La rottura degli antichi equilibri che governavano la montagna attraversa anche la comunicazione, sempre più confusa, superficiale e spesso fuorviante.
La montagna raccontata
(tra nuove mode e resistenti “don Chisciotte”)
di Paola Favero
(forestale, alpinista e scrittrice, vicepresidente del GISM-Gruppo Italiano Scrittori di Montagna)
(pubblicato su Montagna, Annuario GISM 2024)
La percezione del paesaggio che ci circonda è mediata dalla nostra sensibilità, dall’epoca in cui viviamo, dalle suggestioni e dalla cultura, dai media e dalla pubblicità, così che a un sentimento individuale e unico si affianca spesso un comune modo di guardare e considerare un certo luogo. Anche alle montagne accade così, con la grande differenza che a quanto riassunto sopra si aggiunge anche la storia di chi in montagna vive e lavora, e ancor più la suggestione di chi quelle montagne ha salito, d’estate o d’inverno, su pareti verticali o lungo avventurosi sentieri.
Quando guardiamo una montagna è come se questa fosse formata da diversi strati: la parte geologica con un determinato caratteristico tipo di rocce, la sua struttura dettata da particolare orografia e storia evolutiva, con la presenza di valli, piani, pareti verticali, e poi sopra un altro strato fatto dalle comunità viventi che la ricoprono, i boschi che rivestono i versanti, i pascoli, i cespuglieti e gli arbusteti e, più in alto, le praterie d’alta quota. E ancora, un altro strato, le opere dell’uomo, le strade, i sentieri, le chiese e le cappelle votive, le fontane e gli steccati, le croci di vetta.
Ma non finisce qui. Altre reti invisibili avvolgono tutto questo, trasparenti e immateriali ma non meno presenti, pregnanti, vive: da un lato la toponomastica, le leggende, le tradizioni che circondano cime e valli, dall’altro la storia “alpinistica” di ogni montagna, le vicende che si sono svolte sulle sue pareti, i ghiacciai che sono stati percorsi, le cime raggiunte, le avventure spesso tragiche che si sono consumate. È così che l’alpinismo in qualche modo modella la montagna e la rende viva, creando nella mente di chi si approccia ad essa suggestioni, paure, sogni, e arricchendola di contenuti e bellezza. Generazioni di alpinisti ed escursionisti si sono mossi in montagna seguendo queste suggestioni, magari leggendo i libri di Bonatti, Messner, Diemberger o Terray, e hanno percorso le sue vie ben sapendo in che epoca erano state realizzate e chi le aveva per primo salite.
Ma oggi, in quest’epoca così diversa, confusa, spesso superficiale, dove tutto è spinto verso la velocità e il consumo immediato, il passato conta sempre meno, come la storia che sta dietro, e non c’è tempo per conoscerlo, apprezzare le montagne per il loro bagaglio di storia e cultura: tempo sprecato per chi viene spinto ad avere tutto e subito. L’unica cosa che conta è il gesto presente, l’appagamento di un desiderio, il realizzarsi di una sfida, l’imitazione di un modello. La montagna, dopo essersi riempita di racconti, valori, memorie, ora si svuota e diventa solo un bene di consumo. Ed ecco che la comunicazione di oggi diventa omologata, ridotta a gradi e schematiche valutazioni, privata del suo passato e della sua storia, solo parco divertimenti per appagare desideri e rivalse, o teatro di fenomeni e azioni spettacolari da mettere nei diversi siti. Anche il semplice escursionista non sfugge a queste dinamiche ed è così che, invece di fotografare l’ambiente che lo circonda, spesso finisce per postare selfie sulla cima e poi al bar dove si conclude, tra birre e cibo, la giornata.
Di montagna si parla così solo per raccontare quello che si è fatto, raccogliendo una seppur minima visibilità a seconda del numero di “like” conquistati, o per evidenziare imprese che hanno per lo più il comune denominatore della velocità o dell’effetto spettacolare. E in questo marasma di informazioni mediate sempre da un sistema neppure tanto occulto, che spinge verso la direzione voluta dal consumismo – anche di montagna – non si riesce più a distinguere tra il vero e il falso, tra un approccio corretto e altri a volte addirittura negativi (come l’uso dell’elicottero per gettarsi dalle cime con la tuta alare o per fare scialpinismo. Ma che importa? Sono spesso esperienze estreme e adrenaliniche), così che anche le avventure alpinistiche positive, spesso incredibilmente belle, passano inosservate o vengono conosciute solo dagli alpinisti più attenti e legati ancora a un approccio diverso alla montagna.
Sì, perché c’è sempre chi resiste, chi continua tenacemente a portare avanti un’etica legata a quello che di buono il passato ci ha insegnato, arricchendo l’esperienza alpinistica con nuove sfide e nuove frontiere che il presente sempre ci pone. Nascono così anche oggi grandi imprese, salite un tempo impossibili, traversate, esperienze solitarie prolungate come mai prima, superamento di livelli tecnici inimmaginabili. Mentre a fianco degli alpinisti di punta, oggi come un tempo, continuano a muoversi con stile puro e valori mai perduti tanti e tanti amanti della montagna che ancora la percorrono con passione e consapevolezza, come moderni don Chisciotte un po’ fuori dal tempo e dalle regole dettate da questa folle società, ma fieri di essere ancora idealisti e sognatori.
In questo contesto già molto caotico e disequilibrato, dove è difficile muoversi, e dove siamo bersagliati da un eccesso di informazioni, proposte, suggerimenti, news e fake news, si fa presente poi, in modo sempre più pressante, tutta la problematica legata alla crisi climatica e ambientale. La montagna, come tutti gli altri ambienti naturali, è sempre più spesso al centro di eventi estremi: frane, che spesso interessano anche importanti vie di arrampicata; smottamenti, che distruggono interi versanti e tutta la viabilità e sentieristica che li attraversava; crolli di ghiacciai, che stanno sempre più inesorabilmente fondendosi; piogge intense e tempeste di vento, la più famosa delle quali, la tempesta “Vaia”, ha distrutto migliaia di ettari di bosco nel 2018. Gli ambienti del CAI, come il GISM e anche l’Accademico, si stanno sempre più interessando a quanto accade, cercando di fare corretta informazione e di spingere verso comportamenti più consapevoli e meno impattanti anche nella normale frequentazione delle cime.
La montagna, da sempre amato terreno di avventure, libertà, vita, ora ha bisogno del nostro aiuto, ha bisogno di essere protetta, preservata nella sua integrità, difesa da ulteriori scempi e distruzioni. Sì, perché alle devastazioni che purtroppo seguono il riscaldamento globale si affiancano le sempre più devastanti azioni dell’uomo con la costruzione di nuovi impianti sciistici, l’apertura forsennata di nuove strade e piste ovunque, la proposta di camere in alta quota o di rifugi sempre più grandi e tecnologici, l’uso di elicotteri per portarsi in quota senza fatica. E, ancora, il taglio di foreste e boschi, oggetto di folli politiche forestali che, ignorando la terribile crisi che stanno attraversando, spingono a tagliare sempre di più per contrastare la crisi energetica o ridurre l’import di legname. In un tempo che richiederebbe prudenza, attenzione, cura, conservazione, stiamo invece distruggendo quello che ancora rimane, giustificando queste azioni con informazioni false e fuorvianti.
Come la necessità di fare nuovi collegamenti sciistici per far vivere la montagna, facendo finta di non sapere che la neve ormai cadrà sempre meno e sempre più in alto e che fare neve artificiale sarà sempre più difficile e oneroso, anche in termini di acqua, energia e condizioni climatiche. Ma non solo: ignorando anche che sempre più persone vanno in montagna cercando pace, tranquillità respiro e, anziché solcare le piste da sci peraltro sempre più costose, preferiscono camminare, percorrere itinerari con le ciaspole o con gli sci d’alpinismo. Per i problemi ambientali poi è ancor peggio: o vengono assolutamente ignorati – non si deve creare panico o dubbi – o si cerca di rassicurare chi è preoccupato garantendo che con la tecnologia si potrà risolvere tutto. Basta tener sotto controllo la situazione, monitorare tutto magari con costosi sistemi e progetti, avere numeri di sicurezza per ogni evenienza: peccato che poi, quando l’evento accade, si manifesti con modalità e potenza spesso imprevedibili, come dimostrano i tragici eventi che hanno colpito l’Italia negli ultimi anni.
Per i frequentatori della montagna sicuramente la tempesta “Vaia” è stato un evento assolutamente inaspettato, che ha dimostrato come possano essere distruttivi gli eventi estremi scatenati dal riscaldamento globale, ma pochi hanno poi riflettuto su fatto che a volte troppa tecnologia possa diventare addirittura controproducente. E porto l’esempio dell’alto Agordino, rimasto isolato per un giorno intero perché tutte le comunicazioni erano saltate e nessuno sapeva del disastro che era accaduto, o dei molti anziani rimasti al freddo e senza poter cucinare perché erano saltate le linee elettriche, e al posto delle vecchie stufe a legna avevano moderne e tecnologiche stufe a pellet, dove tutto funziona in modo automatico ma che non si possono usare manualmente, creando così una totale dipendenza dalla fornitura di energia. Quanto accaduto dovrebbe farci riflettere sulla necessità di essere invece più autonomi e capaci di reagire alle avversità che sicuramente continueranno a presentarsi, ma se seguiamo l’informazione diffusa o le spinte del mercato vedremo che tutto si dice tranne questo, inducendo le persone a rifugiarsi sempre più in false certezze e sicurezze, appoggiandosi a tecnologie e numeri verdi che quando mancano le fonti energetiche o informatiche cessano di funzionare.
Nel mondo alpinistico un esempio di come l’informazione viaggi su binari distorti è stato l’evento che nel 2022 ha coinvolto il Ghiacciaio della Marmolada provocando 11 morti. Nelle ore seguenti e nei giorni successivi nei media si sono alternati decine di esperti ma, accanto ai meteorologi o ai glaciologi che hanno spiegato con competenza quanto accaduto, hanno parlato politici, personaggi famosi, rifugisti, alpinisti più o meno competenti, presentatori, attori, cantanti… di tutto e di più, tutti a dare la loro interpretazione e pure la soluzione (“non si deve andare in ghiacciaio alle due di pomeriggio”. Peccato che il crollo abbia colpito una zona a 200 m dal rifugio del ghiacciaio, dove stavano pranzando molte persone. Oppure: “è crollato un seracco in Marmolada”, dove non era alcun seracco…), riempiendo pagine cartacee o virtuali di fake e sciocchezze. Se entriamo poi nella materia ambientale, quella a me cara, gli esempi si moltiplicano, dal racconto battente delle superfici forestali che sono aumentate così tanto che necessita tagliare di più, al definire il legno la miglior fonte di energia perché rinnovabile e carbon neutral. Il tutto con argomentazioni convincenti e spesso sostenute da esperti che, giocando con la poca conoscenza del pubblico, inducono a convincimenti falsi o quantomeno parziali.
Solo per fare un esempio, il tanto declamato aumento dei boschi italiani, che è tale solo per superficie ma non certo per biomassa per ettaro, è comunque viziato da una precisazione mancante. Eh sì, poiché quando si diffondono questi dati non si dice mai che la superficie forestale di cui si parla, affermando che è aumentata, è quella considerata tale dalla legislazione e quindi dalla statistica, e non quella realmente boscata. Questo perché per legge sono considerati boschi anche quelli distrutti dagli incendi, dalla tempesta “Vaia”, dagli attacchi del bostrico: quella superficie infatti rimane superficie forestale anche se il bosco al momento attuale non c’è più. Ma agli effetti pratici tutte quelle migliaia di ettari distrutti non ospitano piante e alberi capaci di svolgere le funzioni che aveva prima il bosco: non assorbono CO2, non mitigano il clima, non ospitano biodiversità. È un bosco distrutto che nel tempo dovrebbe ritornare, ma che ora non c’è. Come posso allora sostenere che si deve tagliare di più perché il bosco è aumentato?
Se si volesse fare una corretta informazione e non usare i dati solo per portare avanti altri interessi – non certo quelli ambientali – basterebbe spiegare bene cosa si intende per superficie forestale. Allo stesso modo quando si spinge la gente a scaldarsi con la legna o a costruire la centrali a biomassa legnosa, sostenendo che il legno è rinnovabile e carbon neutral, si raccontano cose non vere. L’albero impiega anni per creare il legno del tronco e dei suoi rami, che viene poi bruciato in pochi minuti, e non è certo immediatamente rinnovabile. Altrettanto falso è dire carbon neutral sostenendo che la CO2 che il legno ha immagazzinato è la stessa che viene riemessa al momento dell’utilizzo. I tempi, come detto sopra sono ben diversi, e soprattutto quel pezzo di legno prima di arrivare alla stufa o alla centrale è stato tagliato, esboscato, depezzato, trasportato, tutti processi che recano un’emissione di anidride carbonica portando il bilancio dell’operazione non certo a una presunta neutralità.
Di esempi ce ne sarebbero moltissimi, ma la cosa che vorrei sottolineare è come il disequilibrio che pervade i sistemi naturali, il clima, la stessa società attraversi altrettanto pesantemente la comunicazione, che diventa anno dopo anno sempre più ridondante, confusa, spesso manipolata e fuorviante, sicuramente manovrata e spinta da interessi ben diversi da quelli della corretta informazione all’utente. Anche la montagna la subisce, in tutti suoi aspetti, da quello ambientale a quello etnografico, dal comparto turistico allo stesso alpinismo, e mentre chi è nato in altri tempi ha forse maggiori possibilità di difendersi, i giovani sono spesso fagocitati dal sistema e non hanno mezzi per vedere con altri occhi la realtà. Per questo il ruolo di chi ha modo di comprendere questi meccanismi è sempre più importante, dallo stesso GISM, al CAI, a ogni singolo fruitore della montagna che ha potuto avvicinarla in altri tempi, dove non sono certo mancate le mistificazioni o le falsità, ma erano più facilmente smascherabili, e dove c’era comunque una libertà di scelta che forse oggi non abbiamo, condizionati da un pensiero dominante che tende a renderci strumenti di altro, fuori dal tempo delle montagne.
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Molto in accordo con il sig. Cominetti.
Sono un accompagnatore del CAI e tuttavia mai accompagnerei orde di soci a fare una gita, una salita o come volete definirla.
Quando ho 10 persone, chiudo le iscrizioni, spiegando che anche le troppe presenze danno fastidio (a me, in primis) e fanno danni.
E, se mi si presenta l’occasione, chiedo silenzio e spiego il rispetto che si deve nell’ascolto dello stesso.
Spero nel mio piccolo di dare un minimo contributo positivo…
Adriano, vero i Monti del Sole sono zone molto infestate dalle zecche. Meglio, così la folla va nel gruppo del Catinaccio.
Tranquillo Alberto, ci pensano già le zecche a tenere i luoghi ancora avventurosi e “puliti”… dai turisti.
davero molto interessante e utile per farsi opinione
Si, ma bisogna stare attenti. Se ne viene parlato troppo, pubblicizzato, ADDIO terreno d’avventura, addio intimità con la natura del luogo, addio la sua originalità.
Anche perchè ci sarà qualcuno pronto con pennello, vernice, trapano e cavo, ad attrezzare quella cengia per renderla sicura e fruibile. Magari una sezione del CAI…
Non sono le sigle e le patacche che hai sulla maglietta, segno di appartenenza a gruppi, associazioni, amatori dilettanti o professionisti della montagna, che fanno la differenza positiva, ma la sensibilità che ognuno di noi ha dentro, verso quello che ci circonda. Mi sembra che la montagna sia sempre più un ambiente da consumare, sempre di più e in fretta, come se fosse un palcoscenico dove recitare la parte di quanto siamo ganzi, piuttosto che un luogo dove vivere un esperienza personale e intima, quindi anche molto rispettosa di quello che ci circonda, sia come ambiente naturale che come cultura e storia dei luoghi.
Ciao Paola, sinceramente, a parte tanti discorsi, non vedo nella pratica, come Cai, Caai e tantomeno Gism, invitino i loro associati a una pratica “sostenibile” della montagna.
Tanto per fare un esempio recentissimo, sono appena stato a lavorare in Sardegna e all’Elba accompagnando escursionisti e l’unico fastidio (in tutti i sensi) alla natura che ho notato, sono stati gruppi del Cai numerosissimi. Anche di 50 persone con un solo accompagnatore.
Caciaroni, irrispettosi verso gli altri escursionisti “normali”, e vestiti con quelle magliette puzzolenti di plastica dai colori fluorescenti personalizzate con aquile e nomi di sezioni per fare a gara a chi ce l’ha più grossa, la scritta.
Insomma, ho visto ANCHE nei soci Cai il cannibalismo crovelliano, segno che i propositi possono anche essere buoni ma la necessità di sfogo di chi si è costruito attorno un sistema asfissiante, prevale su tutto. Anche su quel minimo di buonsenso che si dovrebbe avere, ognuno dentro di sé. Ma che proprio non c’è.