La Parete dei Militi, palestra per Bȗgia nën
di Lino Fornelli
(pubblicato su Scandere 1986)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Hai sentito? Mi dice l’amico Ezio: faranno una gara di arrampicata sulla Parete dei Militi. Ci andiamo?
Ma va, cosa vuoi che facciano due vecchi pestasassi come noi? Non sai che questi giovani fanno delle cose incredibili? Sono capaci di salire su per i vetri! Ma cosa hai capito? Andiamo per vedere, magari incontriamo anche dei vecchi amici. Già questo è vero, e poi sono molti anni che non vado più in Valle Stretta. Ed eccoci qua, un po’ per curiosità e un po’ per nostalgia alla base della «Militi» in una bella mattinata di luglio; siamo saliti a piedi dal Pian del Colle per ripercorrere la vecchia mulattiera percorsa tante volte, magari in discesa di corsa per non perdere l’ultimo treno da Bardonecchia.
C’è molta gente, una folla variopinta bella a vedersi. E come sperato incontriamo veramente i vecchi amici: Palozzi, il vecchio «Palo» ormai quasi ottuagenario che mi racconta che non ha ancora lasciato del tutto la montagna, e altri più giovani: Dino Rabbi, Dionisi, Mellano indaffaratissimo con l’organizzazione, i Bonis e altri ancora, poi Garimoldi che approfitta subito dell’incontro per propormi l’incarico di scrivere questo articolo! Che non vuole essere un reportage sul 1° Meeting di arrampicata, ma piuttosto una rievocazione, modesta, della storia di questa parete calcarea, così insolita per le Alpi Occidentali, così comoda come approccio, e così importante per l’alpinismo torinese dagli anni ’40 in poi.
Che fosse importante lo dimostra anche il fatto che i primi tre numeri di questo stesso annuario parlano della «Militi». Una bella descrizione della storia dei primi tentativi alla parete sino agli anni della guerra la si trova infatti sul primo numero di Scandere (1949) con un bell’articolo di Michele Rivero, e in un altro di Achille Calosso sul terzo numero (1951). Ora la Parete dei Militi, come tutta la Valle Stretta, si trova in territorio francese. Tuttavia poiché la Valle Stretta scende direttamente su Bardonecchia in Italia, è naturale che sia frequentata in massima parte da italiani, soprattutto torinesi. Il confine imposto alla fine della seconda guerra mondiale è certo del tutto innaturale, ma così va la storia. Tuttavia va riconosciuto che i francesi non hanno mai creato difficoltà per l’accesso in Valle Stretta a chi proviene da Bardonecchia. Semmai, nei primi anni del dopoguerra almeno, erano le Autorità Italiane a creare difficoltà: ora però si passa con relativa facilità.
«La Parete dei Militi: imponente e grandiosa parete verticale di roccia calcarea; alta da 180 a 350 metri (da quota 1700 a 2050 m) incombente a brevissima distanza sopra la carrozzabile di Valle Stretta, per una lunghezza di km 1,5 circa». Questo si legge sulla nuova Guida delle Alpi Cozie Settentrionali 1985 di Aruga, Losana, Re, della Collana Guida dei Monti d’Italia del CAI – TCI; dove la parete è molto ben descritta sul piano tecnico.
Ma perché poi ha un nome così strano, «Parete dei Militi»? Ce lo dice Rivero nel suo bell’articolo citato: perché sul piano sottostante vi era, prima della guerra, una casermetta della milizia confinaria. Questa milizia confinaria, aggiungo io, era un corpo militare che non dipendeva dall’Esercito, ma era alle dirette dipendenze del partito fascista. I militi portavano, ahimè, la divisa degli alpini, però intristita da pesanti bordi neri, e al posto delle stellette avevano dei piccoli fasci littori. Così quel bel pianoro alpino divenne a poco a poco «Il Piano dei Militi», e per conseguenza la parete soprastante assunse lo stesso nome. Tuttavia ricordo che negli ultimi anni ’40 qualcuno la chiamava ancora: Parete del Piano.
Fu nel 1936 che alcuni alpinisti torinesi: Rivero, Castelli, Calosso, Dubosc, alla ricerca di una palestra che fosse in grado di dare una preparazione adeguata alle salite alpine più impegnative cominciarono ad occuparsi della Militi. Dubosc e compagni apriranno la prima via che porta ancora questo nome, mentre Rivero e Castelli forzeranno per primi il famoso «passaggio delle tre vie», così chiamato perché per lungo tempo darà accesso alle tre vie principali della parete; le due Gervasutti e la Rivero. Gervasutti ovviamente non poteva disinteressarsi di una parete simile e vi compì infatti due vie nuove nel 1941: la prima a sinistra della gola centrale con De Rege e l’altra nella gola stessa con Rivero; e ancora Rivero con Gagliardone nel 1943 sale la cosiddetta via del Ramarro, che non si chiama così per le presunte contorsioni che richiederebbe nel salire, come ho letto da qualche parte, ma perché Rivero e compagni nel 1936 studiandone le possibilità di salita avevano scherzosamente concluso che si sarebbe potuto passare soltanto avendo come capo cordata un ramarro gigante! A queste cose penso mentre osservo, dal basso, quei giovani atleti che volteggiano su passaggi quasi inverosimili, sia pure sempre ben assicurati. E tutti ben equipaggiati con strette pedule ai piedi colle quali ci si deve sentire proprio come delle libellule! Mi dicono che tali pedule devono essere di un numero o due più piccole del piede per aumentarne le sensibilità. A noi che si andava sempre con gli stessi scarponi sia su roccia che su sentiero, su ghiaccio che su ghiaione sembra incredibile: come si fa a resistere? Sarà che aumenta la sensibilità, però ne vedo più di uno che fatto il passaggio o tiro di corda, prima di scendere si toglie le pedule e scende in doppia a piedi nudi! E mi rassicura l’idea che domani andremo a fare una salita alla Rocca di Valmeinier (per la via normale) con gli scarponi un numero più lunghi perché non facciano male in discesa!
Ma torniamo alla storia della parete: dopo la guerra, scomparsi i grandi maestri Gervasutti e Boccalatte, scossi nel morale gli altri sia appunto per la morte dei grandi e sia per la terribile esperienza della guerra, ai giovani e giovanissimi che si avvicinavano alla montagna mancava l’appoggio dell’esperienza e dell’insegnamento dei più anziani. Si ripeté, come disse Rivero nel solito articolo, la situazione creatasi nel primo dopoguerra. E noi giovani di allora, armati sì di un formidabile entusiasmo, ma privi di tutto il resto: tecnica, attrezzatura, esperienza e mezzi finanziari, ci si avvicinava alla montagna difficile a piccoli passi.
C’era sì qualche elemento della generazione precedente che aveva ripreso l’attività: ricordo di aver visto Rivero ancora arrampicare, magari con la scuola Boccalatte, poi Silvestrini e Maino i pié veloci, Palozzi, Ettore Sisto, Cicogna e Paglini, la cui cordata compì nel 1947 la salita alla Gervasutti di sinistra e alla Dubosc. C’era Giulio Salomone, che seppur giovane lo era un po’ meno di noi e per questo aveva avuto il grande privilegio di arrampicare con Gervasutti nella prima salita in libera al Grand Capucin. Anche lui salì la Gervasutti di sinistra e la Dubosc nello stesso anno di Cicogna, il 1947. Per un po’ sia io che mio fratello Piero ci illudemmo di poterci legare alla sua corda dopo che ci aveva condotti una volta a fare l’Accademica di Rocca Sella.
Salomone fondò con Luciano Ghigo e altri del CAI-UGET il Gruppo Alta Montagna (aperto anche ai soci delle altre sezioni) che doveva divenire in seguito, assieme al gruppo istruttori della Scuola Gervasutti della Sezione di Torino, il più attivo raggruppamento di scalatori torinesi. Successe però che già nel 1948 Salomone se ne andò da Torino: si trasferì a Courmayeur per fare la guida, il maestro di sci e l’albergatore. Molti anni più tardi qualcuno lo imiterà, almeno in parte. C’era poi la forte cordata di Rosenkrantz e Dionisi, ma bisognerà aspettare sino al 1952 perché quest’ultimo salga la Gervasutti di sinistra con un giovane fortissimo col quale continuerà poi un’attività di alto livello per molti anni in alta montagna: Giuseppe Marchese.
È vero che nei primi anni del dopoguerra vi era la scuola Boccalatte, ma durò poco e poi era piuttosto rivolta all’ambiente universitario, mentre i giovani che si venivano formando allora erano per lo più operai o impiegati. C’era poi Cichin Ravelli che se pur ancora attivo aveva ormai superato la sessantina: comunque non lesinava mai consigli ed incitamenti quando lo si andava a trovare nel suo negozio di corso Ferrucci, e di più, ci aiutava tangibilmente con dei sostanziosi sconti sull’acquisto di materiale alpinistico. Così quel gruppetto di giovani che incominciava ad affilarsi un po’ le unghie cercava di farsi un po’ di esperienza aumentando gradatamente le difficoltà delle salite e divorando i pochi libri di alpinismo allora esistenti. Personalmente posso dire di aver imparato la tecnica di roccia leggendo Alpinismo Eroico di Comici (a proposito a quando una bella rievocazione del grande arrampicatore triestino?).
Si aveva una grandissima considerazione per le salite realizzate nel decennio precedente, e non si pensava seriamente a ripeterle.
Era così anche nei riguardi della «Militi»: passandone alla base per recarci in Valle Stretta per altre mete o anche in inverno per il classico Tabor in sci, la si guardava dubbiosi senza pensare seriamente a metterla in programma. Quel che mancava era un metro di paragone: come potevamo sapere come ci saremmo comportati dopo qualche ora di arrampicata su quelle difficoltà? Chi di noi aveva già fatto qualcosa di simile? Fino ad allora le palestre di arrampicata si riducevano ai Denti di Cumiana, Sbarua (con le sole tre prime vie: normale o Boccalatte, Gervasutti e Rivero) e Monte Plu (cresta Botto) (mi accorgo che sto parlando come se fossi stato uno dei protagonisti: in realtà, se pur ero nel gruppo di quelli che andavano io non ero certo una delle punte!). La sveglia, per così dire, venne da Mario De Albertis. Chi lo ricorda più oggi? Fu proprio lui a buttarsi per primo, tra i giovanissimi, sulla «Militi» salendo la Gervasutti di destra nel 1949, tirandosi addosso un rimprovero da parte di Rivero nel solito articolo sul primo numero di Scandere. Rimprovero non del tutto immotivato dal momento che l’amico Mario ed il suo compagno impiegarono 10 ore per quella salita mentre la prima ascensione ne aveva richieste quattro. Certo la preparazione tecnica di De Albertis allora era alquanto rudimentale, ma lui suppliva con una buona dose di doti atletiche e di decisione.
Comunque il sasso nello stagno era gettato! Era comparso il metro di paragone: se lo ha fatto lui allora si può fare! Infatti l’anno dopo, il 1950, si hanno le prime realizzazioni importanti: Luciano Ghigo in cordata con il già famoso Bonatti attacca la Est del Capucin rinunciando alla vetta nell’ultima parte e mio fratello Piero con De Albertis sale il Dente del Gigante per la parete sud; sempre nello stesso anno De Albertis sale la Sud della Noire e la Nord del Corno Stella con A. Oletta. È anche l’anno della prima salita dello Sperone Grigio al Plu di De Albertis con mio fratello Piero e il sottoscritto, altro importante itinerario di allenamento per i torinesi di quegli anni; compiuto alla vigilia delle ferie per prepararsi a chissà quali salite sul Bianco, salite che però non verranno fuori grazie al maltempo!
Vengono pure aperte altre vie nuove nelle Valli di Susa e di Lanzo. È però l’anno dopo, il 1951, che vede le realizzazioni più belle: mio fratello Piero con Giovanni Mauro sale lo sperone nord-est del Mont Blanc du Tacul in prima ascensione, lo stesso su cui cadde Gervasutti; Ghigo sempre in cordata con Bonatti porta a termine le Est del Capucin; Malvassora e Garzini compiono la prima salita della bella parete sud del Becco Meridionale della Tribolazione; ancora mio fratello e Mauro ripetono lo spigolo Castiglioni alla Torre Castello (mentre il sottoscritto era militare a Bari in fanteria!).
Cosa c’entra tutto questo con la «Parete dei Militi»? C’entra perché è stata proprio la salita di De Albertis su quella parete a suscitare tanto entusiasmo e iniziative. E di riflesso tutta questa attività finì per dimostrare che per darsi un allenamento adeguato a quel genere di ascensioni ci voleva una palestra difficile e severa e fu infatti nello stesso anno 1951 che si aprono le prime due vie nuove del dopoguerra sulla parete: una ad opera di mio fratello Piero con Mauro e Pistamiglio sullo spigolo che delimita la parete a nord e l’altra ad opera di De Albertis e Nando Borio per la fessura che ancora porta questo nome.
A dire il vero si era tentati un po’ anche dalla Grignetta, ma dopo alcune esperienze di weekend passati buona parte in treno e il troppo poco tempo a disposizione per arrampicare (allora non si avevano auto) si finì per rinunciare.
Dopo le due vie nuove aperte nel 1951, nell’anno successivo si cominciano a ripetere le classiche: Dionisi e Marchese come già detto la Gervasutti di sinistra, e probabilmente nello stesso anno mio fratello Piero con Mauro la Rivero. A proposito di questa via mi viene in mente Umberto Prato, un buon arrampicatore che compì anche alcune prime. Questi era soprannominato «Tribula». Penso che se il vecchio amico Bertu mi leggerà non se l’avrà a male: chi frequentava la «Militi» e la Valle Stretta in quegli anni non poteva non conoscere Tribula. Lui affermava che in montagna ci andava perché gli piaceva tribolare e da questo gli venne quel soprannome. Non vi era quasi salita che lui riuscisse senza bivacco, appunto per tribolare di più e meglio; anzi vi aveva preso talmente gusto che ad un certo punto non andava più a dormire in rifugio dal buon Piero Maggi: si arrangiava fuori da qualche parte; una volta lo trovammo di buon mattino che si alzava allora da un cassone di sabbia sopraelevato, presso la diga di Valle Stretta dove aveva pernottato! Comunque sua è forse la terza salita della via Rivero, naturalmente con bivacco, e siccome ad un certo punto aveva esaurito tutto il materiale usò anche il manico del martello a mo’ di cuneo di legno in una fessura nel tratto finale; che fu ritrovato nella salita successiva compiuta dal sottoscritto con Franco Bo.
Con gli anni ’50 inizia quella che si può forse definire un po’ la «corsa» alla «Militi», essa viene salita più volte ogni anno e anche la scuola Gervasutti se ne interessa: ricordo di aver fatto, una volta almeno, la Dubosc con gli allievi. La parete veniva considerata una ottima palestra di allenamento: si diceva allora che se uno fosse riuscito a salirla un paio di volte prima delle ferie avrebbe poi potuto fare qualunque salita. Tuttavia per quanto dura e impegnativa era considerata esclusivamente una palestra, una preparazione per salite in alta montagna. In questo periodo compare già quella che può essere considerata la seconda generazione del dopoguerra: i Rabbi, Mai, Mellano, Rossa, Rossi: con loro ha inizio una nuova fase di attività. E’ infatti in questo decennio che viene aperto il maggior numero di vie nuove sulla parete. Alcune di queste vie portano la firma di Marco Mai: era questi un arrampicatore forse più forzuto e rude di Guido Rossa, e se il suo lavoro non lo avesse portato in giro per tutto il mondo certo avrebbe fatto di più. Ma fu soprattutto Guido Rossa, un atleta dotato come pochi, che sulla «Militi» si troverà presto di casa come forse nessun’altro. Vi realizzerà infatti numerose vie nuove tutte di grande difficoltà, molte varianti ed anche la prima invernale alla Gervasutti di destra da solo. Sapeva passare con una sicurezza e una leggerezza tale sui tratti più difficili e friabili che aveva dell’incredibile. E dire che arrampicava in scarponi, con corde di canapa, chiodi e moschettoni di acciaio! Arrampicare per lui era un’attività naturale. Forse per lui la «Militi» non era solo una palestra, ma un qualcosa di più, un qualcosa di fine a se stesso; su quelle rocce calcaree aveva trovato il suo terreno di gioco ideale: tra vie nuove e ripetizioni ha salito la «Militi» ben 32 volte! Prima di lui forse il solo De Albertis aveva avuto lo stesso concetto della «Militi» come fine a se stessa. Tuttavia non bisogna dimenticare che Rossa ha compiuto anche un buon numero di salite classiche in alta montagna, sia nelle Occidentali che in Dolomiti: tra l’altro salì tre volte la Sud della Noire di cui due da solo. Per dare un’idea delle sue possibilità ricorderò che un anno o forse due prima della sua tragica fine, venne su da me al rifugio di Val Veny e benché fossero quindici anni che non arrampicava si andò a fare la Bonatti al Capucin sia pure da secondo, con un amico romano!
Arrampicava con compagni diversi, ma perlopiù con Dino Rabbi o con Giacomo Menegatti. Quest’ultimo, ottimo arrampicatore, era molto miope, portava occhiali spessi e aveva difficoltà a riconoscere il proseguimento del passaggio: fu così che Guido si decise a verniciare tutti i suoi chiodi di rosso perché Menegatti li potesse scorgere meglio!
A pensarci adesso, Rossa ebbe delle autentiche intuizioni verso quello che sarebbe stato il futuro stile dell’arrampicata: da un lato i nomi di fantasia dati ad alcune sue vie: Via Della Rondine, Via Del Ricordo, ecc., e dall’altro l’intuizione di poter aprire una via lungo il Diedro del Terrore; anzi, e qui posso sbagliare, ma credo che sia stato proprio lui a dargli questo nome. Su questo diedro compì numerosi tentativi, ogni volta guadagnando un tratto di salita in più. Una volta riuscì a convincere anche me a seguirlo in uno di quei tentativi; ma dopo un traverso sui chiodi, uno dei quali si sfilò subdolamente facendomi compiere un pendolo spettacolare, raggiunsi Guido che stava più in alto appiccicato alla parete su di una specie di minuscolo piedistallo, attaccato a due o tre chiodi e lo convinsi a rinunciare che quello non faceva per me. Con un paio di corde doppie raggiungemmo la gola per proseguire poi per la Gervasutti di destra che al confronto ci parve facile e divertente. Credo che Guido abbia in seguito compiuto altri tentativi su quel diedro, sino a quando per ragioni di famiglia si trasferì a Genova. Certamente se avesse potuto continuare alla fine ne avrebbe avuto ragione. Guardando quei giovani atleti che arrampicano ora sulla «Militi» con tanta bravura, mi chiedo se lui fosse uno di loro adesso a che livello sarebbe. La risposta non è incerta: se avesse avuto a disposizione i mezzi e la tecnica attuali sarebbe stato sicuramente uno dei migliori e non solo in campo nazionale! Dopo la grande messe di vie nuove degli anni Cinquanta bisognerà attendere sino al 1966 per vedere un’altra grande realizzazione sulla parete; nel mese di ottobre di quell’anno il Diedro del Terrore finalmente cede all’attacco di due giovani esponenti della nuova generazione di quegli anni, Gian Piero Motti e Gian Carlo Grassi che realizzano così una via di estrema difficoltà, la più difficile della parete! E ancora Motti con Maggiora apre nel 1969 una via molto difficile non lontano dallo spigolo settentrionale. Poi negli anni Settanta il silenzio, ma non è inattività: la parete viene salita ogni anno a più riprese e intanto si va formando quella nuova generazione di arrampicatori attuali che negli anni ’80 realizzeranno alcune delle imprese più straordinarie sulla parete: il Diedro del Terrore viene salito in libera da Bernardi, Francou e Pirona, cosa impensabile negli anni Cinquanta! E compaiono anche i francesi con una prima via nuova di grande difficoltà (Martine e J. J. Rolland) e ancora Roberto Bonis con Musu e Pirona apre la breve ed estremamente difficile Via Dell’Artista.
Decennio dopo decennio la «Parete dei Militi» continua ad attrarre le generazioni che si succedono offrendo loro soddisfazioni e filo da torcere. Che la si affronti come palestra o come fine a se stessa poco importa, essa è là per tutti.
Alla base della parete, a lato della strada, vi è una lapide che ricorda un lontano incidente in cui due giovani persero la vita, mi pare proprio sulla «Mìliti», anche se non se ne sono del tutto sicuro, non mi è rimasto niente nella memoria di quell’incidente; comunque è stato l’unico grave incidente sulla parete. È anche troppo, d’accordo, ma se pensiamo che in vari decenni di attività, le cordate che l’hanno salita o tentata saranno ormai centinaia, e che dopo il Meeting dell’anno scorso si è avuto quasi un record di salite, allora bisogna riconoscere il buon livello medio di preparazione di quanti l’hanno sinora affrontata. L’augurio di un vecchio giovane è che continui sempre così.
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Apprezzo molto la riproposizione di articoli “classici” o di storia dell’alpinismo e di attività in montagna. È un piacere leggerli.
Grazie e complimenti al sito.