La parete nord del Grand Pilier d’Angle
di Cosimo Zappelli
(pubblicato su Rivista mensile del CAI, 7-1965)
Sono le due circa dopo la mezzanotte, la luna quasi piena e contornata stupendamente da migliaia di brillantissime stelle, illumina i contrafforti di una grande parete nord.
Siamo ai primi giorni del mese di settembre; e già da una buona mezz’ora io e Walter siamo accovacciati sulla piccola crestina di ghiaccio che forma il Col Moore. Il momento è veramente solenne; almeno per me, che per le prime volte mi trovo nel profondo cuore del Monte Bianco, di fronte a quelle che rappresentano le più ambite, severe, difficili e pericolose vie di scalata sul versante della Brenva.
Avevo letto molte relazioni, scritte dai migliori alpinisti del mondo, avevo anche veduto altrettante meravigliose fotografie; poche invece erano state le volte che mi ero sognato di poter affrontare un giorno questa poderosa montagna, dai suoi itinerari più belli e più difficili.
Ora tutto questo spaventoso mondo mi sta di fronte. Ma c’è di più, perché Walter mi aveva proposto di essergli compagno di cordata nel tentativo di aprire una nuova via, sulla parete più repulsiva della montagna.
Avevo accettato con grande gioia questa nuova avventura, avevo il cuore traboccante di felicità solo al pensiero di ritrovarmi qui, nella situazione in cui mi trovo. Ma chi potrà mai penetrare nel profondo del cuore di un alpinista?
Adesso sono invece pieno di paura, pentito di avere accettato la lotta, sfiduciato delle mie capacità alpinistiche; una grande voglia di fuggire la montagna e tutte le fatiche che essa comporta! Attendo con terrore che Walter si pronunci.
Le parole che invece mi è dato di udire, apportano al mio cuore un cantico meraviglioso: t meglio rinunciare. Io l’anima su quella parete non c’è la voglio lasciare!
Lentamente discendiamo verso il ghiacciaio della Brenva, sulle orme della pista già tracciata, in direzione del bivacco della Fourche. Non commentiamo la decisione presa; passiamo frettolosi vicino al piccolo nido di aquile, tanto caro e utile agli alpinisti; discendiamo sul ghiacciaio del Cirque Maudit. Ora siamo completamente argentati dalla luce che la luna riflette sul ghiacciaio; ci siamo anche slegati, tanto è bello e sicuro camminare, assorti nei propri pensieri, in quell’ora gelida.
Di nuovo sono tanto felice, mi sono riconciliato con la montagna, la pace è ritornata dentro il mio cuore; amo ancora la roccia, il ghiaccio, mi ripropongo di continuare a scalare montagne, perché tutto sommato l’alpinismo è proprio una cosa meravigliosa.
La parete nord del Grand Pilier d’Angle, che si trova all’estremità meridionale dell’immenso versante della Brenva sul Monte Bianco, era uno degli ultimi e più ambiti problemi ancora insoluti delle Alpi Occidentali.
Questa repulsiva e pericolosa parete, ancora inviolata, non era mai stata tentata da nessun alpinista, e con i suoi mille metri di appicco, costituisce la più severa, impegnativa, pericolosa scalata di misto roccia-ghiaccio alla vetta del Monte Bianco.
La parete era già stata notata da Walter Bonatti, particolarmente, perché era per lui il completamento di tutte le vie che già aveva salito sul bacino della Brenva.
Passò l’inverno e nuovamente ritornò l’estate.
In altre circostanze rivedemmo e studiammo la parete, convincendoci così che in fondo non era poi impossibile tentare e che il periodo migliore per farlo sarebbe stato all’inizio dell’estate, quando le condizioni degli scivoli ghiacciati, causa il forte innevamento, sono ancora fattibili in velocità. Tutto questo perché la parte inferiore della scalata si sviluppa lungo uno zoccolo di ghiaccio, alto circa quattrocento metri, continuamente minacciato, durante le ore calde della giornata, dalle scariche dei seracchi della Poire, e di un ghiacciaio pensile che per circa metà della salita incombe sulle teste degli alpinisti.
I primi giorni di giugno quindi, già ci trovano impegnati nelle gite di allenamento, con la viva speranza in cuore, che se le condizioni d’innevamento ce lo avessero concesso, avremmo potuto attaccare alla fine del mese.
Ogni giorno tenemmo d’occhio la montagna; le condizioni migliorarono di volta in volta, il ghiaccio era scarso anche dove di solito regna sovrano. Il venti giugno credemmo fosse arrivata l’ora, il giorno, il momento giusto per poter tentare la grande, nuova scalata.
Sono le prime ore del pomeriggio. Il tempo è stupendo, le condizioni della neve sul ghiacciaio del Cirque Maudit, che lentamente, ricurvi sotto i nostri pesantissimi sacchi, stiamo risalendo, sono ottime.
Risaliamo velocemente il ripido pendio che ci porterà al bivacco della Fourche; siamo ansiosi di arrivare sulla crestina terminale, affinché ci sia dato di valutare con esattezza le condizioni della nostra parete. Certamente per altre salite sarebbe stato troppo presto attaccare, causa la troppa neve che ancora si trova sulla montagna; ma per noi è quanto desiderato.
Siamo i primi alpinisti ad aprire la porta del minuscolo nido di aquile per quest’anno, ed io ne provo una certa emozione.
Abbandoniamo i pesantissimi sacchi sulle basse cuccette del rifugio, mentre già il nostro sguardo vaga sulla vertiginosa parete, ormai completamente nell’ombra fredda, che ci sta di fronte. Ancora una volta facciamo dei propositi’ sull’itinerario da seguire nel tentativo di scalata; ma dentro di me già un’angosciosa paura di attesa mi attanaglia, facendomi desiderare l’azione anziché queste ore di inoperosità.
Si vuotano i sacchi, facciamo la scelta dei materiali e dei viveri che porteremo con noi; poi senza troppe parole si comincia a mangiare. Sappiamo che per molte ore non ci sarà più concesso di pensare a certe necessità corporali e così cerchiamo di introdurre nello stomaco quanto più cibo è possibile.
Mi restano ancora tre ore per cercare un po’ di riposo e mi allungo in una cuccetta; però con un certo nervosismo. È vero che le ore che precedono una grande scalata sono fra le più penose per un alpinista; si ha il cuore stretto in una morsa di ansia, la tensione nervosa comincia a farsi notevolmente sentire.
Le tenebre sono appena giunte sulla montagna; saranno circa le nove, cominciamo gli ultimi preparativi, un ultimo sguardo al barometro-altimetro, calziamo i ramponi. Solennemente apriamo la porta del minuscolo rifugio.
Istintivamente alzo gli occhi verso il cielo; migliaia di lucentissime stelle adornano il firmamento. Come sono belle! Sarebbero state altrettanto belle nella notte di domani?
Si accendono le pile frontali e Walter per primo sparisce, con l’aiuto di una corda fissa, nel sottostante canalone ghiacciato.
Superiamo la crepaccia terminale con una certa disinvoltura, grazie alla esplorazione sino a quel punto fatta nel tardo pomeriggio. Siamo ormai legati alla corda, che poi per due notti e due giorni ci terrà uniti per la vita e per la morte; uniti in una lotta meravigliosa e terribile, che come sempre, forse perché troppo personale e soggettiva, è difficilmente comunicabile.
Un silenzio tombale ci circonda. Appena percepisco il mio stesso affannoso respirare. Siamo sul ripiano superiore del ghiacciaio della Brenva; camminiamo veloci sulle valanghe di ghiaccio che in ogni stagione precipitano dal tormentato canalone Güssfeldt. Arriviamo sul Col Moore.
Qui prendiamo un momento di riposo. In lontananza verso il Delfinato vediamo i bagliori di un grosso temporale estivo, come già altre volte ci era stato dato di vedere. Sulla vetta del Mont Chétif una piccola nuvoletta è sospesa come una aureola sulla testa di un Santo. E quale sarà il santo a cui dovrei chiedere una particolare protezione prima di avventurarmi su quella via?
La repulsiva parete ci sta ora di fronte, con i suoi mille metri di appicco. Veramente un mondo affascinante, unico fra tutta la cerchia delle Alpi; così vasto, impenetrabile, misterioso, severo e pericoloso su tutti gli itinerari di salita.
Pensiamo che avremmo bisogno di bel tempo assoluto almeno per tre giorni e tutte le previsioni sino a questo momento sembrano garantircelo. Attaccheremo quindi la nuova via sulla parete nord del Grand Pilier d’Angle.
Il ripido pendio che ora abbiamo cominciato a discendere sembra confermarci la buona condizione della neve. I ramponi mordono perfettamente, discendiamo veloci e sicuri per attraversare, nella parte meno tormentata e meno pericolosa, l’alto ghiacciaio della Brenva per portarci all’attacco dei ripidissimi canaloni ghiacciati, che costituiscono la parte bassa della parete nord.
Abbiamo così raggiunto la base del Pilier e in cuor nostro speriamo di non trovare grandi difficoltà, almeno nel superare la crepaccia terminale. Ma appena all’attacco, già la montagna sembra volersi ribellare a tanto ardire.
Il problema non si presenta facilmente superabile, perché per arrivare allo scivolo di ghiaccio sopra la terminale si dovrà vincere un muro alto circa venti metri. L’esperienza di Walter ci insegna che la cosa migliore da fare sarà quella di praticare un tunnel nel ghiaccio, affinché con meno pericolo e minor perdita di tempo si possa continuare a salire.
Vorremmo che il tempo si fermasse, ma invece di passare soltanto minuti, al termine della prima difficoltà sono trascorse quasi due ore. Di fronte a noi si profilano ora erti pendii solcati verticalmente da profondi rigoli alti centinaia di metri. Sono la dimostrazione tangibile dell’inferno che regna su queste pareti nelle ore calde della giornata.
Sono felice di trovarmi qui? Credo di poter dire sinceramente di sì, anche se la paura di tutto ciò che non conosco ancora mi stringe il cuore in una morsa angosciosa.
Il gradinare veloce di Walter e il nostro sicuro procedere ci danno la consapevolezza della nostra ottima preparazione. Saliamo obliqui verso destra, illudendoci di restare fuori da una eventuale caduta di seracchi della Poire; ma a un certo punto abbiamo la conoscenza esatta che per raggiungere una prima protuberanza rocciosa a forma di zeta, da noi denominata «crestina sinuosa», dovremo procedere direttamente sulla verticale sotto l’incombere minaccioso del seracco di destra della Poire (orograficamente parlando).
Al momento di decidere se continuare o no, e per alcuni eterni minuti che seguiranno, non riesco più a controllare il tremito che fa tentennare le mie gambe; ma poi l’azione decisa del procedere mi toglie dall’incresciosa situazione. Saranno circa le tre. Mai come adesso ho amato il gelo della notte; le stelle che brillano sopra le nostre teste e che mi riempiono il cuore di fiduciosa speranza.
Tutta la nostra volontà, i muscoli del corpo, il nostro cuore e la nostra anima sono protesi nell’immane fatica, per superare quel pericoloso e difficile scivolo di ghiaccio; quando un boato immenso completamente paralizza il nostro veloce salire. La vita dentro di me per un momento ha cessato di essere, il cuore batte, ma non sento l’alito del mio respiro uscire dai polmoni. Soltanto l’udito ha trasmesso al pensiero la idea che una valanga di ghiaccio possa precipitare sopra le nostre teste.
Come è veramente fragile la vita degli uomini di fronte all’incontrollabile e grandiosa potenza della natura!
Passano attimi eterni di terrore prima che ci sia concesso di spostare lo sguardo attonito verso la nostra destra, per sentire meglio il fragore dell’immensa valanga di ghiaccio che sta precipitando fortunatamente lungo i canaloni della via Major e della Sentinella Rossa.
Guai a quegli alpinisti che in quell’ora si fossero trovati ad attaccare quelle vie. Tutto essa spazza a valle, quello che incontra su un raggio di almeno cinquecento metri, ed il pulviscolo bianco giunge ora sino a noi.
Non indugiamo oltre. Dal momento che tutto è fermo sopra di noi, riprendiamo affannosamente la salita.
Il sorgere del nuovo giorno è ormai prossimo e con il giungere del primo sole noi dobbiamo avere raggiunto almeno le roccette a forma di zeta.
Finalmente Walter può piantare il primo chiodo nella roccia e dopo molte ore ci è dato anche di tirare un attimo di respiro. La sosta è però interdetta. Superiamo i centocinquanta metri delle rocce sinuose, senza trovare grandi difficoltà, con il sole che ormai già illumina tutta la montagna.
Eravamo così giunti nel cuore della nostra parete, ed una realtà paurosa ci circondava. Ci trovammo al centro di una enorme ragnatela, tessuta però di ghiaccio eterno, di rocce innevate e friabili, di abissi vertiginosi continuamente martellati durante le ore calde della giornata, da cadute di pietre e di ghiaccio, mentre sopra di noi direttamente si erigeva strapiombante una fascia di rocce, che completamente impregnata di ghiaccio sarebbe certamente stata il punto chiave di tutta la salita.
Qualche centinaio di metri ancora più in alto, stava il ghiacciaio pensile, che per tutta la sua larghezza caratterizza la parete nord del Grand Pilier d’Angle.
Ci volle molto coraggio per poter continuare! E capimmo subito che non ci eravamo sbagliati, quando scrutando la parete con il binocolo, avevamo giudicato quel tratto il più temibile di tutta la via.
Un canalino ghiacciato ci distolse dal pensare oltre e furono quelli i primi trenta metri di arrampicata su difficoltà estreme in terreno misto, ove i chiodi piantati, malsicuri a causa della roccia inconsistente, maggiormente ci obbligavano ad un procedere prudentissimo. Continuammo così per alcune lunghezze di corda, ma ad un certo punto avemmo quasi il terrore di non poter più continuare. Il nostro sistema nervoso, in tutte quelle ore, fu messo a durissima prova, più dei nostri muscoli. Non sentivamo né fame né sete, neppure l’affanno del respiro; ma soltanto il prepotente desiderio di uscire al più presto dalle tele intricate di quel ragno.
Superati in quelle condizioni circa duecento metri, la parete sembrò adagiarsi leggermente; ma fu allora che maggiormente- ci rendemmo conto del pericolo che correvamo col gigantesco ghiacciaio pensile incombente sopra le nostre teste.
Non ci restò quindi molto tempo per studiare ulteriormente dove poter continuare, perché si rese subito necessaria una traversata da sinistra verso destra, su di uno scivolo di ghiaccio paurosamente verticale, verde, e facente da canale di scarico al ghiacciaio pensile.
Furono quaranta metri di difficoltà estreme e di maggior pericolo di tutta la scalata; ma a cose fatte quando anch’io potei raggiungere Walter sulle rocce della sponda sinistra del canale, ebbi l’esaltazione della vita dentro il mio cuore. Ora ero certo che avrei riveduto brillare le stelle anche quella sera!
Adesso eravamo tagliati fuori da ogni possibilità di ritornare indietro per quella via, perché la traversata fatta in leggera salita era assolutamente impossibile nel senso inverso, ed il calarci a corde doppie ci avrebbe permesso soltanto di ritrovarci in un abisso fatto solo per la morte.
Ma il sole era splendente in cielo e, ancora prima di mezzogiorno, già eravamo sopra il punto chiave di tutta la salita. Non stemmo neppure a domandarci come avessimo potuto procedere così velocemente, nonostante tutte le difficoltà incontrate ed i pesantissimi sacchi sulle spalle; ma era certo che ciò stava a dimostrare l’alto grado di preparazione raggiunto, fattore essenziale per la buona riuscita di simili imprese.
Ci concedemmo l’unico attimo di riposo di tutta la scalata, sì da mettere un po’ di cibo dentro lo stomaco ormai vuoto da molte ore; poi per un centinaio di metri salimmo con una certa facilità.
Il sole scomparve presto, come su tutte le pareti nord, il gelo ritornava nostro alleato, aumentando così le probabilità della riuscita per la nostra impresa.
Il freddo ritornò pungente, nell’attesa che Walter superasse il primo tratto della traversata, su ghiaccio verde, lunga un centinaio di metri, che, questa volta da sinistra verso destra, doveva condurci sul ghiacciaio pensile, ormai a poche centinaia di metri dalla vetta del Pilier d’Angle.
Il lavoro sul fragilissimo vetro fu lungo e delicatissimo per il caro Walter. Ogni gradino intarsiato nel cristallino ghiaccio richiese una penosa attesa; e i pochi chiodi infissi rappresentavano l’unico appiglio a cui avremmo dovuto tenerci in caso di caduta. Dopo una quarantina di metri anch’io raggiunsi Walter e ben presto mi resi conto di quanto veramente impressionante fosse il vuoto sotto di noi, nel mezzo di quel canalone. Seguitai a guardare il procedere laborioso del mio capo cordata, con il fiato mozzo dall’emozione; quando ad un tratto anche quel lieve respirare cessò.
Uno scricchiolìo insolito, contemporaneamente all’istinto di alzare gli occhi mi fece vedere che alcuni blocchi di ghiaccio stavano precipitando sopra di me.
Tutto fu così rapido che ebbi appena il tempo di alzare il sacco sopra la testa e di stringermi forte al chiodo da ghiaccio a cui ero assicurato e sperai nella buona sorte. Il colpo arrivò violento, ma non riuscì a sbilanciarmi, così da lasciarci, come brutto ricordo, soltanto una grande paura.
Walter continuò a gradinare per procedere oltre, finché la lunghezza di corda terminata nelle mie mani, mi diede il segnale che il mio turno di andare era arrivato. Delicatamente, con amore mettevo il rampone dentro il fragile gradino di ghiaccio, affinché non crollasse sotto il mio peso, pensando Walter, che ancora non riuscivo a vedere, ormai in luogo sicuro.
Questa volta fu un boato immenso a farci sussultare. La montagna tremò tutta, e prima che potessimo renderci conto di cosa stava succedendo, una nuvola di polvere bianca ci avvolse. Da un seracco della Poire si era staccata una grande valanga di ghiaccio!
Il grido di Walter, di fare presto a raggiungerlo, mi distolse dal meditare oltre e quando gli fui vicino mi resi ben conto che le fatiche e le ansie non erano davvero ancora terminate.
La neve che ricopriva il ghiacciaio pensile era in condizioni invernali e di conseguenza il procedere si faceva molto pericoloso a causa della valanga che poteva staccarsi con una certa facilità.
Procedemmo così a tutta lunghezza di corda in traversata verso sinistra, sì da cercare il punto più facile per il superamento delle varie crepacce.
Eravamo stanchi di dover continuare a lottare con la montagna indomita, ed a ogni passo fatto verso la vetta speravo sempre di sentirmi gridare da Walter di essere finalmente arrivati su di un terreno amico. Ma fino all’ultimo metro fummo impegnati con tutte le nostre forze!
Erano circa le diciotto, quando liberato un piccolo terrazzino dalla neve, dopo venti ore di ininterrotto lavoro, potemmo concederci un vero momento di riposo. Soltanto a questo punto ci rendemmo conto che anche il problema della parete nord del grande Pilier d’Angle era stato risolto. Mai avremmo pensato di uscire da una parete alta mille metri, così severa, difficile, pericolosa, in un solo giorno!
È mezzanotte! Dopo alcune ore di gelido bivacco, la grande cresta di Peutérey è illuminata da una tenera luce lunare, ed il ghiaccio, ora d’argento, unitamente allo splendore delle stelle del firmamento completano di fronte ai miei occhi e dentro il mio cuore, la gioia ed i valori cercati e vissuti su questa montagna.
Grand Pilier d’Angle, parete nord, prima ascensione: Walter Bonatti e Cosimo Zappelli, 22-23 giugno 1962. Orario dell’ascensione: 21 giugno, raggiunto nel pomeriggio il bivacco della Fourche partendo dal rifugio Torino; lasciato il bivacco alle 21.30 circa. 22 giugno, ore 6.30 raggiunte le rocce a forma di zeta; ore 11.30 traversata difficilissima di 40 m; ore 18 raggiunta la vetta del Pilier d’Angle; bivacco. 23 giugno, ore 1 partenza e attacco della cresta della Peutérey; ore 5, raggiunta la vetta del Monte Bianco; ore 15 rientro al rifugio Torino.
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Una descrizione magnifica ! Emozionante e straordinariamente coinvolgente
Per anni la mitizzai e la mitizzammo…poi risalendo la Major..dall’alto la osservammo..all ‘ epoca lavoravo in rianimazione neurochirurgica ..e pensai al Zappelli infermiere…già solo l’unica similitudine…certo vi era il Bonatti..The Must…eppure una grande impresa..eccezionale la descrizione del buio nell’avvicinamento li nella comba del Maudit.. al Col Moore…silenzi e tutto vero…. da rileggere sempre..sembra di sentire il profumo di quei posti..i rumori il cielo enorme profondo e incombente….bell’intuito e il riproporlo come racconto ancora meglio..nonostante l’età e una bella iniezione di adrenalina ..Ottima iniziativa
Grande alpinismo, con accettazione di un livello di rischio molto elevato. Ma senza questo, non ci sarebbe grande alpinismo.
Bonatti aveva già salito il Pilier più a sinistra assiene a Toni Gobbi lungo l’evidente fenditura che incide il Pilier. Ancora più a sinistra sulla nord est assieme a stesso Zappelli aprirà un’altro itineraio. Segno che questa parete lo attirava assai.
Questa Bonatti-Zappeli della nord è stata senza dubbio una gran via di misto e ghiaccio. Con le tecniche e gli attrezzi del tempo, il ripidissimi tratti di ghiaccio credo fossero più impegnativi dei trtti di misto. Con l’avvento della piolet-traction tutto cambierà e per assurdo la via Boivin-Vallecant aperta diversi anni dopo nel 1975 permetterà di salire il Pilier tutto in ghiaccio e forse meno impegnativa di questa e della antecedente Cecchinel-Nominè anche questa con difficili tratti di misto.
Cosimo Zappelli viareggino nato nel popolare rione della Darsena tra marinai, pescatori e calafati.
Le sue più belle salite in Apuane sono state le prime e d’inverno alla nord est del Pisanino, alla nord dell’ Alto di Sella e soprattutto quella alla nord del Pizzo delle Saette.
Di ben altro livello la sua attività al monte Bianco dopo che si era trasferito a Courmayeur a fare l’infermiere.