La grande triade d’Oriente

La grande triade d’Oriente
di Alberto Peruffo
(il racconto delle ascensioni a tre grandi diedri delie Alpi Orientali: Philipp alla Civetta, diedro Cozzolino al Piccolo Mangart di Coritenza e diedro Casarotto allo Spiz di Lagunaz)
(pubblicato su Rivista del CAI, marzo-aprile 2002)

Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment***

Una sera di giugno del 2001, qualche giorno dopo il Diedro Casarotto, seduti al caffè del Duomo della sua città, un mio caro amico dalla fronte larga e dalla lingua arguta m’interroga curioso: “E ora che fai? Hai iniziato la stagione con un vione con il quale qualcuno vorrebbe chiudere non solo la stagione, ma anche una carriera e… ora mi domando che farai?“.
“Farò… – rispondo guardandolo con un vago sorriso negli occhi e sbirciando le belle forme che le signorine di città mostrano incautamente a sguardi stranieri – Farò molte cose, di varia natura, Magari racconterò le vicende di questo mio sogno”.

Già, perché di un sogno, di un’idea nata nella mia mente, si tratta, idea e sogno divenute realtà, una triade stupenda, un omaggio a grandi alpinisti raramente riuniti dagli storici sotto la stessa causa e che ora io e i miei compagni abbiamo ricondotto alla stessa fonte geometrica, il diedro, alla medesima natura grandiosa, immense e verticali pareti, all’unico ed irrinunciabile stile, l’arrampicata libera spinta all’estremo nel pieno rispetto di ciò che è altro da noi.

In una frase, alpinismo (in senso proprio) su grandi pareti solcate da diedri dove predomina l’arrampicata libera. In un titolo, i tre grandi diedri delle Alpi Orientali, la storia di una triade, oggettiva e soggettiva. Andiamo per ordine di percorrenza e di difficoltà.

Il diedro Philipp-Flamm alla Civetta (attenzione: tracciato erroneo nella parte superiore)

Diedro Philipp
A guardare la parete dal rifugio Tissi, magari con il tempo incerto che brontola sopra il tuo capo, c’è poco da fare, si deglutisce amaro. La Nord-ovest della Civetta fa sempre paura. Anche a chi la conosce bene. Insomma, ci si pensa un bel po’ prima di infilarsi dentro le sue celebri pieghe. Se poi si legge la dettagliata relazione di Philipp con i relativi commenti dei ripetitori sulla guida di Oscar Kelemina, non si può non riflettere, non solo sulla “via più difficile e impegnativa del gruppo”, ma anche sulla plausibilità di quel numero infinito di tiri di corda: intorno ai quaranta. La cosa migliore è non pensarci, non badare troppo alle relazioni e partire da casa con una motivazione che spazzerebbe dalla strada anche il più imprevedibile degli accidenti. Come il tempo. Maledetto tempo. E’ la vera croce di chi s’impegna sulle grandi vie delle Alpi. La condizione più oppressiva e determinante nell’affrontare una grande avventura, specie dolomitica, dove verticalità, ghiaioni e fulmini sono figli della medesima sorte. Luglio del 1998: quest’anno, mio malgrado, la motivazione per il Diedro Philipp è parecchio in anticipo sulle normali condizioni della parete. Convinco il mio acerrimo compagno, Alberto Urbani, che le condizioni ci sono e che il tempo promette bene. Telefono al Tissi per prenotare due posti letto.
– Non c’è posto…
– Ma dobbiamo andare sulla Nord-ovest…
– Ci dispiace è già tutto pieno e prenotato; ci sono due gruppi di escursionisti in arrivo…
– Due miseri posti, nel bivacco invernale, sui tavoli della sala…
– Tutto pieno!
– Ma la Nord-ovest? Quanti vanno sulla Nord-ovest?
– Nessuno…
– Ma va…!!! – rimugino tra me riagganciando la cornetta di fronte all’inoppugnabile voce femminile. Telefono al rifugio Coldai. Stessa solfa, ma chiedo esplicitamente di parlare con Renato Da Zordo.
– Venite, in qualche modo faremo (anche se mi sconsiglia di fare la Nord-ovest).

Sabato 19 luglio siamo felici di aver avuto due cuccette nel bivacco invernale del Coldai, quando, a notte inoltrata, un forte scroscio di acqua ci sveglia lasciandoci navigare nell’incertezza per le rimanenti ore. Il diedro? Bagnato? Alle 4.30 camminiamo titubanti, con i piedi inzuppati, sui prati erbosi del Lago Coldai. All’alba il cielo è sereno, ma fitte nebbie comprimono il fondovalle verso Alleghe. Non è un buon segno, nonostante le previsioni. Che fare? Andiamo all’attacco, perlomeno a vederlo. E manco lo vediamo, ossia su di esso semplicemente transitiamo. A mattina inoltrata siamo impegnati nella parte centrale. Davvero molto forte Walter Philipp a tirarsi fuori da questi passaggi; la libera è spinta, nessun chiodo di progressione e chiodi giusti per proteggersi. Sarà perché entrambi arrampichiamo con gli zaini, seppur piccoli, ma più di una volta esco euforico da un passaggio ed urlo invasato al mio compagno: “Vai Bruno (il mio nome di battaglia) – mai così duro…”. Mentre siamo sul traverso che conduce all’ultimo terzo della via, dove si va ad incrociare la Comici, si abbatte su di noi il primo temporale. Nel trambusto sbagliamo direzione e andiamo a destra, ritorniamo a sinistra, mentre gli alti strapiombi gialli ci risparmiano un po’ di grandine. Pausa. Al tiro successivo, il breve artificiale che conduce ai camini della Comici, mentre Urbani tira come un forsennato, scoppia il secondo temporale.

All’inizio del tratto centrale del Diedro Philipp. Foto: Alberto Urbani.

– Ehi, torniamo…
– Sei matto!
Scruto il traverso ormai fatto e tutta la parte a picco fino ai ghiaioni. Fuori? DEVI ANDARE FUORIII!”. E siamo fuori… Aspettiamo seduti sulla sosta, timorosi. In fin dei conti siamo abbastanza tranquilli. Conosco la parete. Osservo il Diedro Aste percorso l’anno scorso d’inverno (due bivacchi) e la Solleder (sto per chiudere un’altra triade) fatta due anni prima, di corsa per paura del brutto tempo. Là sì che bisogna avere paura in caso di cambiamento del tempo. Il Philipp è un paradiso a confronto. Smette di piovere e annaspiamo tra camini bagnati e ostruiti dal fango mentre a nord rasserena. Il sole del pomeriggio ci conforta e ci invita al bivacco. Non c’è motivo di correre. Il tempo sembra sicuro. Guadagnata una comoda cengia tiriamo fuori dagli zaini i pochi indumenti che abbiamo, liberiamo il terreno dalle pietre e ci adagiamo nel cuore della Civetta. Il sole tramonta dietro la Marmolada, ci rulliamo una candida sigaretta e ci sorbiamo avidi le ultime luci del giorno. Durante la notte i fremiti del mio compagno lo portano a rifugiarsi sotto il mio esile telo isotermico. L’alba è radiosa e tra camini vorticosi e tirate di corda molto sostenute, sotto a cascatelle d’acqua per nulla consigliabili, raggiungiamo orgogliosi la cima di Punta Tissi. Che dire? Una grande via, infinita nella quantità dei tiri di corda e negli equilibri estremi, ora delicati ora atletici, che essa ti offre. Un capolavoro di arrampicata libera su roccia dolomitica di diversa natura, con solo tre brevissime sezioni di artificiale. Il primo grande Diedro.

Diedro Cozzolino
Settembre del 1999. A furia di telefonate alla ricerca di un compagno c’è il rischio di consumarsi non tanto le dita, ma la psiche che tanto conta nella difficile via che ho in mente di fare. Poi alla fine ho un’idea. Sì, non è proprio il tempo adatto per andare a fare il Diedro Casarotto – troppo caldo e troppo secco – via di cui avevo già il compagno (e che compagno!! presto lo scoprirete) ma penso che una variazione sul tema ci possa stare. Digito il numero: – Ehi Piero… Che ne dici se al posto del Diedro Casarotto andiamo a fare il Diedro Cozzolino, condizioni del genere non le troveremo più…
– Perché no? E’ sempre stato un mio sogno e nessuno me l’ha mai proposto… andiamo!

Il diedro Cozzolino (da Alpi Giulie, Guida dei Monti d’Italia, CAI-TCI, di Gino Buscaini.

Di là della cornetta c’è nientedimeno che il compagno di Renato Casarotto sul mitico Diedro, Piero Radin, 55 anni, uno dei più grandi alpinisti silenziosi che le Alpi conoscano. Il Diedro Cozzolino per noi vicentini è avvolto da sempre in un aura di mistero e mitologia. Si sa solo che Renato l’ha percorso d’inverno quand’esso era una corazza di ghiaccio e di neve. Poi non se ne sa nulla. Conosciamo di alcuni tentativi d’estate, tutti naufragati nella parte inferiore, dalle fessure limacciose e umide. Sento che è il momento giusto e a me qualche tirata bagnata non dispiace. L’una di notte del 12 settembre arriviamo ai Laghi di Fusine. Dormiamo al parcheggio una manciata di ore e nell’oscurità risaliamo la mulattiera che porta al rifugio Zacchi. Tagliamo per una traccia nel bosco – che avevo studiato l’anno precedente – e con le prime luci dell’alba vaghiamo sulle ghiaie ai piedi del grande diedro. Tutto appare perfetto. Saliamo slegati i primi cento metri e alle prime difficoltà ci leghiamo. Contro ogni previsione, le prime fessure del diedro colano acqua e le mani a volte accarezzano labbra muschiose. Poco importa. Lavoreremo meglio di piedi. Impegnativo e poco protetto troviamo il tratto con cui Enzo Cozzolino aggirò il corteggiato (anche da Piussi) strapiombo nero, chiave d’accesso alla parte superiore del diedro. Una diagonale a sinistra e un traverso a destra per entrare alla base di un libro aperto di roccia calcarea compattissima, molto difficile da chiodare e neppure troppo porosa.

Delicati equilibri d’opposizione portano al passaggio chiave della via, dove il diedro si biforca per prendere la linea di sinistra. Più ti avvicini e più ti sembra impossibile che bisogna salire di là, per toccare una stretta fessura che non mostra alcun collegamento con la via da cui giungi. Una larga e piatta placca sbarra il cammino. Dove salire? Fin qua arriva anche l’unica relazione dettagliata che eravamo riusciti a reperire, quella dei primi ripetitori parziali che impossibilitati a salire per l’alta difficoltà deviarono a destra su cengia e uscirono per la Piussi. Molto in alto scorgiamo un chiodo, irraggiungibile da sotto. Come arrivarci è meno bello di lasciarvelo intuire dicendovi solo che è necessario avere la sinuosità della serpe e i piedi dell’acrobata (akrobatos: colui “che cammina in punta di piedi”). Le mani non so, ma chi è passato o passerà si chiederà con quale dita si sia aggrappato Piero sul memorabile traverso che porta alla sosta, considerato che di falangi ce ne vorrebbero quattro, non tre. Pensate che la mano destra di Piero ne ha due (la terza l’ha lasciata sull’Annapurna III)… e non ci sono chiodi! Sopra la via continua sostenuta, senza mai mollare, e non seguendo relazioni non so quanto dritta l’abbiamo tirata. Certo che è dura. Sicuramente usciamo sulla cengia originale dove uscì Cozzolino (non facciamo la variante Dalla Mea) e che traversa tutta la parete nord. Siamo sul far della sera e bivaccare è un dovere e un fatto di prudenza. Non conosciamo la discesa. Quando il tempo è buono il bivacco è uno dei più grandi doni che l’alpinista possa ricevere. Piero lo sa. Non rifuggiamolo. Una notte tersa e piena di stelle ci tiene compagnia; all’orizzonte sogniamo di essere cullati dalle calme onde del mare Adriatico. L’indomani un traverso molto esposto, su roccia friabile, dà pieno risveglio ai nostri sensi intorpiditi dalle brume della notte. Alcuni brevi tiri di corda e tocchiamo felici la vetta del Piccolo Mangart di Coritenza. Il secondo grande diedro è fatto!

All’alba del secondo giorno la silhouette di Piero Radin si confonde con il profilo del Piccolo Mangart di Coritenza. Foto: Alberto Peruffo.

Una breve postilla. La continuità del diedro è quella che ho scorto negli occhi di Piero: in una vita di ascensioni il suo entusiasmo per le grandi avventure in parete è rimasto immutato. Un incanto per noi giovani.

Il Diedro Cozzolino nella luce di un sereno mattino di novembre. Foto: Alberto Peruffo.

Diedro Casarotto
Estate del 2000: un tentativo con Piero Radin al mitico Diedro Casarotto-Radin (una via che ha più tentativi che ripetizioni) allo Spiz di Lagunaz finisce non molto distante dai tetti che danno accesso al diedro vero e proprio. Piero ha poca memoria, io trovo un chiodone vecchio all’inizio di una fessura gialla che muore in direzione dei grandi tetti gialli, tiro diritto credendo di essere in via (anche se mi stupisco perché sapevo i primi tiri non così duri) e fuori delle grosse difficoltà, ormai conscio della “nuova” variante e in vista dei tetti, un lastrone di roccia si leva dalla sosta che Piero sta per lasciare, contundendogli la coscia. A malincuore bisogna scendere. Ritorno epico per l’infernale zoccolo. Bevuta colossale al fiume e alla prima birreria. Io volo in Pakistan e il grande Piero (un metro e 67 per 55 kg) ripete il Diedro in agosto (cornificazione più che giustificata) con un gruppo di forti alpinisti veneti. Giugno del 2001, il primo fine settimana buono della stagione finalmente siedo nelle più remote radici del mio sogno. All’Hotel Casarotto (due stanze ovvero due nicchie all’attacco della via dopo lo zoccolo della Terza Pala) mi sento quasi appagato. Da più di un anno scavavo nella memoria per non dimenticare i particolari chiave del celebratissimo zoccolo, 800 metri di disperazione verticale cantata e odiata da tutti gli aspiranti al Diedro. Con me ancora l’acerrimo Urbani, aggregatosi all’ultimo momento, con Michele Romio, il mio giovane compagno di una via in Pakistan piuttosto avventurosa, al ritorno della quale gli promisi impudentemente, quasi come ironico premio e nel caso Piero ci fosse già stato, una gita sul mitico diedro. Questa volta l’attacco non lo sbagliamo. La roccia è meravigliosa e l’arrampicata ai massimi livelli. La logicità della via è superba quanto la natura della roccia; una volta dentro non si può più sbagliare. Il più famoso chiodo di Renato – una grossa sbarra ad anello infilata in un buco cieco – occhieggia dall’alto dei tetti, quasi a chiamarti, e tra camini, diedri, placche, fessure, strapiombi aggettanti (dove oltre che ad arrampicare bisogna saper anche chiodare) si arriva alla base del grande diedro: una visione impareggiabile, molto più impressionante per regolarità geometrica del Diedro Cozzolino. Il diedro percorso da Renato e Piero nel 1975 si alza verticale, inframmezzato da strapiombi, con perfetta geometria di forme, lasciando defluire ai lati due pareti grigie, piatte e regolari. S’intuisce da sotto che arrampicare là sopra sarà ancora una volta una grande passione. E noi, anime compassionevoli, con il tempo incredibilmente clemente e nonostante il sole sia ancora alto nel cielo, decidiamo di vivere pienamente la nostra passione. Sull’ultima nicchia decentemente larga per tre ci fermiamo e prepariamo il bivacco. Estraiamo dai sacchi impreviste vivande: pane biscotto, salame nostrano, grana e mezzo litro di vino rosso clandestino (il “ricercato” Clinto). Al rullo qualche deliziosa sigaretta e al via un intricato bivacco che ricorderò come il più affascinante della mia vita. Le stelle ci guardano e noi guardiamo loro.

Il diedro percorso da Casarotto e Radin nel 1975 si alza verticale, inframmezzato da strapiombi, con perfetta geometria di forme, lasciando defluire ai lati due pareti grigie, piatte e regolari. Foto: Alberto Urbani.

E alla mattina la scelta di bivaccare ci pare davvero indovinata: filiamo su leggeri e freschi divertendoci sull’incomparabile geometria del diedro. A metà mattinata siamo già supini a succhiare avidamente l’esile macchia di neve sotto la vetta dello Spiz, salvezza insperata di un’ascensione dove uno dei più probabili pericoli è la disidratazione. Ci aspetta ora la discesa: l’irrazionale divenuto concreto. Scorgiamo in lontananza il Monte San Lucano, il nostro porto d’approdo, e abissi insondabili all’occhio da ogni parte. Di fronte, a pari altezza, la Torre di Lagunaz, dove paradossalmente occorre salire per quindi ridiscendere. Comincia l’avventura tra doppie non trovate, nel vuoto, e doppie ritrovate. Alla fine, sbarazzatici dell’unica poco chiara relazione, guadagniamo ingenuamente la vetta del Monte San Lucano (avevamo visto due persone alla mattina), sul quale si pensava trovare la traccia di sentiero. Non conosciamo il luogo. Come animali selvaggi seguiamo tracce di cacciatori che ci portano alle prime fonti di acqua di disgelo. Ci dissetiamo e facciamo scorta d’acqua. Giù per ripidi canaloni giungiamo in vista di una malga. Un bosco ci separa dalla radura. Proviamo a sfondarlo ma un groviglio di macchie di mughi sparse tra rari larici e salti di roccia nascosti tra la vegetazione ci respingono per più di una volta. Perché tribolare ancora per ritornare alla civiltà notturna? In un’ora di luce raggiungeremo mai la malga da cui sicuramente parte il sentiero? Dubbio infausto. Festeggiamo la nostra salita su uno splendido prato orizzontale e morbido, alla luce di una candela. Il vino è finito, ci resta un pezzo di grana, acqua a volontà e una fetta di salame alta un centimetro: un terzo a testa. La mia la lascio riposare e profumare per due quarti d’ora sulla coscia destra, mentre chi siede al mio fianco la guarda con occhi di lupo. Guai a lui. Lo azzannerei. Nella fredda notte del bosco mi sveglio sotto un cielo lucente. Urbani – senza sacco da bivacco – è sparito. Sarà al riparo di una roccia, credo. Ai primi bagliori dell’alba vedo il sacco di Michele gonfio in modo inusuale: la parte inferiore mostra bitorzoli, la mediana sembra una mongolfiera e dalla superiore sbuca fuori un non so che d’incappucciato. L’Urbani! L’irriducibile invasore di teli isotermici. E’ addirittura dentro per tre quarti!

Un saluto dal “più famoso chiodo di Renato”. Foto Alberto Urbani.

Alle 8 di lunedì mattina, dopo un gentile passaggio della cognata di Ilio de Biasio (il forte alpinista del luogo) che aveva visto transitare per la contrada di Pradimezzo, dove abita, tre sgangherati e allegrissimi alpinisti, siamo a Taibon. Michele ha recuperato la macchina alla Baita del Tita dopo mezz’ora di autostop (coincidenza: ci tira su il vecchio gestore della Baita, ai tempi in cui Renato e Piero aprirono la via); fermi all’incrocio del paese, ci trangugiamo tre pastose birre rosse in bottiglia – regalo di Michele – mentre i simpatici vecchi del paese che ritornano col giornale fresco sotto al braccio ci osservano allibiti. Che dire ancora? La triade è fatta.

Relazioni
Dolomiti Orientali, Gruppo della Civetta, Punta Tissi, parete nord-ovest.
Diedro Philipp. Walter Philipp e Dieter Flamm: 5- 7 settembre 1957. Dislivello: 800 m. Sviluppo: 1130 m. Diff. Compl.: ED; Diff. max. obbl: VI+.
Per il Diedro Philipp, via arcinota anche se non più frequentata come un tempo, è più che sufficiente la relazione originale degli apritori riportata sulla guida del Kelemina (Civetta, Oscar Kelemina, Pordenone 1986, pp. 180-3). Pare impossibile, ma i tiri dettagliati qui indicati bisogna rispettarli quasi tutti. Le soste e la chiodatura sono sufficienti e siamo riusciti a unire solo i quattro tiri (e ridurli a due) molto impegnativi del terzo centrale, dove la roccia gialla forma il caratteristico diedro diagonale che si trasforma in verticali camini. Dopo di questi e la placca con il breve tratto di artificiale, in prossimità dei grandi tetti gialli, fare attenzione di attraversare a sinistra quasi a girare uno spigolo, e non seguire i cordini bianchi che portano verso destra su roccia molto delicata (Oggi esiste la guida di Ivo Rabanser, Civetta, Collana Monti d’Italia, CAI-TCI, 2012, NdR)

Alpi Giulie, Gruppo del Mangart, Piccolo Mangart di Coritenza, parete nord.
Diedro Cozzolino. Enzo Cozzolino e Armando Bernardini: 22-23 settembre 1970. Dislivello: 800 m. Sviluppo: 900 m. Diff. Compl.: ED: Diff. max. obbl: VII-.
Per il Diedro Cozzolino invece non abbiamo trovato relazione completa e dettagliata in italiano (ne ho vista una in sloveno al rifugio Zacchi, punto di partenza consigliato per chi non conosce bene la zona dell’attacco, peraltro molto facile dal rifugio). La relazione di Carratù nella guida CAI-TCI (Alpi Giulie, Gino Buscaini, Milano 1974, pp. 379-81 ) arriva fino al punto chiave della via, dopodiché ci si basa sulla relazione originale di Cozzolino. Lo schizzo è sufficiente per far capire che si salta da un sistema di diedri-fessure a un altro per ben tre volte, anche se non sempre è evidente in quale punto. I gradi di Cozzolino inoltre (come per quelli delle altre vie) difettano ancora della chiusura della scala UIAA al VI, perciò armatevi di forza, di pazienza e di equilibrio quando troverete qualche passaggio sicuramente superiore secondo la nuova apertura della scala. Il passaggio chiave è piuttosto ostico, un traverso dove non è possibile chiodare e con l’ultima protezione poco determinante psicologicamente: io l’ho valutato di VII-.

Attraverso i difficili camini del Diedro Philipp nel cuore della Civetta. Foto: Alberto Urbani.

Dolomiti Occidentali, Gruppo della Pale di San Lucano, Spiz di Lagunaz, parete sud-ovest.
Diedro Casarotto. Renato Casarotto e Piero Radin: 5-11 giugno 1975. Dislivello: 700 m (oltre a 800 metri di zoccolo). Sviluppo: 850 m. Diff. Compl.:ED+; Diff. max. obbl: VII. Mentre per le precedenti salite attacco e discesa sono tutto sommato facili (sia dalla Punta Tissi sia dal Piccolo Mangart si scende per ferrata, anche se su quest’ultima – usciti dalla via e presa la sinistra orografica in direzione del Veunza – si trovano dei tratti dismessi) per il Diedro in oggetto si cambia musica. Se attacco e discesa erano prima delle semplici e melodiose canzoni d’autore, ora siamo di fronte a una sinfonia, soprattutto di emozioni e di esaltanti timori finché non si toccano le desiderate pendici erbose del Monte San Lucano. La grande intuizione di Buscaini e Metzeltin nel mettere questa via al numero 100 del prestigioso volume Dolomiti Occidentali (Le Dolomiti Occidentalile 100 più belle ascensioni ed escursioni, di Gino Buscaini e Silvia Metzeltin, Bologna 1988, pp. 238-9) è una nota di merito per i compilatori della celebre raccolta d’itinerari. Come anche la riflessione aperta e la relazione intorno alla via. La relazione descritta dal grande alpinista Lorenzo Massarotto, primo ripetitore del Diedro, nel suo insieme è abbastanza esatta. Il labirintico zoccolo è descritto per quel che si può descrivere di un labirinto e l’unico consiglio che posso dare è di non andare mai a cercare roccia da arrampicare (le famose e inesistenti paretine), bensì canali rocciosi inselvatichiti dalla vegetazione fin quando non si è gettato lo sguardo nel profondo Boràl. Da lì uno spigolo di roccia salda porta alla grande cengia (con l’avvertenza di aggirare l’ultimo pilastro di roccia gialla sulla destra) da dove non si può più sbagliare. La via, di per sé, è straordinaria: 700 metri di roccia solidissima e lavorata dove per giungere al fatidico diedro è necessario saper tirar fuori tutti gli stili di arrampicata.

Diedro Casarotto, le verticali placche fessurate e i grandi tetti (la via li segue fedelmente sulla sinistra) che danno accesso al diedro vero e proprio. Foto: Alberto Urbani.

Come dicono alcuni dei pochi ripetitori è opportuno aggiungere mezzo grado alla relazione di cui sopra, i passi di A1 sono 20 metri di artificiale, intervallati da passi in libera, in cui bisogna integrare la chiodatura. I tre tiri di III non esistono e all’inizio del grande diedro grigio c’è solo un tiro di corda facile, nel quale ti pare di camminare avendo i tuoi muscoli e la tua psiche il ricordo donde spremuti sono appena giunti. L’accademico Ivo Ferrari, grande conoscitore della Valle di San Lucano, in un suo intervento su una rivista parla di passaggi di 6b con chiodi così così. La discesa dallo Spiz non è una doppia da 50 + una da 20, bensì due da 50 e una da 20, da ricercare arrampicando anche in discesa. Pure dalla cima della Torre abbiamo attrezzato una doppia da 40 non avendo trovato niente (altre due e si tocca terra). In seguito sono venuto a sapere che le prima doppie sia dallo Spiz sia dalla Torre sono leggermente defilate rispetto alla linea diretta di calata dalla sommità. Nel suo insieme io credo che nelle Alpi difficilmente sarà concepibile un itinerario più significativo di questo: qualità-logicità-estetica-ambiente-attacco-ritorno ed etica alpinistica sono ai massimi livelli che si possano concepire. Si potranno percorrere vie che si eleveranno eccezionalmente per uno o più di questi aspetti, ma raramente troveremo una via che abbia tutti i suddetti aspetti ai massimi livelli. Come afferma il decimo ripetitore del Diedro, l’accademico Mauro Moretto, io concordo con quanto dice nel suo racconto privato a me concesso allorché titola il testo con Il più bel diedro delle Alpi. Come dissi a Piero nel complimentarmi per il capolavoro fatto da lui e Renato – due giorni dopo a casa di mia suocera davanti a un fiasco di vino buono e in compagnia del nostro amico e maestro Giacomo Albiero – se una volta la prova, il trofeo più ambito, per l’alpinista classico era il Diedro Philipp, ora io credo non sia insensato dire lo stesso per il Diedro Casarotto.

In limine: tutti questi tre grandi diedri sono stati percorsi rispettando la natura delle pareti, senza modificare nulla della loro originaria fisionomia, anche nei tratti estremamente difficili e compatti. Sono perciò dei veri capolavori alpinistici (e non solo di arrampicata) che ci auguriamo non vengano mai deturpati anche dall’ombra di un solo spit (come già accadde in un passaggio – poi restaurato – della Philipp). Nell’eventualità invitiamo ad agire di conseguenza.

 

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La grande triade d’Oriente ultima modifica: 2017-11-06T05:38:33+01:00 da GognaBlog

2 pensieri su “La grande triade d’Oriente”

  1. Ringrazio Alessandro Gogna di questa inaspettata pubblicazione, e probabilmente anche Massimo Bursi per averla richiamata da un mio scritto precedente, dove accennavo a questo articolo, anche per me perso tra le montagne di riviste e libri dell’epoca, che non saprei più ritrovare. Leggere dopo 15 anni questi ricordi scritti per la Rivista del CAI – fu uno dei miei primi scritti d’alpinismo – emoziona pure me. Poco prima avevo avviato il progetto intraisass.it

    Segnalo “l’errore storico” della Rivista, qui reiterato probabilmente per rispetto filologico dell’articolo originale, della foto del Philipp. Chi conosce la parete sa bene che lo schizzo impresso sulla foto (fu pescato dai redattori di allora, non so dove) non corrisponde alla via, se non per sommi capi, e solo nella metà inferiore.

    Buone letture e grazie ancora.

  2. Grandi vie!  Quello sul Lagunaz è il diedro perfetto!

    Mi piacerebbe leggere racconti come questo anche delle vie, ormai antiche, negli altri grandi diedri-camini delle Dolomiti, vie per me di paragonabile bellezza e impegno, ma mai entrate nei miti….. vie di Oggioni, Aste, Armani,Vinatzer, Mayerl, Conforto, Micheluzzi……e ancora Casarotto, ma con DeDonà, io ci metterei anche Jori, l’anticipatore misconosciuto o forse dimenticato.

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