La parete

La parete
di Roberto Davò
(scritto nel dicembre 2020, dedicato a Titti, Federica e Arianna)

Non ci volevo proprio venire.

Roby, cosa cavolo fai. Hai 61anni e ti porti ai piedi di una parete che non conosci. Di cui non sai la lunghezza, le difficoltà, non esiste una relazione e sai solo che sarà difficile, molto, molto difficile.

È vero, ho sentito dire che altri hanno affrontato pareti simili e le hanno tirate fuori bene, ma erano diverse ed è probabile lo abbiano detto solo per rincuorarmi. E poi, una cosa è chiara: questa è la MIA parete. Non appartiene a nessun’altro.
Figurarsi.

Non conosco neanche il tipo di roccia su cui metterò le mani: dolomia, granito, calcare… Mettiamola così, credo sia gneiss, quando non sai su cosa stai arrampicando lo classifichi sempre come gneiss e risolvi in un colpo solo tutti i dubbi pseudo geologici.

L’avvicinamento alla parete è stato veramente duro, non me lo aspettavo. Sarà stato lo zaino pesantissimo o la grande incognita del viaggio. In alcuni momenti ho rasentato l’angoscia, scacciata via a forza grazie all’incedere del passo. Puntavo ad arrivare all’attacco il prima possibile, consapevole che una volta iniziato ad arrampicare mi sarei sentito meglio.

Ecco, “arrampicare”. Parlando con tanti amici, e leggendo a destra e a manca, mi son reso conto che la maggioranza delle persone adopera il termine “scalare”. Ma sarà perché sono un rigidone, o più semplicemente per il suono e le immagini che mi evoca, io non posso che affidarmi invece all'”arrampicata”, a quel legame fatto di corde e attacchi che mi dà il senso di una  libertà maggiore e infinita. Quella libertà che mi ha portato dove dovevo andare.

Finalmente ci sono, sono arrivato alla base della parete. Sono avvolto dalla nebbia nella quale intravedo un enorme tetto, prima che la parete scompaia di nuovo avvolto dalla nube umida. Tutto intorno l’ambiente mi è nuovo. Le nuvole nascondono ogni cosa. È probabile sia la prima volta che mi trovo qui.

Alzo lo sguardo e non può non venirmi in mente la famosa citazione del grande alpinista René Desmaison nel libro La montagna a mani nude. “Non ne vedremo mai la fine,” dice, descrivendo la via sulla Ovest di Lavaredo.

Apro lo zaino e comincio a preparare il materiale. Avrò bisogno di una montagna di roba. Oltre alla dotazione classica, quella composta dalle corde e dalle protezione rapide di dadi e friends, decido di portare il martello e una bella mazzetta di chiodi misti. Ne avrò parecchio bisogno. Inoltre, ho con me tutto l’occorrente per bivaccare. Però non porterò alcuno spit, non posso. Se non riuscirò a passare verrò respinto. Su questa parete non si può barare e non è una questione etica. La mia concentrazione e determinazione saranno fondamentali. L’unico collegamento con il mondo esterno sarà un lungo cordino da 4 mm che mi tirerò dietro e servirà per rifornirmi di cibo e acqua.
Mi imbrago e incomincio ad arrampicare.

I primi tiri sono già difficili. Soprattutto, però, sono io che arrampico male: sono contratto e impacciato, non riesco ad adattarmi a questo ambiente ostile e solo dopo molte ore arrivo alla base del tetto. Mi devo attrezzare per il primo dei tanti bivacchi che mi aspettano. È ormai ufficiale, domani inizierà un lavoro lunghissimo di chiodatura che mi terrà impegnato per diversi giorni.

Affronto la prima notte in parete. È ovvio, dormo pochissimo e in testa mi passano mille pensieri informi, non so se definirli belli o brutti, ma so per certo che sono tantissimi, un turbinio che li porta ad intrecciarsi senza avere né capo né coda. La mattina, quando la luce arriva a colpirmi, non sono molto riposato, ma sono comunque pronto ad affrontare la prima grande difficoltà.

Primo tetto
Non ne conosco il motivo, so soltanto che fin da subito, dai primi approcci rudimentali, mi sono trovato a mio agio con l’arrampicata artificiale. Le prime staffe con i gradini in alluminio che ”suonavano” avevano un loro grande fascino, e anche se ora si usano quelle in fettuccia il concetto rimane uguale.

Passano ben sette giorni. Sette giorni di chioda, schioda, metti e togli dadi e friends. Solo allora esco dal tetto e ritrovo la verticalità della parete.

Non avrei mai pensato di riuscire a fare una cosa del genere, eppure supero la prima difficoltà stanco, ma non stravolto. Lo devo forse al fatto che ho bisogno di conservare ancora tante energie per il lungo viaggio che mi aspetta. Sia quel che sia, il morale ne trae beneficio e mi dà una bella carica di fiducia per il proseguimento dell’arrampicata.

Trovo un buon terrazzo, ideale per il bivacco,  dove potrò dormire sdraiato e soprattutto usare il mio cordino di collegamento per farmi mandare i primi rifornimenti.

In questi giorni ho sentito tante voci chiamarmi dalla base della parete. Nell’aria, i suoni della mia famiglia e di tanti amici. Però non riesco a vedere nessuno, questa dannata nebbia avvolge ogni cosa. Ma dove  mi trovo? Pare di essere in un clima tropicale ma non è davvero possibile, non posso essere finito così lontano. Sarà la solita parete dolomitica dove regnano costanti la nebbia e la pioggia. Il sole, una visione da godersi solo per quindici giorni all’anno.

Ogni giorno mi sveglio e ascolto la mia famiglia che mi chiede come sto da lì sotto. Che voglia hanno di farsi questa scarpinata ogni volta. Sanno bene che non potevo esimermi dall’affrontare questa mia parete e infatti mi hanno lasciato andare. Ma non è stata una delle mie tante cretinate, a quelle sono tutti abituati. E nemmeno, a quanto mi dicono, la mia incontrollabile carica agonistica, quella che mi fa correre senza mai riposo. Questa volta è stato diverso, molto diverso.

Anche ai miei amici è arrivata la voce della mia… impresa. E anche loro hanno cominciato a farsi avanti e a recarsi all’attacco. Però restano pur sempre soltanto delle voci sullo sfondo. Alcune non le sento da tantissimo, arrivano alle orecchie con grandissimo piacere.

Da domani inizia una lunga, lunghissima sezione di parete verticale. È decisamente più congeniale alle mie capacità ma non posso negare che metterà a dura prova la mia resistenza. Forse, ancora di più, metterà alla prova la mia pazienza. Questa lunga e solitaria nuotata in un oceano di roccia.

Sono passati molti giorni. Lo ammetto, ho avuto anche qualche momento di cazzeggio, ma pian piano mi sto portando avanti, sotto l’attacco del secondo tetto. Ancora un altro passo, Roby.

Secondo tetto
Sono abbastanza riposato e piuttosto determinato ad affrontare questa seconda asperità. L’esperienza del tetto precedente mi è servita a rendere i gesti più automatici, quasi armoniosi. I primi giorni corrono lisci pur nella scomodità precaria dei bivacchi. Quando arrivo circa a metà del percorso, però, cominciano le cattive notizie: mi sento poco bene. Sarà forse il vuoto continuo, ma ho conati di vomito e la sonnolenza mi invade.

Sono costretto a fermarmi, aspettando che passi questo spiacevole fastidio. Per fortuna, è solo un disagio momentaneo che dura alcune ore. Posso riprendere il mio lavoro di chiodatura, e in una settimana mi porta fuori anche da questo secondo tetto.

Riprendo la verticalità e sono molto sollevato, benché non sappia cosa mi aspetta. Dormo, sogno e mi immagino la parete possa finire prima delle mie previsioni. Ma è solo un sogno, appunto. Roby, non perdere la concentrazione. Continua a salire.

Come è successo precedentemente, una volta uscito dal tetto mi aspetta una lunga sezione di parete verticale. È ben appigliata, ma la stanchezza accumulata rende l’arrampicata faticosa. Cerco appigli migliori, nonostante il ”fiatone” si faccia sentire.

Ad ogni modo, ho molto tempo a disposizione e lo sfrutto per riprendere contatto con la famiglia e con gli amici, grazie al mio cordino di collegamento. Le voci sono sempre più lontane eppure le sento nitidamente. D’altronde in montagna, se sei a favore di vento e aiutato dai grandi spazi, puoi sentire arrivare folate di suoni anche molto distanti. Questo contatto, anche se saltuario e ritagliato tra poche ore del giorno, è indispensabile per il mio morale. Un aiuto enorme, mi sprona ad andare avanti. È la mia forza, nonostante la fiacchezza generale.

Sono stanco, sì. Proseguo lentamente, devo fare pochi tiri al giorno con l’obiettivo di recuperare le forze. Devo trovare in me la pazienza che si acquisisce solo affrontando la grande parete. Dopo molti, molti giorni sento nascere un’energia diversa. Le forze, pian piano, stanno tornando.

È una bella sensazione. È grandioso sentirsi meglio dopo un periodo di spossatezza. Il fisico ti risponde, ma è soprattutto l’umore che subisce un impulso pazzesco, un’elettrica scossa di determinazione ad andare avanti. Sono talmente di buon umore che trovo una cengia comodissima sulla quale dormire sdraiato. È l’ideale per un lungo bivacco e per poter riprendere a pieno le energie.

Vista la conformazione della roccia e gli arbusti che si affacciano, mi illudo che potrei anche essere in vista della cima. Rilassato, mi addormento e cado in un sonno profondo. Comincio a sognare.

Il lungo sonno
Ho sempre avuto molta difficoltà a ricordare i sogni. Benché in genere io sogni molto, al risveglio perdo quasi tutto. I particolari e tutti gli intrecci assurdi che solo un sogno può dare svaniscono, rimane solo un ricordo vago e generico.

Questo sogno però è diverso. Ricordo ogni cosa: rivivo le passioni e le esperienze che ho avuto la fortuna di vivere. Nonostante stia arrampicando sulla ”parete’,’ sogno di rimettere le mani sul caldo calcare di Finale o del Lecchese, e di salire le splendide fessure granitiche della val Formazza. Lo faccio con Titti, con i miei amici: è un piacere enorme. L’arrampicata è stata ed è tuttora il mio grande amore, la passione più forte che mi ha seguito per quasi tutta la vita da quando ho cominciato a salire i primi ghiacciai, da adolescente, per poi esplodere nelle lisce pareti rocciose della maturità.

Arrampicare mi dà un senso di benessere. È una gestualità che mi fa stare bene con il corpo. Un gesto primordiale. Prima ancora di imparare a camminare i bambini risvegliano questo istinto nel cercare di salire sulle superfici a quattro zampe.

Ma c’è un’altra passione sportiva che ho coltivato moltissimo, e non poteva di certo mancare in questo lungo sonno: è la Mountain Bike che ha riempito tantissimo del mio tempo libero, benché l’abbia conosciuta in età più avanzata. Di questo mezzo adoro il poter girare nei grandi spazi, tra boschi, monti e colline. Sempre all’insegna della libertà ma comunque in continuità con l’arrampicata, dovendo utilizzare una tecnica a suo modo simile per superare i ripidi pendii, i sassi e le radici senza cascare o mettere giù i piedi.

Beh, devo ammettere che qualche problema con gli alberi e i sassi l’ho avuto nel corso dei miei anni in Mountain Bike, e non potevano mancare anche nel versante onirico. Persino durante questo sogno sono riuscito a farmi male…

Ma da quanto tempo dormo? Si tratta di un giorno, una settimana o un mese? Non lo so, non riesco a percepire nulla, ma il mio viaggio continua. Mi ritrovo con la mia chitarra in mano e, nonostante le dite inchiodate e l’arpeggio non proprio fluido, provo un grande piacere ad ascoltare il suono degli accordi o dei miei vecchi esercizi di classica. Mi volto sempre più indietro, arrivo addirittura alla prima adolescenza quando il mio vecchio maestro, quasi cieco, mi insegnava i primi  rudimenti di chitarra nella case popolari di via Gola.

Durante questo lungo sonno, e dopo tanto tempo passato solo in parete non posso non pensare alla compagna della mia vita: la sento vicina, mi è sempre, sempre stata vicina, e senza tanti fronzoli mi trasmette un’energia e un amore indefinibili e infiniti.

Da quanto tempo stiamo insieme. Anche ora è qui vicino a me, come solo e soltanto lei sa fare.

Faccio sogni belli. Non sono mai stato un tipo da incubi. Non potevo quindi non incontrare in sogno quanto di più bello c’è nella mia vita: le mie figlie. Certe volte mi chiedo come possano essere venute così bene… Sicuramente qualche merito posso prendermelo, ma devo ammettere che la mamma ha fatto un grandissimo lavoro. 

E ripercorrendo poi le grandi soddisfazioni che mi hanno dato e che mi continuano a dare, non posso non pensare a quella forse più grande e inattesa, che non credevo potesse influire in maniera così profonda sulla mia vita: diventare nonno non è stato affatto male.

Il pensiero di Emma è una scarica elettrica, un’iniezione di adrenalina incredibile. Nonostante questo lungo viaggio in parete me la faccia comparire solo in sogno, mi basta l’immagine, o l’eco del suo ”nonno!” detto con timbro sicuro, coinciso e determinato: la carica si riaccende, proseguo senza tentennamenti.

Doccia fredda
Pensavo di avere trovato un posto da bivacco ideale. Un fondo piatto con anche un po’ di erba, un riparo sicuro dalle piogge e il tepore del caldo sacco a piuma. Invece vengo svegliato bruscamente da un gelido brivido alla schiena. Dell’acqua, non so come, si è infilata nel sacco. Evidentemente le forti piogge dei giorni, settimane, forse dei mesi che hanno accompagnato il lungo sonno si sono infiltrate nel profondo della roccia e hanno trovato un modo per entrare. Spalanco gli occhi con la sensazione più spiacevole del mondo, lo schiaffo che non ti aspetti e ricevi in piena faccia.

In fretta e furia esco dal sacco per liberarmi dalla sensazione di umidità. Cammino sulla cengia. Oggi, contrariamente al solito, non sono avvolto dalla nebbia. C’è una schiarita, come dopo ogni forte temporale.

Posso guardarmi finalmente intorno. Il primo sguardo va naturalmente verso il basso e solo allora mi rendo conto di quanta strada ho fatto. La base è molto lontana e riesco a vederla, ma quando alzo lo sguardo quel primo schiaffone ricevuto dal brusco risveglio si concretizza con una visione inattesa: un tetto enorme spunta sopra la mia testa, ancora più lungo e difficile rispetto ai due già affrontati; talmente lungo che non si riesce neppure a intuire quanto potrebbe andare avanti la parete.

Ma come… mi ero quasi illuso che la comoda cengia potesse presagire una rapida via di uscita e invece sopra di me trovo un ostacolo ancora più difficile. Non so nemmeno per quanto tempo mi terrà impegnato.

A questo punto devo essere completamente sincero con me stesso: ho sempre auspicato di poter uscire in tempi brevi dalla parete, come è logico e naturale che sia. Ma nel momento in cui ho intrapreso questa arrampicata ho capito di trovarmi di fronte a una situazione senza via di fuga, senza scappatoie, senza alcuna possibilità di tornare indietro con le corde doppie.

Osservo nuovamente l’enorme tetto. La paura si fa strada, uno stato di angoscia mi avvolge e stringe lo stomaco. Sarò capace di superare anche questo ostacolo?

La nebbia è tornata ad avvolgermi, ha riverniciato la parete con un senso cupo di difficoltà.

La notte che segue è molto agitata, tuttavia ho dormito così tanto in precedenza che non vedo l’ora arrivi il giorno. Voglio tornare a concentrarmi su quello che mi aspetta.

Il grande tetto
Tornare in azione è sempre stata la migliore delle medicine, è innegabile. Persino dopo venticinque anni di gare in mountain bike, la notte precedente scorreva agitata, fino ad arrivare al momento del via, quando tutto svanisce e la mente e il corpo si concentrano insieme solo e soltanto sull’obiettivo da perseguire. La regola vale a maggior ragione ora che ho sopra di me il percorso più impegnativo della mia vita. Non ho nessuna intenzione di mollare. Figuriamoci.

Calcolo ci vorrà qualche giorno per arrivare all’attacco del tetto. Sembra un’arrampicata piuttosto difficile, ma con buoni punti da bivacco per passare la notte.

Riprendo il rituale della vestizione. Dopo il lungo sonno devo ricontrollare ogni parte del materiale. Con un imbrago e un sacco pesantissimi, attacco la parete.

Sto arrampicando da qualche giorno. Ormai sono quasi alla base della grande difficoltà e trovo un ottimo posto da bivacco, un terrazzino davvero comodo dove poter passare tranquillamente la notte.

È probabile che sarà l’ultimo posto comodo sulla mia strada. Una volta sullo strapiombo sarò sempre appeso. Eppure, ecco l’imprevedibile, quello che mai mi sarei aspettato.

Sento il cordino di collegamento, quello che mi porto dietro per i contatti e i rifornimenti con la base, entrare in forte tensione. Per fortuna l’ho ancorato bene. Dopo qualche ora vedo profilarsi i contorni di una persona che sta salendo.
Chi può essere?

Ho dato il divieto assoluto di seguirmi. È una situazione troppo pericolosa. E il cordino non è adatto per una risalita. Mi affaccio, cercando di capire e cogliere il volto, finché non riconosco distintamente la figura di Arianna. Mia figlia, la minore.

Cosa l’ha spinta ad affrontare questa immane fatica? Vorrei chiederlo subito, ma non la distraggo negli ultimi metri della sua risalita. Attendo che mi raggiunga. Si vede, è stanchissima, ha un fiatone che fa fatica a parlare e arrivata sulla cengia ci abbracciamo ed è una cosa bellissima sentire il calore e l’amore di tutte le persone che mi vogliono bene, contenuti in quest’unica stretta.

L’emozione è enorme e la sorpresa inaspettata, ma non posso fare a meno di domandarle cosa ci faccia qua, cosa è venuta a fare.

Arianna non è mai stata particolarmente coraggiosa e intraprendente nell’affrontare le varie esperienze motorie che tutta la famiglia, e in particolare il suo papà, le hanno proposto. Forse nel mio caso persino imposto. Però ha imparato ad andare in bicicletta piuttosto presto e ha persino affrontato qualche gara in mountain bike.

Seguendo le orme di sua sorella maggiore, Federica, qualche volta ha arrampicato sui sassi. Si è fatta anche imbragare ed è salita con la corda, così come ha affrontato le proprie esperienze sugli sci. Una volta cresciuta, però, appena ne ha avuto la possibilità, le sue scelte si sono dirottate in altre direzioni. Ci ripenso con un sorriso. Se proprio la vogliamo dire tutta, è sempre stata un po’ una fifona.

Ora tuttavia me la ritrovo davanti dopo avere affrontato una difficoltà pazzesca. Sul viso ha una determinazione e una carica che mi fanno ricredere rispetto a tutto quello che è avvenuto in precedenza. Soprattutto, mi rendo conto di quanto mi fossi sbagliato a dubitare del suo coraggio: era solo una questione di motivazione. Nient’altro.

Mi guarda e dice: ”Papà, dovevo portarti una cosa”. Nelle mani mi consegna un piccolo sacchetto chiuso ermeticamente, e mi spiega essere una sostanza indispensabile per il prosieguo della salita.

Me lo ha dovuto consegnare di persona, in quanto il pericolo che si potesse rompere era troppo alto. Mi immagino il contenuto come il prodotto concentrato di tutto l’amore suo, quello di sua sorella e di sua mamma.

Passiamo una bellissima serata insieme ed è la miglior ricarica che potessi sperare. La notte scorre dolce e serena, quantomeno la mia. Non so se Arianna può dire lo stesso. Si tratta del suo primo bivacco e un po’ di tensione sicuramente l’avrà sentita. Ma è anche vero che, dopo quello che ha affrontato, non sarà certo una notte un po’ scomoda a scalfire la sua determinazione.

La mattina purtroppo ci dobbiamo salutare. L’abbraccio è infinitamente profondo. So che non la potrò vedere per molto tempo, so che non potrò vedere quasi nessuno. Quello che mi ha lasciato, però, è troppo importante. Resto a guardarla mentre scende dalla corda di collegamento verso la base. Ciao Ari, grazie ancora.
Sono pronto. Riparto.

È ora di attaccare. I primi tiri non sembrano particolarmente difficili, ma ben presto arriva la parte più dura e l’arrampicata si rivela per quello che è davvero: veramente tosta. Sono i primi giorni, in particolare, che mi impegnano allo stremo, tanto che non riesco a recuperare quanto serve per nutrirmi.

Sembra un’eternità che sono qui appeso, cercando di guadagnare qualche metro. In realtà è passata solo una settimana. Però anche il collegamento con la base risulta difficile. L’ultimo messaggio ricevuto mi avvisava di un’interruzione dei contatti. Me la dovrò cavare da solo.

Sono stanco e indebolito, ma non ho altre alternative. Devo proseguire. Anche se la lentezza è estenuante occorre che io raggiunga il bordo di questo tetto.

È risaputo: quando il corpo è sottoposto a uno stress fuori dal normale e particolarmente intenso, la mente arriva in soccorso andando a pescare, non si sa dove, energie che non avresti mai pensato di possedere.

Ricordo bene una situazione analoga, ad anni e anni di distanza, quando su un tiro molto tosto sulla via del Nose al Capitan, ormai al buio e senza forze, riuscii inaspettatamente a tirarlo fuori. Ancora oggi non so davvero come.

È proprio andando ad attingere a questa riserva energetica che vedo avvicinarsi quello che potrebbe essere il bordo dello strapiombo. Si trasforma in uno stimolo pazzesco a proseguire. Voglio tirarmi fuori da una situazione scomodissima: non ne posso più di stare appeso e completamente solo, devo uscirne.

Ormai ho perso la cognizione del tempo. Penso sia passato quasi un mese, ma non ne sono sicuro. È veramente un sacco di tempo. Pianto l’ultimo chiodo che mi fa tornare sulla parete verticale, togliendomi da quel vuoto così a lungo sotto i miei piedi. Nel giro di pochi metri mi trovo su una larga cengia e posso stare in piedi.

Però sono sempre avvolto da questo tempo di merda, umido e nebbioso. Intuisco che la parete va avanti, ancora altissima, imponente e maestosa. Ma, per la prima volta, mi rendo conto che questa non è una normale cengia della parete. È molto più larga e soprattutto punta a dei pratoni che portano verso valle. Potrebbe essere una via di fuga per potersi allontanare dalla parete e tornare a casa.

È una decisione complicata. So bene che la parete non è finita, è lì che mi aspetta e non posso decidere di farne solo un tratto. Tra l’altro non so neppure quantificare  quanta parete ho arrampicato: la metà, un quarto, tre quarti… non ne ho idea, sinceramente. Avrò poi fatto davvero i passaggi più difficili?

Io penso proprio di sì. Soprattutto il grande tetto dovrebbe essere considerato il tratto chiave. Però so bene che in una grande parete come questa devi essere pronto a qualsiasi sorpresa, tanto la placca liscia con altissima difficoltà quanto la sezione di roccia marcia dove ti rimane in mano tutto. Sono in modo particolare questi tratti apparentemente più facili quelli che ti possono fregare con cadute rovinose o addirittura con incidenti che possono diventare letali.

Il giorno in cui ho attaccato la parete ero consapevole che avrei dovuto portarla a termine. Si sta rivelando più lunga del previsto, ma sono riuscito a superare tutte le difficoltà incontrate fino a ora. Di questo devo esserne orgoglioso. È decisamente venuto fuori l’arrampicatore tenace da lunga via. D’altronde sono sempre stato una pippa sulle alte difficoltà dei monotiri in falesia, oppure sui boulder da sassisti.

Ho deciso. Sono troppo stanco. Ho bisogno di recuperare e vedere la mia famiglia. Lascio tutto il materiale in un posto ben riparato e pronto per essere riutilizzato. Infine, mi incammino sulla cengia che mi porterà a valle

Ritorno a casa
Quando arrivo sono stanco e infreddolito, ma la visione della mia famiglia è una gioia immensa e senza fine. È passato veramente un lungo periodo. Troppo lungo.

Avrò bisogno di molti giorni per recuperare un po’ di energie. In effetti, dopo ogni grande sforzo, una volta che è calata la carica di adrenalina, emerge uno stato di spossatezza enorme. Ma la differenza è che ora, qui, rispetto alla parete, c’è chi mi accudisce e mi coccola.

Mi raccontano che, durante la mia permanenza in parete, il mondo è stato colpito da un virus sconosciuto e pericoloso, e come risultato ognuno di noi dovrà stare  per molto tempo attento a non contagiarsi. È una situazione complicata e rende il ritorno all’arrampicata sulla parete ancora più pericoloso, complesso e difficile.

Ma è passato parecchio tempo e, seppur lentamente, sto recuperando le energie. Il grande tetto mi ha fortemente impegnato, risucchiando forze che ora devo ricostruire.

Riprendo a fare delle brevi passeggiate in montagna insieme alla mia famiglia e,  con il passare dei giorni, comincio ad affrontarne di sempre più impegnative… causando le proteste di chi mi segue. Sembra che ora siano loro a fare fatica per tenere il mio passo.

C’è un’altra persona con noi e con lui il discorso è diverso. Da definizione ormai certificata è un G.A., ovvero un grande amico, e in quanto tale mi ha seguito in lungo e in largo in tutto ciò che gli ho proposto e che ci siamo inventati. Però, ad essere onesti, allo stesso tempo è anche un P.A.D.M.V, il Peggiore-Allievo-Della-Mia-Vita. In ogni caso, a conferma della lunga amicizia non si è smentito. E lo stesso vale per la sua indole e la propensione a non seguire i miei consigli. Ma è questo il collante della nostra amicizia e gli sarò sempre grato per questo.

Non devo mai dimenticarmi perché sono qui. Il mio girovagare per boschi e sentieri, il riprendere timidamente confidenza con la pedalata per recuperare un po’ di gestualità tecnica hanno un unico scopo: devo prepararmi per proseguire nella salita della parete.

Gli sforzi fatti durante il superamento del grande tetto hanno lasciato qualche strascico. Tanto che anche in questa fase di recupero, nonostante i segnali di ripresa molto positivi, il mio corpo mi ha ricordato quanto sia complicata questa salita. E, soprattutto, che non è mai e poi mai concessa alcuna distrazione di fronte al proprio obiettivo.

Basta un piccolo pensiero, un momento di relax nei confronti di una difficoltà ”quasi” raggiunta e subito arriva il segnale: bisogna rimanere con le mani ben attaccate alla roccia per evitare di scivolare molti metri più sotto.

Quando programmi una salita in montagna, un grande giro in bici o a piedi, oppure ancora pensi a un viaggio, la fase di preparazione è forse quella più bella. Con la mente ti crei il  percorso ideale da seguire, pregustandoti le bellezze che incontrerai e valutando rischi, pericoli e le difficoltà. Una volta terminato il tuo viaggio, rimane il ricordo, assieme al desiderio di prepararne un altro al più presto.

La parete, invece, è diversa. Perché è l’incognita, quella parte del viaggio che non conosci e non puoi conoscere. Allo stesso tempo, però, è proprio questa la sua forza e la sua temuta capacità di attrazione.

Cambia tutto
“All change!”, proprio come cantano i Genesis in Supper’s Ready di Foxtrot.

Ho deciso, abbandono lo zaino pieno di materiale, quello che ho lasciato alla base della parete. Non importa che vada perso, tanto la mia attrezzatura non è mai stata nuova. Niente di grave.

Non voglio più cimentarmi in solitaria su quella roccia umida e piena di insidie, in un ambiente scomodo e ostile. Ho già passato troppi giorni a soffrire e smadonnarci sopra.

La mia via, per forza di cose, continua. Non la posso certo abbandonare e non ho alcuna intenzione di farlo. Però lo scenario, l’ambiente dove si svolge ogni cosa, ecco, quello ora è giunto il momento che cambi. Drasticamente.

Ora, infatti, sono accompagnato da tutte le persone che mi vogliono bene. Provo a contarle una per una. Sono tante, davvero tantissime. Ma la parete è talmente lunga e vasta che c’è spazio per tutti. Molti hanno già fatto parecchi tiri con me, altri ancora avranno modo di farne più avanti.

Questa parete adesso deve essere esposta al sole, quello più caldo e forte del mezzogiorno. Il che non vuol dire che siano terminate le difficoltà, intendiamoci. Anzi, per molti versi è proprio quando ci si rilassa che si fa la cazzata e si rischia di più. Dunque, Roby, massima concentrazione e attenzione. Controlla i nodi e le manovre di corda abituali, ma prenditi pure tutto il tempo necessario per continuare a salire.

Questa lunga ascesa la voglio trasformare in una ricerca. Una ricerca del bello. Uno spazio dove poter inserire un ideale libricino dei sogni che passi dalle cime montagnose più belle ai sentieri a picco sul mare, passando anche per i borghi più sperduti del nostro meraviglioso paese.

Il cambiamento culturale portato negli anni ’70 nell’arrampicata, dal movimento del ”nuovo mattino” in valle dell’Orco e dai sassisti della val di Mello, ha modificato totalmente il concetto della conquista della cima. Non è necessario arrivare nel punto più alto per piantare qualche bandierina o imbullonare una Madonna: è l’estetica della linea che vedi quella che ti porta a salire. E il punto di arrivo può benissimo essere soltanto un bel prato dove ti stendi a prendere il sole.

Di una cosa sono sicuro: questa mia parete non porta sopra nessuna vetta. La sua linea non può terminare in un punto definito e probabilmente nemmeno esiste un qualche punto di arrivo. Ma, ad ogni buon conto, mi immagino e sogno quel bel pratone dove potermi svestire di tutta l’attrezzatura, quella così ingombrante e pesante, quel fardello tenuto addosso così a lungo. E, come alla fine di ogni grande sforzo, m’immagino e sogno il prossimo viaggio.

Note
Il racconto è narrato in prima persona e, durante la permanenza in parete, non ho mai citato nomi di amici o della famiglia, ad eccezione di Federica e soprattutto di Arianna che ha fatto parte attiva ”dell’arrampicata” per un giorno e una notte.

Durante la scrittura mi sono accorto che La parete è il titolo di un libro del 1981 di Alessandro Gogna. Sono andato a rileggerlo e narra di esperienze alpinistiche realmente vissute, pertanto, visto il contesto completamente diverso, mi sono permesso di usare lo stesso titolo.

Ringraziamenti
Un grazie infinito a Daniele, mio quasi genero, per il prezioso lavoro di editing.

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La parete ultima modifica: 2022-07-01T05:29:00+02:00 da GognaBlog

9 pensieri su “La parete”

  1. Gli italiani, non tutti per la verità, la devono smettere di esigere dai loro “governanti”, una volta per tutte, “Panem et circenses” e impunità!
    Alcuni mesi fa il Procuratore Gratteri ha detto che una volta erano gli ‘ndranghetisti che andavano dagli imprenditori. Adesso sono gli imprenditori che vanno dagli ‘ndranghetisti.

  2. certo PASINI, ho scritto  NESSUNO!!!
     
    e buone scalate selvagge!!!  t’invidio

  3. Benassi. Per nessuno: dai negazionisti ai procastinatori di decisioni difficili, dai prescrittori di farmaci inutili ai somministratori di brodini caldi e fiori di Bach ….per nessuno. Pur concedendo le attenuanti generiche di fronte ad un cigno nero non previsto che ha invaso le nostre vite. Torno in ferie. A proposito di affollamento in montagna. Ieri in Val Gesso via quasi sconosciuta di De Cessole. Senza un chiodo. Che piacere antico anche sul facile. Archeologia per vecchi tapuloni. Ovviamente nessuno, neppure lontanamente, probabilmente da anni. Ciao.

  4. E non voglio. Fai bene se riesci a scrivere un libro senza sconti per nessuno sulla vicenda Bergamo e ti esprimo tutto il mio apprezzamento e il mio appoggio

    Appunto senza sconti per NESSUNO!!!
    Ecco perchè alcuni li metterei dentro Giacomo: perchè sono responsabili .
    E invece in Italia non paga mai nessuno!!

  5. Caro Silvestri, per chi di noi ha perso persone care nella fase 1 che si sarebbero forse potute salvare con quello che abbiamo saputo e avuto a disposizione dopo, certe discussioni che continuano ancora qui con ostinazione sono dolorose e io me ne tengo perciò lontano perché penso che perderei il controllo e la buona educazione. E non voglio. Fai bene se riesci a scrivere un libro senza sconti per nessuno sulla vicenda Bergamo e ti esprimo tutto il mio apprezzamento e il mio appoggio. È un dovere verso chi non c’è più o ancora ne porta le conseguenze fisiche o spirituali. Bravo. Ti faccio tutti i miei auguri di buon lavoro. 

  6. La parete della Malattia.
    La via del Covid.
    La variante Omicron.
    E’ stucchevole come su ‘Vaccino mRNA – cosa succede?’ ci si accapigli tra provax e novax quando solo in provincia di Bergamo tra marzo e maggio 2020 ci sono stati 6100 morti e di questi 3550 avrebbero potuto essere evitati se avessero deciso di stoppare alcuni macroeventi diffusivi per i quali qualcuno ci ha guadagnato! E la Procura non potrà procedere perchè alcune indagini che avrebbero dovuto essere fatte in quei primi mesi per provare l’assunto non sono MAI state svolte. Ed i 3550 morti di Bergamo estesi all’intera regione Lombardia diventano probabilmente almeno il doppio, ossia circa la metà dei 16000 decessi ufficiali a fine maggio 2020, ma stime precise non possono essere fatte perchè i decessi sono stati resi pubblici solo a livello regionale e non a livello provinciale.
    Ci scriverò un libro, questa roba ce l’ho sullo stomaco da troppo tempo …
    Saluti.
    MS

  7. C’è sempre una sommità, dalla quale ritirare su corda.
    Poi è solo discesa.
    Un abbraccio. 

  8.  già, il contesto e’nettamente diverso, per chi vuol capire le metafore..bastano le foto..

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