Jim Reynolds
di Sara Sottocornola
(pubblicato su Uomini e Sport n. 31, ottobre 2019)
“Le montagne non mettono in pericolo la tua vita, ti danno la vita“. Così parla dell’alpinismo Jim Reynolds, classe 1993, climber californiano che lo scorso anno ha stupito il mondo con la sua salita in free solo della via Afanassief del Fitz Roy 3405 m in Patagonia. Il suo rispetto e la sua gioia nel vivere la montagna, uniti all’esperienza maturata sulle pareti dello Yosemite, gli hanno permesso di compiere salite straordinarie non per ambizione o per soddisfare qualche sponsor, ma semplicemente perché sapeva di poterlo fare. Laureato in economia, guida escursionistica e poi membro effettivo dello YOSAR, il soccorso alpino della Yosemite Valley, Reynolds è stato ospite il 18 luglio 2019 per il ciclo “A tu per tu con i grandi dello Sport” di DF Sport Specialist, dove lo abbiamo incontrato per farci raccontare, in questa intervista esclusiva, com’è diventato uno dei climber più ammirati del mondo a soli 26 anni.

Jim, com’è nata la tua passione per l’arrampicata?
Vengo da Weaverville, una piccola città di montagna nel Nord della California, e sono cresciuto esplorando boschi, facendo trekking e guadando fiumi. Le mie scalate sono diventate sempre più verticali, poi è arrivato il desiderio di toccare le cime e di essere più veloce. Tutto è arrivato per gradi, in modo naturale. Quando ho scoperto lo Yosemite, mi sono innamorato del posto e sono tornato stagione dopo stagione, mese dopo mese, finché ho trovato lavoro lì.
Hai praticato molti sport: cosa ti dà in più l’arrampicata?
Scalando conosci meglio il tuo corpo e anche la tua parte inferiore. Devi compiere movimenti consci, intenzionali e non solo camminare in modo automatico o casuale. Ti porta a conoscere meglio il tuo corpo e le tue reazioni. Impari a prenderti cura anche della mente, perché tutto ciò che fai deve avere un senso. È una specie di arte, che combina la capacità umana con lo splendore della natura, dandoti la possibilità di riempire la tua “coppa della gioia”, per poi distribuirla al resto del mondo.
Nell’ottobre 2017 hai compiuto a El Capitan con Brad Gobright il record di velocità al Nose, salendo in 2 ore e 19 minuti. Come ci sei arrivato?
È stato il traguardo di un lungo percorso. Salire il Nose è desiderio di ogni alpinista: è al centro dello Yosemite, lo vedi ogni giorno e diventa per forza un obiettivo. Ma è una via lunga e complicata: la prima volta, con un amico, ci abbiamo messo 3 giorni. La seconda un giorno solo. Allora abbiamo iniziato a chiederci se potevamo farlo meglio e più velocemente. A 18 anni siamo stati i più giovani a compiere il concatenamento con l’Half Dome: un piccolo record che mi ha spinto a desiderare di essere più veloce e a cercare un partner che facesse per me. La prima volta che ho scalato con Brad Gobright sul Nose, siamo stati talmente veloci che siamo arrivati al top in poco più di 6 ore invece che in oltre 10, e abbiamo iniziato a pensare che sarebbe stato possibile avvicinarci al record. Abbiamo ripetuto e ripetuto la via finché abbiamo toccato il tempo dei fratelli Alexander e Thomas Huber. Poi Brad ha avuto un incidente e abbiamo dovuto ritardare. Ma alla fine ci siamo riusciti!
Qual è stato il momento più memorabile?
Quando abbiamo battuto il tempo di Dean Potter e Sean Leary. Ho grande rispetto per loro, che ora non ci sono più, e per me è stato come rendere onore a loro. Purtroppo, il giorno dopo, la mia amica Quinn Brett ha avuto un grave incidente in parete mentre tentava il record femminile sul Nose, ed è rimasta paralizzata dal petto in giù. lo sono andato in crisi e mi sono preso una settimana per pensare se tentare il record era quello che davvero volevo. Poi ho deciso di sì. Ero consapevole delle possibili conseguenze e le ho accettate. Il giorno del record sono salito senza mai riposare, è stato un po’ come correre più che scalare. Quando abbiamo capito di essere nei tempi giusti, 200 m sotto la cima, è partito uno sprint finale per toccare il prima possibile l’albero sulla vetta. lo sono arrivato primo, e ho iniziato a urlare: “Brad, run!” Alla fine abbiamo fatto un tempo di 4 minuti inferiore al record di Alex Honnold e Hans Fiorine. Un risultato raggiunto con allenamento e molta determinazione.
(Ad oggi il record è ritornato ad Alex Honnold che ha salito con Tommy Caldwell il Nose in 1h 58′ 07″, 6 giugno 2018, NdR)
Il Fitz Roy, invece, è stata un’impresa che ha stupito tutti e a quanto pare anche te stesso…
In un certo senso sì. Non ho fatto quella salita per farmi notare, volevo salire in cima e mi sentivo semplicemente nella mia “comfort zone”: sapevo che potevo salire e scendere in sicurezza anche da solo. Ho ritenuto che fosse una cosa che ero pronto a fare, nessuna retorica sullo stile di scalata.

È una via molto lunga, con neve e ghiaccio, che hai salito e sceso senza corda in circa 15 ore e 50 minuti (difficoltà di 5.10c della scala decimale Yosemite). Quando hai capito che potevi farcela?
Era la mia prima stagione in Patagonia: non ero andato lì per il free solo. Il primo mese mi sono guardato in giro, il secondo ho scalato bene, ma non avevo ancora trovato il mio ritmo. Al terzo mi sono sentito finalmente a mio agio con quelle montagne. Avevo mille cartine e volevo salire ciò che mi ispirava. Ho scalato molto con Jason Lakey, poi verso fine stagione ho scalato alcune cime da solo: l’Aguja Rafael, l’Aguja Saint-Exupéry, l’Aguja Guillaumet, poi ho provato il Fitz Roy dalla via dei francesi Guy Albert, Jean e Michel Afanassief. Al primo tentativo sono tornato indietro dopo 400 m, forse ho risentito dei giorni di riposo passati a fare festa con gli amici argentini a El Chaltén… Poi ho detto: è la mia ultima possibilità. Il tempo teneva e stavolta la salita è riuscita (La via Afanassief, sulla parete nord-nord-ovest del Fitz Roy, è stata aperta in cinque giorni tra salita e discesa: in vetta il 27 dicembre 1979. Dislivellol 700 m dall’attacco, sul ghiacciaio alla base della Supercanaleta. Sviluppo 2300 m. Difficoltà fino al V+ e A2. ED-, NdA). Reynolds è salito il 21 marzo 2018 in circa 15 ore e 50 minuti: è salito e ridisceso lungo lo stesso itinerario, un dislivello di quasi 1600 metri, senza corda e sempre in libera.
Hai compiuto una salita che ha destato l’attenzione del mondo intero…
lo volevo solo salire in vetta al Fitz Roy. Non avevo un compagno, fare la solitaria era l’unica strada per scalarlo. Quando sono tornato in città, mi ha chiamato Rolando Garibotti che rappresenta un po’ la storia della Patagonia e che io non avevo mai incontrato. Mi ha detto: “Devi venire immediatamente a casa mia, tu non sai cosa hai fatto“. Mi ha detto che avevo compiuto una delle più grandi salite di sempre in Patagonia e così è iniziato il mio rapporto coi media. lo pensavo di tornare alla mia vita di sempre, mai mi sarei aspettato che dopo pochi mesi avrei tenuto una conferenza stampa in Italia, ad esempio.

Come è cambiata la tua vita?
Ho più lavoro, ma anche più opportunità. Presentazioni, incontri, viaggi, interviste: è tutto nuovo per me, ma mi piace condividere le mie esperienze con le altre persone. La montagna non è egoismo: è un luogo che ti dona una positività che devi portare nel mondo e condividere con le persone. È grandioso avere l’opportunità di restituire un po’ di ciò che la montagna mi ha dato. Per il resto il mio lavoro, i miei interessi e i miei amici sono rimasti gli stessi.
Preferisci scalare con gli amici o solo?
Credo che sia più bello scalare solo, anche se molti pensano sia troppo pericoloso. Amo le persone e amo stare con gli amici, ma è più questione di scalare senza interruzioni, senza doversi fermare. È noioso fare sicura, è più divertente solo scalare.
Queste salite e il tuo lavoro nel soccorso alpino hanno cambiato la tua percezione del rischio?
Molti pensano che in montagna ci sia più rischio che nella vita normale. lo credo che la gente non si renda conto che sia pericoloso in generale vivere. Le montagne non mettono in pericolo la tua vita, ti danno la vita.
Trovo che senza montagne si rischi la morte spirituale. Ho pensato molto a queste cose, soprattutto dopo soccorsi molto importanti. Mi sono chiesto: è peggio il rischio di morire o di non vivere? Meglio vivere, e scalare.

Ci sono dei soccorsi che ti hanno coinvolto più di altri?
Due in particolare. Uno in Patagonia lo scorso anno, quando io e Jason abbiamo portato in salvo un alpinista caduto sull’Aguja Rafael: hanno detto sia stato il primo soccorso riuscito con successo in Patagonia, dove solitamente o te la cavi o resti in parete. L’altro è quello della mia amica Quinn sul Nose, rimasta paralizzata dopo una caduta di 35 m mentre tentava il record di velocità femminile. Cadendo ha colpito una portaledge, quando siamo arrivati sul posto ho pensato fosse morta. Ho fatto tanti soccorsi in condizioni critiche, con tempeste in arrivo, senza elicottero, di notte. Quando capisci di aver salvato una vita, è davvero speciale, ti rendi conto che qualsiasi sforzo hai fatto, ne è valsa la pena. C’è un feeling con le persone che salvi, c’è un’emozione che rimane e ti fa andare avanti a vivere, e a salvare altre persone.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
L’inverno prossimo voglio tornare in Patagonia. Per il resto, non ho alcun progetto. Il mio primo passo è sempre esplorare in libertà: devo passare del tempo nei luoghi dove mi reco e parlare con le persone locali prima di definire dei progetti.

Note italiane
La sera del 18 luglio 2019, Reynolds, con la sua simpatia, il suo entusiasmo e la sua concretezza, ha letteralmente conquistato i moltissimi appassionati di alpinismo e arrampicata intervenuti alla serata presentata e tradotta da Luca Calvi.
Nell’ambito del ciclo A tu per tu con i grandi dello Sport di DF Sport Specialist, Reynolds ha raccontato cinque storie di alpinismo e di soccorsi, dall’amicizia con Dave con cui ha scoperto l’arrampicata, alle prime salite in Yosemite, fino al record sul Nose compiuto con Brad Gobright, per concludere con le salite patagoniche e l’eccezionale soccorso sull’Aguja Rafael 2482 m compiuto con il “coach” Jason Lakey, poco prima della salita in free solo sul Fitz Roy.
“Le prime salite in Yosemite erano emozioni uniche – ha detto Reynolds. Vedevo che riuscivo a scalare gradi sempre più difficili senza cadere, e quasi non ci credevo. Ho continuato a tornare lì finché non ho deciso di trovarmi un lavoro per poterci vivere“.
Alla fine della serata Sergio Longoni ha donato a Reynolds la piccozza firmata DF Sport Specialist. “Questa piccozza per noi è segno di progressione – ha detto Longoni – te la doniamo con l’augurio di andare avanti sulla tua strada, già così brillante. Siamo orgogliosi di averti qui da DF Sport Specialist e in Italia: sei un ragazzo speciale per la tua simpatia e per la tua bravura”.
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Bonjour,
magari trovate interessante anche voi la descrizione dell’incidente di Quinn Brett, il salvataggio e le riflessioni offerte dalla sua compagna di scalate.
https://www.outsideonline.com/2404812/el-cap-yosemite-quinn-brett-accident-rescue
Ho avuto il piacere di ascoltarlo, e’ bravo e intelligente ha le idee chiare sulla montagna
mah…’sta moda dei record mi lascia… perplesso (eufemismo): è ancora alpinismo?
Grande Reynolds, intervista adatta al week end.
Si sa dell’enorme generosità del Sig. Sergio Longoni, ma…la piccozza è d’oro davvero?