La mia Gervasutti, intervista a Pino Dionisi

La mia Gervasutti, intervista a Pino Dionisi
a cura di Andrea Giorda
(La nascita della gloriosa scuola di alpinismo torinese, le conseguenze dell’ammissione delle donne ai corsi, la tragica morte di Gianni Ribaldone, nel racconto del fondatore della Gervasutti)

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)

Si sente già il freddo secco dell’autunno, il cielo è terso come può esserlo solo in questa stagione. La prima neve ha già imbiancato la Bessanese che si staglia sui boschi color pastello. È una domenica pomeriggio. Tra i blocchi delle Courbassere, in Val d’Ala, si aggira un anziano signore dai movimenti agili da giovanotto. Passa tra i pietroni a lui familiari. Li tocca, li sfiora quasi chiamandoli per nome, ogni tanto abbozza un passaggio. Perfetto appiombo sui piedi, gambe leggermente divaricate, giusta distanza dalla piccola parete.

Sono gesti eleganti e impeccabili che sembra aver ripetuto chissà quante volte. Non vi è dubbio che quel signore è Pino Dionisi, classe 1915, per una vita padre-padrone della “Gervasutti” di Torino. Quando gli chiedi di raccontare della “sua” scuola, non ha esitazioni.

Giuseppe Pino Dionisi, fine anni Cinquanta

 La Storia: ovvero come da un ripostiglio può nascere una scuola di alpinismo
«Per capire come nacque la scuola bisogna rifarsi al clima di quegli anni. La guerra era appena finita e la morte di Giusto Gervasutti aveva chiuso un ciclo molto felice per l’alpinismo torinese. Era morto un mito, sembrava che con la sua scomparsa fosse svanito tutto. Bisogna poi ricordare che l’ambiente alpinistico allora era diviso in clan rigorosamente separati. Quando andavi alla lezione, il venerdì sera, ti capitava di vedere da una parte gli accademici con la loro sala, da un’altra il clan di Firmino Palozzi; poi c’eravamo noi che non potevamo far parte di nessuno dei due gruppi».

Questo per motivi generazionali?
«No, piuttosto perché allora l’Accademico rappresentava un gruppo molto chiuso. Per farne parte bisognava essere forti alpinisti, ma era anche importante l’estrazione sociale. Palozzi, ad esempio, pur avendo dei numeri è entrato tardi perché era un battilastre; e anche la scuola di alpinismo di allora, la “Boccalatte” era esclusivamente composta da accademici».

Si può dire che la Scuola Gervasutti è nata dalla “Boccalatte”?
«La “Boccalatte”, con la morte di Gervasutti, che ne era stato il fondatore e direttore, andò in crisi. Si alternarono alla sua Michele Rivero, Pipi Ravelli e infine Ettore Sisto. Quando l’ha presa Sisto, questa scuola esisteva solo sulla carta. Ricordo infatti che un giorno ero al Castaldi con Giorgio Rosenkrantz e vidi arrivare la “Boccalatte”. C’era quasi da ridere. Fu in quell’occasione che io e Giorgio decidemmo di creare una scuola che rispondesse di più ai tempi».

Giuseppe Pino Dionisi, fine anni Cinquanta

La vostra era una scuola alternativa, concorrente, oppure era semplicemente diversa?
«Semplicemente diversa. Non voleva far nascere dei conflitti. La creammo perché ci credevamo, ma non potemmo farlo nella sezione di Torino perché c’era già la “Boccalatte”. Proprio da questo fatto nacquero delle situazioni piuttosto antipatiche».

Di che tipo?
«Non sapevamo dove fondare la scuola, non avevamo un locale. L’unico ad aiutarci fu il signor Squarcia dell’ALFA, sottosezione del CAI Torino, che ci invitò ad andare nella loro sede. Anche qui sorsero dei problemi, perché i soci occupavano tutti i locali e noi eravamo relegati in un ripostiglio».

Quindi la Scuola Gervasutti è nata in un ripostiglio?
«Sì, la Scuola Gervasutti è nata nel 1947 in un ripostiglio così piccolo che per far lezione io e Rosenkrantz dovevamo fare i turni. Questa situazione assurda durò finché Giorgio, che era riserva olimpionica di ginnastica, non riuscì nel 1948 a farci entrare nientemeno che nella palestra Magenta di Torino. Un ambiente signorile con bellissimi locali. Trovata la sede, bisognava cercare un nome e Rosenkrantz propose “Gervasutti”.
lo sobbalzai e mi chiesi se eravamo all’altezza di portare un nome così importante, comunque l’approvai sebbene con un certo timore.

La scuola l’avevamo nel sangue e volevamo darle un tono di ufficialità. È così che andammo a Milano alla Commissione Nazionale Scuole di Alpinismo e spiegammo la questione a Carletto Negri. Negri era un grandissimo ghiacciatore, e un vero duro nel suo genere. Con la sua autorità ci combinò una riunione con Emanuele Andreis, presidente del CAI Torino, e Sisto, direttore della Scuola Boccalatte.

Fu una serata storica. Si discusse animatamente, ma in conclusione Sisto comprese che era meglio lasciare spazio a noi giovani, e accettò ufficialmente l’ingresso della “Gervasutti” nella sezione di Torino.

Per l’occasione avevo fatto fare un ritratto di Giusto Gervasutti e quella stessa sera lo appesi dove ancora oggi lo si può vedere. Venne anche coniato il distintivo della scuola, raffigurante l’Aiguille Noire, le Dames Anglaises, una piccozza e una stella d’oro; fu stilato inoltre il primo regolamento, che prevedeva un primo corso dedicato a Gervasutti, e un secondo dedicato a Gabriele Boccalatte.

Nel 1949 per dimostrare la serietà della scuola, ripetemmo un exploit che fu di Gervasutti: salimmo il Cervino in invernale.

La salita fu fatta come scuola, infatti le cordate erano composte da tre istruttori, che erano il sottoscritto e i gemelli Giorgio e Daniele Rosenkrantz e un allievo, Mauro Fornelli, futuro primo salitore del Pilier Gervasutti. Andammo anche nel gruppo del Venediger e del Grossglockner, sempre come uscita della scuola. Nel 1950 ci fu anche una uscita nei Picos de Europa. Ormai eravamo diventati molto forti, grazie anche ai Giuseppe Marchese, Gino Balzola, Piero e Mauro Fornelli e altri nuovi istruttori che rappresentano la seconda generazione.

Tutto filò liscio fino al 1952, quando nacquero divergenze di vedute circa la conduzione della scuola tra il sottoscritto, fautore dell’alpinismo classico, e Rosenkrantz, che da atleta qual era già allora preferiva un tipo di arrampicata che oggi potremmo definire sportiva.

Non litigammo mai, semplicemente la pensavamo in maniera diversa, io col mio gruppo fui messo in minoranza e mi ritirai. Il povero Giorgio non era fatto per l’organizzazione, e il massimo delle indicazioni che dava agli allievi era “ci troviamo lassù e andiamo ad arrampicare…”.

Con me, per gli stessi motivi, erano usciti dalla scuola Balzola, Marchese, Giuseppe Flora e tanti altri. In pratica alla scuola era rimasto Rosenkrantz con diversi allievi. Alle uscite si arrampicava un po’, si faceva la merendina, ma in sostanza non concludevano molto.

Ricordo che dissi al povero Andreis: “Quel quadro di Gervasutti, così come l’ho messo ora lo tolgo, so già come va a finire la scuola. È vero che Gervasutti andava anche sui massi ma il suo campo di azione era lassù, in alto. Bisogna cambiare nome alla scuola”. Andreis era un nobile, dal fare pacato e buono, e cercava come poteva di ravvicinare le parti, ma io non ne volli sapere. Dopo un anno, nel 1953, Andreis, d’accordo con Rosenkrantz, mi telefonò perché la scuola stava prendendo una brutta piega e mi chiese di rientrare. lo l’organizzazione l’avevo nel sangue, rientrai e introdussi la tessera e l’obbligo di presenza per gli istruttori.

Nel 1954 Rosenkrantz partendo per il Monte Api mi disse “Pino, al mio ritorno portiamo avanti la scuola col tuo concetto; come vedi anch’io sto partendo per l’Himalaya e non per i sassi delle Courbassere”. Purtroppo morì in quella stessa spedizione, e in seguito per ricordarlo gli dedicammo il secondo corso.

Dal 1954 in poi la scuola, nuovamente impostata, diventò il punto di aggregazione dei più bravi del momento. Non andavamo per simpatie: chiunque fosse invitato doveva fare almeno un anno come allievo, e poi se era idoneo diventava istruttore. Dino Rabbi, ad esempio, entrò così, e non fece difficoltà per quell’anno da allievo.

Gli aiuto-istruttori invece erano allievi che si erano distinti alla fine del corso. Nel 1958 nacque il terzo corso, detto di “perfezionamento alpinistico”; nel 1966 verrà dedicato a Ribaldone, morto sul Mont Blanc du Tacul. La scuola andava ormai fortissimo e decisi di fare una spedizione mescolando il sacro e il profano. Scelsi cioè elementi della scuola ma accademici.  Eravamo in quattro:  io,  Fornelli, Luciano Ghigo e Marchese.

Nel 1961 per la spedizione del CAI Torino l’elemento di aggregazione fu invece il fatto di appartenere alla scuola. Volevo che gli istruttori avessero un’opportunità per conoscere il grande alpinismo.

In seguito organizzai ancora come Scuola Gervasutti due spedizioni, nel ’68 e nel ‘71. Con il 1972 si conclude la mia avventura alla “Gervasutti”: lascio la direzione per dedicarmi maggiormente alla Commissione Nazionale delle Scuole di Alpinismo».

La questione del Lei
«Rispetto alla disciplina ero molto rigoroso. Lionello Leonessa, ad esempio, quando lo vidi volevo buttarlo fuori. Aveva i calzoni strappati e la camicia in disordine, allora gli hippy non erano ancora di moda e fu promosso con un giudizio appena sufficiente».

È vero che pretendevi che allievi e istruttorì si dessero del Lei?
«Sì, perché volevo che l’allievo non prendesse confidenza con l’istruttore. Se dai del “tu” e ti fai dare del “tu” poi gli allievi prendono troppa confidenza. A volte sentivo l’allievo che diceva “Signor Istruttore…”: a me faceva piacere. La scuola io la vedevo come ambiente di lavoro dove l’operaio da del lei al capo officina e viceversa.

La disciplina era anche un fattore di sicurezza, non c’erano i mezzi tecnici di adesso. Era tutto più approssimativo e io stesso per evitare che gli allievi combinassero pasticci consigliavo agli istruttori di salire non assicurati. L’istruttore metteva in gioco la sua pelle e sacrificava molto del suo tempo alla scuola; io volevo che questo fosse messo nel giusto risalto. Oggi è diverso, c’è più maturità, con discrezione si può dare la dovuta confidenza, ma allora sarebbe stato deleterio».

Tutti accettavano questa severità o c’erano dei ribelli?
«Gli scapestrati c’erano già allora, da Guido Rossa a Giacomo Melegatti e altri ancora. Ma all’interno della scuola c’era una sola legge. Chi entrava sapeva quali erano le regole e doveva accettarle senza condizioni. Alcuni forti alpinisti del tempo, come Andrea Mellano ad esempio, furono invitati ma rifiutarono non sentendosi tagliati per la scuola».

Le donne: gioie e dolori
«lo ero contrario alle donne nella scuola, ma nel breve periodo che mi allontanai tra il 1952 e il 1953, Rosenkrantz le fece entrare. C’erano tante belle ragazze e due mi sposarono due istruttori. Uno di questi era Mauro Fornelli. Nel 1953, quando rientrai, alla prima lezione vidi queste due signorine e subito precisai: “Care ragazze, anche se fate parte del sesso debole, qui alla scuola sarete trattate come i maschi”. Per un po’ sembrava funzionare finché un giorno Luigi Donvito non cominciò a pretendere che le fosse assegnata una allieva di cui era invaghito.

Giuseppe Pino Dionisi con fa sua inseparabile coppola bianca

Da quel momento divenne ogni volta una cagnara tra gli istruttori per avere questa o quella fanciulla. Così un po’ per principio un po’ per logica non gliele davo mai.

La pressione cominciava a salire nella scuola, finché non successe un fattaccio. Eravamo alla capanna Gervasutti, l’indomani avremmo dovuto salire l’Aiguille de Leschaux. Essendo il rifugio molto piccolo, io e alcuni istruttori decidemmo di dormire fuori.

Sentii un po’ dì cagnara, ma pensai di lasciar perdere. Ad un certo punto un urlo squarciò nel silenzio della notte, corsi nella capanna e vidi la scena: un istruttore e un’allieva nella stessa brandina erano crollati addosso a un’altra ragazza rompendole un braccio. Andai su tutte le furie. Inutile dire che l’istruttore fu sospeso dalla scuola».

Chi era questo don Giovanni?
«No, il nome non lo dico, lasciamo perdere. La cosa comunque non era finita lì. Il giorno dopo, scendendo, dovevamo attraversare un canale ghiacciato, io avevo raccomandato la massima prudenza.

Meno male che mi venne l’intuizione di mettermi sotto le tracce con la piccozza piantata, perché non avevo ancora fatto in tempo a fare la raccomandazione, che arrivarono mano nella mano, ballando allegramente, un istruttore e una allieva. La ragazza cadde e la presi al volo, d’istinto.

Se fosse andata giù avrebbe fatto un salto di più di 100 metri. Arrivati sotto in Val Ferret dissi: “Care ragazze, finite il corso, e un altr’anno andate dove volete ma alla scuola Gervasutti punto e basta!”».

Un’attività completa
«Alla fine dei corsi l’allievo doveva essere in grado di salire sul terzo e sapersela cavare bene anche sul misto. Già al primo corso era previsto un bivacco, non in parete ma su pietraie in quota. Gli allievi dovevano costruire un muretto, lentamente e quasi a torso nudo per non sudare. Dovevano poi prepararsi da mangiare e io controllavo che tutto fosse fatto a regola d’arte».

Qui sopra, Gianni Ribaldone, istruttore della Gervasutti caduto con due allievi durante una uscita della scuola. Fortissimo alpinista, Ribaldone fu famoso soprattutto come speleologo: suo fu il record italiano di profondità alla Spluga della Preta, sua fu una drammatica operazione di salvataggio in Val Brembana dì alcuni speleologi rimasti bloccati a -450 metri. Questo intervento gli valse la medaglia d’oro al valor civile.

Era previsto che gli allievi andassero da primi in cordata?
«Già dal secondo corso, a discrezione dell’istruttore, l’allievo poteva fare alcuni brevi tratti al massimo di terzo grado. Obbligatoria, per tutti, alla fine di ogni uscita era una corda doppia. Allora non c’erano i discensori e non era così facile, e poi volevo ricordare che proprio una corda doppia era stata la causa della morte di Gervasutti. La nostra attività era completa ed è per questo che la nostra scuola è sempre stata definita come la prima d’Italia.

Negli anni ’50 ci fu dato il massimo riconoscimento, lo infatti, come direttore della Scuola Gervasutti, fui invitato, insieme a Walter Bonatti e a Bruno Detassis a svolgere l’attività di osservatore ai corsi per Istruttori Nazionali di Alpinismo».

Un incidente che fece discutere
«Purtroppo mi è anche capitato di dover andare a dire a un padre o a una madre che il proprio figlio era morto. Un nostro allievo cadde alla Rocca di Miglia. Fu un incidente dovuto al fatto che non si richiedeva la visita medica. L’allievo stava scendendo con una serie di corde doppie, alla fine di ognuna c’erano due istruttori ad attenderlo. Nel breve tratto tra una e l’altra il ragazzo si accasciò vicino a Ravelli e precipitò nel vuoto. La madre in seguito ci disse che andava soggetto a questi mancamenti».

La morte di Gianni Ribaldone, una grande tragedia
«L’incidente di Ribaldone ce lo raccontò nei particolari Castelli, che era l’istruttore della seconda cordata impegnata quel giorno sul canalone Gervasutti. Ecco, vedi, qui dobbiamo parlare di nuovo di disciplina. Il canale Gervasutti non era stato programmato, quei due istruttori dovevano salire la Ovest della Tour Ronde. La sera, al rifugio Torino, Ribaldone mi chiese: “Pino, ti spiace se domani andiamo a fare il canalone Gervasutti?”. lo risposi seccamente che non volevo creare dei precedenti. Di lì a poco fu la volta di Peppino Castelli, che mi fece la stessa domanda. Lo pregai di non insistere. Sembrava ormai tutto chiarito quando arrivò da me Guido Machetto che era su con la scuola di Biella e mi disse: “Cristo, Pino, io sono un duro, ma tu sei ancora più duro. Lasciali andare”. lo e Machetto eravamo buoni amici e gli risposi “Tu pensa alla tua scuola che io penso alla mia”.

Sta di fatto che a forza di insistere cedetti, ma pretesi che alle quattro del mattino fossero già all’attacco del canalone. E così fu. Faceva freddo e le condizioni erano ideali, io nel frattempo stavo salendo al Tacul con il primo corso e arrivato all’uscita del canalone mi affacciai per sincerarmi che tutto fosse a posto. E lì fu la sorpresa. Non c’era nessuno in vista. Dopo poco sentii volare l’elicottero e capii che era successo qualcosa. Stavo provando a chiamare Rabbi con la radio sulla cresta di Rochefort quando vidi lontanissimo Castelli che urlava “Aiuto, aiuto Pino, non posso più muovermi, Ribaldone e gli allievi sono caduti”. Era scioccato, io non ammetto che un istruttore perda la testa così.

A fianco, da sinistra: Pino Dionisi, Giorgio e Daniele Rosenkrantz e Giovanni Mauro dopo l’ascensione invernale al Cervino del 1949, organizzata come Scuola Gervasutti.

Bisognava aiutare Castelli ed è così che con diversi altri istruttori abbiamo calato corde per più di duecento metri. Per ultimo sono sceso io. Quando li raggiunsi, mi resi conto che se l’istruttore era scioccato, gli allievi sragionavano del tutto e non c’era verso di farli salire anche a spinte.

Secondo il racconto di Castelli, le due cordate si trovavano dove il canalone Gervasutti obliqua a sinistra quando Ribaldone, ricuperati gli allievi, disse loro: “Siamo su un banco di neve instabile, non muovetevi per nessun motivo, non assicuratemi neanche, fate solo filare la corda e non succederà nulla”. Faceva freddo e gli allievi si misero a battere i piedi per scaldarsi. Fu questione di un attimo, il banco cedette. Nella rovinosa caduta i ragazzi trascinarono con loro il povero Ribaldone.

Ecco, vedi, è stata una mia debolezza averli lasciati andare. C’erano tutte le condizioni favorevoli, il freddo, l’orario, gli istruttori esperti. La causa della tragedia furono gli allievi: come vedi la mia severità con loro non era così fuori luogo».

Nota: la storia della Scuola Gervasutti è il tema del libro La minoranza arrampicante, di Giuseppe Garimoldi.

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La mia Gervasutti, intervista a Pino Dionisi ultima modifica: 2019-01-12T05:19:04+01:00 da GognaBlog

1 commento su “La mia Gervasutti, intervista a Pino Dionisi”

  1. 1
    Carlo Crovella says:

    Solo per amore di precisione storica mi permetto di sottolineare che qui risulta trattato in modo un po’ affrettato il “passaggio” di consegne fra Scuola Boccalatte e Scuola Gervasutti nell’ambito del CAI Torino.

    La Boccalatte, diretta in prima persona da Giusto Gervasutti fino alla sua scomparsa (estate 1946), era stata condotta dallo stesso Gervasutti in seno alla SUCAI Torino sul finire del conflitto bellico.

    Nonostante la scomparsa di Gervasutti, la Boccalatte registrò alcune stagioni molto positive con grande afflusso di allievi. L’achitrave organizzativo della Scuola si incentrava nella figura di Giulio Castelli, che però  sua volta peri’ in montagna nei primi anni ’50.

    Per questi e altri motivi la SUCAI non era piu’ motivata a portare avanti la Scuola di alpinismo Boccalatte: infatti le energie dei sucaini confluirono (1951-52) nel primo “Corso sci-alpinistico invernale”, che si evolvera’ poi nella Scuola di scialpinismo ancora oggi in attività.

    Per tali motivi si erano create le condizioni per recepire, in seno alla Sezione di Torino del CAI, la più recente e gia’ avviata Scuola di alpinismo Gervasutti.

    Si può quindi sostenere che le due prestigiose Scuole del CAI Torino (la Gervasutti di alpinismo e la SUCAI di scialpinismo) derivano dalla personalita’ carismatica di Giusto Gervasutti, decisamente in anticipo sui tempi.

    Per chi desidera approfondire l’argomento e in particolare i legami fra Giusto Gervasutti e la SUCAI Torino, incentrati (ma in modo non esclusivo) nell’esperienza della Scuola Boccalatte, segnalo il link ad uno specifico testo:

    https://www.scuolasucai.it/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=38:giusto-gervasutti-l-eredita-didattica-di-uno-sci-alpinista-completo-e-i-suoi-profondi-legami-con-la-sucai-torino&catid=16&Itemid=132

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