitiche del Yosemite. Chiunque qui è libero di aprire itinerari in arrampicata artificiale della durata di settimane dove e come crede e con quanti mezzi artificiali vuole; piuttosto, dopo vi sarà chi cercherà di ripetere la stessa impresa o con meno chiodi oppure addirittura in arrampicata libera. Così si salva l’avventura. Ciò che dispiace in merito al Dente del Gigante, non è tanto la prima salita, che in fin dei conti anche se fosse stata realizzata con una serie di scale di legno non avrebbe scandalizzato una mente aperta ed intelligente, la quale avrebbe dato il suo plauso a chi poi ne avesse effettuato la salita in stile pulito, ma l’installazione di corde fisse su tutta la via che fu fatta in seguito, corde che praticamente non permettono di realizzare in arrampicata pulita una salita che potrebbe essere veramente di gran classe se privata di ogni ausilio artificiale.

Comunque ciò non toglie nulla al valore dei Maquignaz, i quali sicuramente agirono in assoluta buona fede e realizzarono, sul piano più tipicamente sportivo e atletico, un’impresa di indiscusso valore. D’altronde, come sempre, bisogna inserirsi nello spirito assai competitivo del momento e bisogna tener conto di cosa potesse rappresentare la vittoria su una cuspide come il Dente del Gigante, praticamente l’ultima vetta del Bianco a non essere ancora stata scalata. E poi vi era anche tutto un orgoglio di passare dove «l’inglese» (leggi Mummery) aveva rinunciato. Tuttavia i sistemi impiegati diedero proprio ragione all’inglese.

Ritornando ai Sella, di essi e della loro attività, Massimo Mila dice: «Questi Sella furono tutti, chi più chi meno, formidabili specialisti dell’alpinismo invernale. Questa particolare forma, iniziata, come s’è visto, da Martelli e Vaccarone con la loro coraggiosa salita all’Uia di Mondrone il 24 dicembre 1874, da loro stessi perfezionata con salite di maggior levatura, diventò ben presto il campo preferito degli alpinisti piemontesi negli ultimi vent’anni dell’Ottocento, e qui davvero essi conseguirono risultati che li ponevano in evidenza nelle prime file dell’alpinismo mondiale, con ascensioni che ancora oggi impongono il massimo rispetto. Il fatto è che nell’alpinismo invernale i nostri erano finalmente avvantaggiati dal fattore campo. Gli inglesi d’inverno se ne stavano a casa loro, e anche se ci fosse stato qualche riccone disposto a intraprendere nelle Alpi ascensioni invernali, non essendo del posto non poteva conoscere tempestivamente tutti quegli imponderabili, compendiati sotto la formula di “condizioni della montagna”, dal cui insieme dipende per la massima parte il successo delle imprese invernali (Massimo Mila, Cento anni di alpinismo italiano)».

Se vogliamo dare uno sguardo ai dati più concreti, troviamo imprese come la prima traversata invernale del Cervino (17 marzo 1882, Vittorio Sella e tre guide), la prima della Punta Dufour al Monte Rosa (26 gennaio 1884) sempre realizzata da Vittorio Sella con due Maquignaz, la prima del Gran Paradiso (2 marzo 1885, Vittorio Sella, l’inglese Aitken e due Maquignaz) e la prima del Lyskamm sempre nello stesso anno. Comunque i meriti di Vittorio Sella vanno ben oltre le già prestigiose realizzazioni invernali: egli è infatti considerato come il più grande fotografo di montagna che sia mai esistito. Le sue vedute alpine ed extraeuropee, tutte riprese con una gigantesca macchina a lastra di peso facilmente intuibile, sono veramente dei capolavori fotografici ed hanno creato uno stile di ripresa che probabilmente è solo stato imitato ma non superato.

Notevole anche l’impresa invernale del 1888, portata a termine da Corradino e Gaudenzio Sella: la traversata del Bianco da Courmayeur a Chamonix con salita lungo la via dei Rochers. Un’impresa veramente d’eccezione che può benissimo reggere il confronto con le realizzazioni invernali dei giorni nostri, con la « piccola » differenza data dalla diversità di equipaggiamento e attrezzatura disponibili!

Nel gruppo dei piemontesi di questo periodo possiamo ancora ricordare Giuseppe Corrà, poco conosciuto, ma alpinista di indiscusso valore, uno dei primi ad inoltrarsi nel filone dei «senza guida», pur rimanendo ancora per molti versi inserito nel settore dei «classici». Differente l’attività svolta invece da Giovanni Bobba, volta soprattutto alla conoscenza geografica e praticata nel rispetto della tradizione, al fianco della guida Casimir Thérisod di Rhêmes-Notre-Dame. Conoscenza geografica che seppe mettere a frutto in maniera magistrale, realizzando con Martelli e Vaccarone la Guida delle Alpi Occidentali, dei cui pregi già si è detto parlando di Vaccarone.

Luigi Amedeo di Savoia, il principe alpinista
«Quando quella voce chiama, si può anche essere principi: bisogna andare. Agiatezze, lussi, privilegi, prospettive allettanti per i mediocri non riescono a corrompere ed a rammollire. La voce dell’ideale insoddisfatto li tormenta e non li abbandona più. Sono gli eletti. Devono andare là dove c’è un mistero da chiarire, dove c’è una difficoltà da superare, una possibilità di soddisfare per un momento la sete di conoscenza e di gloria (Armando Biancardi, Scandere, CAI Torino, 1963)».

In una sua brillante trattazione sull’alpinismo piemontese, in occasione del centenario della sezione del CAI di Torino, così l’alpinista e scrittore Armando Biancardi introduce il discorso sul Duca degli Abruzzi (il principe Luigi Amedeo di Savoia). Anche se il tono è un po’ troppo retorico e presta il fianco a delle critiche (per la nobiltà dell’epoca elevarsi e distinguersi era quasi un dovere!), tuttavia la figura del Duca degli Abruzzi fa storia a sé. A prescindere da ogni sua discendenza titolata, era un uomo veramente posseduto dal «demone» dell’avventura e dal fascino dell’ignoto. Lo dimostra non solo la sua attività alpinistica di primissimo piano, che ben presto lo portò a sconfinare sui monti lontani dell’Asia, dell’Africa e dell’America, ma anche i suoi numerosi viaggi di esplorazione, tra i quali naturalmente spicca la spedizione all’Artide, dove egli dopo quarantun giorni di marcia toccò la più alta latitudine fino ad allora raggiunta.

Ad avvicinarlo all’alpinismo era stato Francesco Gonella (1856-1933), che fu poi anche presidente della Sezione di Torino del Club Alpino Italiano. Il Gonella, anche se non era alpinista della forza di un Mummery, aveva svolto un’attività fitta ed intensa su gran parte della catena alpina, dove era riuscito a cogliere alcuni successi di prestigio, come la prima ascensione delle Aiguilles des Glaciers (2 agosto 1878) e la prima salita della bella parete nord della Tour Ronde (1886), che diverrà poi una delle salite di ghiaccio più classiche e frequentate delle Alpi.

Fu proprio al Gonella, comunque, che toccò il compito di avviare ed istruire all’alpinismo il principe. Dopo un paio d’anni di apprendistato dal 1882 al 1884, i risultati di valore non tardarono, poiché Luigi Amedeo si dimostrò dotato in tutti i sensi, sia fisicamente sia moralmente. Sono del 1884 imprese di polso come la traversata degli Charmoz, il Petit Dru, la traversata del Grépon ed altre salite, realizzate sia con Gonella sia sotto la guida del grande Émile Rey o in compagnia dei più bei nomi dell’alpinismo dell’epoca, come Güssfeldt e come Mummery, col quale percorse la cresta di Zmutt al Cervino, che l’inglese aveva salito in prima ascensione con Burgener.

Ma le Alpi non bastavano più. Il desiderio di scoperta e d’avventura del Duca degli Abruzzi lo portarono ben presto ad essere il vero precursore dell’alpinismo extraeuropeo e a realizzare imprese che a lungo rimarranno insuperate. Nell’estate del 1897 conquista il Monte Sant’Elia (Alaska), col fido Gonella e con Umberto Cagni, Vittorio Sella e Filippo De Filippi. Guide furono Joseph Petigax, Laurent Croux, Antonio Maquignaz ed Andrea Pellissier.

Subito dopo è la volta della spedizione al Polo Nord, di cui si è già detto. Ormai la capacità alpinistica del Duca aveva raggiunto livelli di fama internazionale ed egli era lanciato verso imprese in cui Gonella non poteva più seguirlo. È il momento delle realizzazioni più prestigiose sulle Alpi: la salita (1898) all’Aiguille Verte per la vergine Aiguille Sans Nom, la prima salita (1901) della terza punta delle Grandes Jorasses (detta poi Punta Margherita) e la prima salita della più meridionale delle Dames Anglaises, le bizzarre ed ardite torri rocciose che si elevano tra l’Aiguille Noire de Peutérey ed il Picco Gugliermina.

Ma il fascino dell’avventura extraeuropea lo richiama ancora verso i monti dell’Africa: nel 1906, durante una spedizione al Ruwenzori, conquista tutte le cime principali del massiccio. Poi nel 1909 è in Karakorum, dove porta un deciso tentativo al K2, uno degli ottomila più belli e difficili, salendo per un buon tratto lungo lo sperone che poi sarà scelto dalla spedizione italiana molti anni più tardi durante la sua salita vittoriosa.

Va ricordato che durante questa spedizione fu raggiunto sui fianchi del Bride Peak un record assoluto di altezza: la quota di 7500 metri, un primato che rimase imbattuto fino al 1922, anno della spedizione inglese all’Everest.

La nascita dell’alpinismo senza guida in Italia e sulle Alpi Occidentali
L’ambiente alpinistico torinese, lo si è già detto, era tradizionalista, conservatore e piuttosto aristocratico. È quindi facile immaginare la sua reazione, quando si accorse che stava sorgendo il fenomeno dell’alpinismo senza guide: diffidenza, disapprovazione e critiche. La sorte inevitabile di ogni movimento rivoluzionario e progressista. Semplicemente il movimento non fu compreso: i senza guide non volevano né attuare una ribellione né tanto meno schierarsi contro le guide. Semplicemente in quel tipo d’alpinismo cercavano e scoprivano un’attività più libera e meno dipendente, un modo più avventuroso di realizzare le proprie aspirazioni personali, stimolati forse da un pizzico di sentimento anarchico che sempre nasce negli ambienti giovanili quando vengono a contatto con una tradizione rigorosa, seria e conservatrice. E poi, come ebbe a dire Canzio, «c’era anche la questione pecuniaria; la pratica dell’alpinismo con guida rappresentava una spesa non indifferente, per lo più esorbitante le forze finanziarie consuete d’un giovinetto; e quante valorose energie latenti andarono senza dubbio perdute, soltanto perché mancavano loro i mezzi per manifestarsi!». Se si pensa all’epoca in cui fu scritto, il discorso ha un tono quasi rivoluzionario e si può ben comprendere il generale fastidio suscitato dalle imprese dei senza guida torinesi, definiti il più delle volte degli «esibizionisti»! Ma ormai i giovani avevano compreso attraverso l’esempio di Mummery, dei Zsigmondy e di Purtscheller, che i tempi erano maturi per lanciarsi in avventure individuali di cordate composte da cittadini. Infatti sono proprio due cordate affiatatissime che passano dall’idea all’azione: quella di Cesare Fiorio e Carlo Ratti e l’altra di Ettore Canzio, Felice Mondini e Nicola Vigna. I successi di queste due cordate sono innumerevoli e diedero un duro colpo ai tradizionalisti. Metodica fu l’esplorazione delle valli torinesi, dove si andò alla ricerca di vie eleganti e difficili. Ma anche sulla «grande» montagna seppero farsi valere: di Fiorio, Canzio e Vigna è la prima italiana del Cervino senza guide, la terza realizzata in questo stile dopo i precedenti illustri di Mummery e dei Zsigmondy.

Ormai era stata aperta la strada ai successori che, liberi da forti inibizioni iniziali, potranno agire con più coscienza e con maggior serenità.

È dunque il tempo in cui si affacciano alla ribalta i fratelli Gugliermina, le cui imprese sulle Alpi Occidentali portarono l’alpinismo italiano ad un livello di assoluta supremazia.

Giuseppe e Giovan Battista Gugliermina: due tra i massimi esponenti dell’alpinismo senza guida
Parlare delle imprese dei Gugliermina è come parlare delle imprese di Mummery, dei Lochmatter e di Young. Questi uomini, senza alcun appoggio artificiale seppero esprimere il meglio dell’alpinismo classico prima del conflitto bellico. Dopo, l’avvento dei mezzi artificiali permetterà sicuramente realizzazioni superiori dal punto di vista delle difficoltà, ma in uno stile differente. Valsesiani, i Gugliermina naturalmente svolsero la loro prima attività alpinistica sul Monte Rosa, dove già il «tono» delle loro imprese esprimeva appieno il carattere del loro alpinismo: prima traversata del Colle Sesia (dal 15 al 17 agosto 1898), prima ascensione della cresta sud est del Colle delle Locce e prima ascensione del Colle Vincent da Alagna. Furono imprese che li portarono alla maturità e concessero loro di avvicinarsi al più severo massiccio del Bianco con esperienza, tranquillità e preparazione. E fu il Bianco ad essere teatro delle loro imprese d’eccezione. Va precisato che i Gugliermina furono essenzialmente dei senza guida, anzi di questa corrente furono tra i massimi esponenti, anche se in alcune loro salite a volte si accompagnarono a qualche guida o a qualche portatore. Piuttosto tra i cittadini i compagni più assidui delle loro imprese furono, nel primo periodo, Lampugnani, eccellente alpinista e non meno apprezzato storico d’alpinismo, e nel secondo periodo il formidabile Francesco Ravelli, certamente una delle più belle figure di tutta la storia dell’alpinismo, forse poco conosciuto per la sua proverbiale modestia, ma degno di stare al fianco di un Young.

I primi cimenti col Bianco sono subito combattuti sul versante più ostico e severo, quello meridionale, che ben si prestava al carattere agguerrito del loro alpinismo tutto « occidentale ». Del 1899 è la prima traversata del difficile e pericoloso Colle Émile Rey, poi del 1901 (18-20 luglio) è la salita del Picco Luigi Amedeo, che si eleva solitario in uno degli angoli più isolati e selvaggi di tutto il Bianco.

Se si pensa all’attrezzatura dei giorni nostri e la si paragona a quella dell’epoca, vien quasi da sorridere: giacche di piumino e sacchi da bivacco erano cose sconosciute. Per il freddo bastavano a volte una coperta, altre volte quando l’impegno della salita era grande e bisognava essere leggeri, allora si suppliva con i fogli de La Stampa e del Corriere della Sera messi sotto il giaccone…! La forza di queste imprese e di questi uomini era il grandissimo «morale» e una resistenza fisica quasi leggendaria, dovuta ad un allenamento tenace e costante che ne aveva fatto camminatori instancabili.

Eppure erano anche uomini prudenti nell’azione: in tutta la lunga carriera alpinistica dei Gugliermina non vi fu un solo incidente.

Nel 1904 con Canzio e Lampugnani realizzano forse l’impresa più bella e difficile di tutta la loro carriera: la prima salita dell’Aiguille Verte dal versante di Nant Blanc, ascensione straordinaria, lungo un versante glaciale ripidissimo ed assai esposto alle scariche di sassi.

Anche oggi le salite di questo tipo sono accuratamente «evitate» anche dagli alpinisti più esperti: la via Gugliermina alla Verte probabilmente è stata ripetuta una volta sola!

L’incontro con Francesco Ravelli, avvenuto prima del conflitto mondiale, apporta alla cordata modernità, larghezza di vedute ed anche un lucido e misurato coraggio che non teme a priori alcun problema alpinistico. Infatti il 23 e 24 agosto 1914 insieme ripercorrono la lunga e difficile cresta di Peutérey al Bianco, realizzando anche «en passant» la prima ascensione di quel magnifico picco roccioso che si alza imponente prima dell’Aiguille Bianche de Peutérey, che in seguito verrà chiamato appunto Picco Gugliermina. Dovremmo anche parlare dell’esplorazione di tutta la cresta dell’Innominata e del successo, mancato per un soffio, proprio su questo versante del Bianco, ma di queste imprese parleremo più diffusamente in seguito nel periodo compreso tra le due guerre.

1904: nasce il Club Alpino Accademico Italiano
«Non fu una ribellione dell’alpinista al montanaro: fu un lento scivolare fuori di tutela; conviene dire che nessun tutore fu mai così garbato, servizievole, accomodante come lo fu in generale la Guida: sentì la passione che animava il suo giovane compagno e, mentre se ne faceva il maestro, seppe tenersi in una prudente penombra, quanto era necessario per non disturbare nell’allievo quell’impressione di intimo compiacimento per la vittoria che costituiva il più valido incitamento alla novella energia che spingeva l’uomo alla montagna. Per questa opera magnifica e qualche volta oscuramente eroica che la Guida ha compiuto dai primi tempi dell’alpinismo fino ad oggi, vada ad essa da queste pagine in cui si ricorda e si spiega il commiato che noi ne prendemmo, l’espressione della nostra riconoscente ammirazione ed il nostro commosso saluto (Ettore Canzio, Annuario dell’Accademico, 1922-23)».

Le parole di Canzio che, come abbiamo visto, fu uno dei primi senza guida, lasciano bene comprendere lo stato d’animo di chi freme dal desiderio di avventurarsi nello sconosciuto, ma nello stesso tempo prova un certo dispiacere nell’abbandonare ciò che conosce. Eppure l’alpinismo senza guida permetteva di ideare una salita, di studiarla a fondo e poi di realizzarla di per sé, con le sole proprie forze, senza l’aiuto di una guida che magari la stessa salita aveva già percorso altre volte. Si sa che quando ci si ritrova in pochi e si è criticati e combattuti, si cerca sempre l’unione in quanto ci si sente più forti ed agguerriti. A Torino quel piccolo gruppo di senza guida voleva darsi un aspetto ufficiale, voleva essere accettato e considerato, voleva avere una sede in cui discutere, ritrovarsi, progettare salite, voleva redigere una serie di pubblicazioni che fossero utili soprattutto a chi in montagna ci andava senza guida e voleva anche e soprattutto creare una specie di scuola d’alpinismo in cui potessero ritrovarsi i giovani in un numero sempre maggiore.

Così il 26 maggio 1904, a Torino, fu fondato il Club Alpino Accademico Italiano, da uno sparuto gruppo di 16 alpinisti che in quel momento rappresentavano, per la loro attività nel campo dell’alpinismo senza guide, i migliori elementi in Italia: Ettore Allegra, Lorenzo Bozano, Ettore Canzio, Giovanni Battista Gugliermina, Giuseppe Gugliermina, Felice Mondini, Emilio Questa, Ubaldo Valbusa, Adolfo Kind, Adolfo Hess, Alberto Weber, Mario Ceradini, Teodoro Dietz, Hans Ellensohn, Alfredo von Radio-Radis e Ernesto Martiny.

Nell’articolo 1 dello statuto si legge: «II CAAI si propone di coltivare e diffondere l’esercizio dell’alpinismo senza guide, affiatare i soci tra di loro, unirne l’esperienza, le cognizioni ed i consigli per formare la sicura coscienza e l’abilità indispensabili a chi percorre i monti senza l’aiuto di guide». Gli intenti erano dunque ottimi, ma purtroppo a lungo andare e nei decenni successivi l’Accademico non seppe mantener fede a questi intenti più che onorevoli e a poco a poco divenne uno sterile «club di élite», piuttosto improduttivo, scavalcato nelle sue funzioni dal sorgere di numerose e attive scuole d’alpinismo.

Comunque nell’Accademico si doveva fare soltanto dell’alpinismo e per esservi ammessi si doveva dimostrare di averne già fatto molto e di avere quindi una sufficiente preparazione, non solo ma di averlo praticato in modo tale da dare sicuro affidamento che non lo si era fatto come passeggera esibizione di un tributo pagato alla moda, ma di un fermo proposito tenacemente radicato di continuare tale attività (n.d.a.: ahimè, quanti soci dell’Accademico appena ottenuto il riconoscimento e la famosa «patacca» hanno troncato la loro attività alpinistica!). A tale scopo in un primo tempo si era creata una categoria di soci aggregati, i quali avrebbero dovuto dar prova della raggiunta preparazione per passare nelle file dei soci effettivi: ma in pratica la relativa attuazione si era rivelata difficile, cosicché si preferì sopprimere definitivamente tale categoria.

In quella dei soci onorari venivano nominati Cesare Fiorio e Carlo Ratti, che erano stati in Italia gli antesignani dell’alpinismo senza guide e che non solo avevano esplicato in tale campo un’intensa attività, ma avevano collaborato culturalmente anche con un poderoso articolo sui «Pericoli dell’alpinismo»… articolo che per oltre 25 anni costituì il fedele breviario di coloro che volevano dedicarsi all’alpinismo.

L’affermarsi dell’Accademico suscitò vivaci opposizioni non soltanto da parte di chi, praticando l’alpinismo con guide, logicamente era rimasto fuori dall’ambiente, ma anche da parte di persone socialmente di rango elevato: come quando nel 1907 su uno dei più diffusi quotidiani italiani apparve un articolo di un noto professore universitario che ascriveva all’andar senza guide la maggior parte addirittura delle disgrazie alpinistiche: eppure l’autore aveva avuto campo di conoscere un giovane alpinista che in compagnia di due fra le migliori guide allora note, presi dal maltempo durante la salita al Monte Bianco da Courmayeur, erano spariti e non se ne ebbe più notizia (Bartolomeo Figari, II Club Alpino Accademico Italiano, in «I cento anni del Club Alpino Italiano»).

Comunque fino alla Prima guerra mondiale la supremazia delle guide sarà indiscussa, anche perché è proprio in questo periodo che esse riescono a dare il meglio di loro stesse sia sulle Alpi Occidentali, che, come vedremo, nelle Dolomiti. Dopo, questo magnifico spirito di iniziativa non sempre sarà mantenuto, anche se non mancheranno i casi isolati, come Armand Charlet e più recentemente Arturo Ottoz di Courmayeur. Ma il futuro era tutto per l’alpinismo senza guide, per molti motivi che già nell’introduzione sono stati chiariti. Situazioni sociali in evoluzione, avvento del lavoro industriale con relativa ricerca di differenziazione, autostima e personalizzazione. A poco a poco l’alpinismo diviene lo sport e l’attività preferita dagli studenti e dai rappresentanti del ceto medio. Più avanti, con l’avvento del fascismo in Italia, sarà lo sport delle classi meno abbienti e soprattutto degli operai, naturalmente seguito e visto di buon occhio dal regime che poteva sfruttare il valore delle imprese a fini di propaganda nazionalista. La stessa cosa evidentemente accadde in Germania con l’avvento del nazional-socialismo hitleriano.

È il momento in cui gli inglesi escono di scena. Invece vi entrano prepotentemente gli italiani, austriaci e tedeschi, con risvolti nazionalistici poco simpatici, che sovente, soprattutto sulle Dolomiti, li porteranno ad essere in polemica ed in competizione.

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Italiani nel Bianco e nel Rosa ultima modifica: 2023-06-13T05:17:00+02:00 da GognaBlog

3 pensieri su “Italiani nel Bianco e nel Rosa”

  1. Bellissimo articolo a ricordo dell’epopea dei Sella. Molto ben fatto e preciso nei dettagli anche per il paragrafo sui Fratelli Gugliermina, una gloriosa famiglia di alpinisti di cui sono orgoglioso di fare parte (Giovanni Battista Gugliermina era mio bisnonno). Anche i Gugliermina, come i Sella, erano grandi fotografi, ma non fecero mai di questa loro attività un mestiere; e così è davvero raro imbattersi nelle loro splendide fotografie. Esiste tra l’altro un intenso rapporto epistolare tra i Gugliermina e Vittorio Sella, proprio sulla tecnica di ripresa e stampa delle fotografie di montagna.

  2. Segnalo agli interessati che in uno degli ultimi programma viaggi “Overland” di Filippo Tenti si possono vedere alcuni scatti di Sella in Caucaso del 1915 circa. Meritevoli!

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