La parete nord della Furchetta
di Emil Solleder
(Da „Die letzten großen Wandprobleme in den Dolomiten“, Zeitschrift des Deutschen und Österreichischen Alpenvereins, 1927, 58, 234-251)
Traduzione di Paolo Ascenzi
Nel periodo antecedente la Grande Guerra, le grandi pareti, una dopo l’altra, persero la loro aura di inacessibilità e ci fu anche chi pensò di salire la terribile parete nord della Furchetta.
Nel corso degli anni i migliori rocciatori si cimentarono su questa parete compatta e perennemente in ombra e ben presto nel mondo alpinistico essa divenne un problema rilevante. Piuttosto spesso un giovane alpinista si sedeva sulla cresta sommitale della Furchetta e osservava attentamente la parete verticale fin giù nel circo che ne contorna la base dove i massi più grandi a malapena si distinguono dagli sfasciumi dei ghiaioni. Costui era Luis Trenker, aspirante guida della Val Gardena, che voleva essere sicuro che davvero da lì non si potesse salire. Poco prima dell’inizio della Grande Guerra, Trenker aveva fatto un tentativo insieme ad Hans Dülfer il miglior rocciatore dell’epoca.
Dülfer e Trenker salirono per un lungo tratto fino ad imbattersi in un ometto di pietre sotto il quale trovarono un pezzo di carta su cui era scritto “non si passa” lasciato da [Angelo; NdT] Dibona che, con i fratelli [Max e Guido; NdT] Mayer e [Luigi; NdT] Rizzi, era arrivato fin lì e da lì era dovuto tornare indietro. I due invece passarono e salirono fino al punto che sarebbe stato denominato Dülferkanzel (pulpito Dülfer; NdT), alla base di una placca triangolare bianca e strapiombante. A destra sembrava non esserci alcuna possibilità. A sinistra invece si ergeva uno spigolo piuttosto invitante al quale forse si poteva arrivare superando un tratto di rocce instabili. Due chiodi arrugginiti ancor oggi testimoniano l’inizio della traversata che avrebbero dovuto effettuare. Invece, una caduta di sassi e il sopraggiungere della notte li costrinsero a scendere. La discesa, di circa 900 metri, fu per loro certamente un’esperienza terrificante. Successivamente, Dülfer affermò che la chiave dell’ascensione sarebbe stata nella possibilità di raggiungere lo spigolo di sinistra. Quando nell’estate del 1925 io e il mio compagno Wiessner sbirciando tremebondi oltre lo spigolo vedemmo le rocce gialle e strapiombanti ci rendemmo conto che non c’era niente da fare.
Per un intero inverno la possente Furchetta mi aveva avvinto con il suo fascino, ma quando la vidi per la prima volta era ormai estate. Quando mi trovai al suo cospetto insieme al mio amico della Sächsischen-Schweiz (Svizzera-Sassone; NdT) Wiessner, il mio sogno non venne deluso. La montagna, con le sue due cime e la sua stretta parete che si erge direttamente dal circo che ne contorna la base, superava le mie aspettative. Per ore rimanemmo a studiarla con il binocolo. Fino al pulpito Dülfer ci era tutto chiaro, dopo però non sembrava esserci alcuna possibilità di salita. Lasciammo il nostro materiale più pesante, corde e chiodi, nei pressi di un costolone della parete dove ci sembrava si potesse attaccare e, attraversando la Mittagsscharte, tornammo alla Regensburger Hütte.
Il mattino seguente lasciammo il rifugio prestissimo ed intraprendemmo la salita. Su una sporgenza, appena 50 metri sopra l’attacco, trovammo tracce di tentativi precedenti. C’era una corda penzolante ormai marcia e una ancora in buone condizioni e in una fessura alcuni chiodi di duralluminio ancora scintillanti, quindi non molto vecchi. Da qui si innalzava una successione ininterrotta di fessure e camini che conduceva fino ad un punto molto evidente sotto il già nominato pulpito Dülfer. Quel luogo, così sgradevolmente verticale, sarebbe stato la nostra prima meta. Dopo aver raggiunto una cengia ricoperta di detriti ci portammo troppo a sinistra per cui, per riprendere la nostra serie di fessure e camini, dovemmo superare una parete straordinariamente ripida. La roccia era solida e facile da scalare. Questo rafforzava la nostra fiducia di arrivare rapidamente al punto più alto fino ad allora raggiunto, così da guadagnare tempo per raggiungere la vetta. Più in alto invece fummo ostacolati dalla neve fresca che copriva tutti gli appigli e che rallentava sensibilmente la nostra salita. Inoltre, le nostre dita intorpidite dal freddo reclamavano urgentemente una protezione. Alla una del pomeriggio eravamo ancora 80 metri sotto il pulpito. Vedemmo chiaramente la lunga costola che lo attraversa. Al di sopra si ergeva, con una impressionante verticalità, la parete terminale completamente priva di neve. Quello sarebbe stato il tratto decisivo. La roccia però non parla e non dà indicazioni. Preoccupati calcolammo il tempo che ci rimaneva e, ancora più preoccupati, osservammo le pesanti nuvole grigie che si addensavano. Non sarebbe stato un semplice temporale, ma un vero e proprio cambiamento del tempo.
Ci chiedemmo se non fosse stato opportuno scendere, il buon senso ebbe la meglio. Il primo chiodo venne piantato nella roccia, il cordino fu infilato nel chiodo e le due corde, quella usata per arrampicare di 40 metri e quella di riserva di 55 metri, vennero annodate. Così ebbe inizio la discesa verso i ghiaioni alla base della parete nascosti dalla fitta nuvolaglia. La corda si lasciò recuperare facilmente e la discesa si svolse a ritmo serrato. Non facemmo economia di chiodi e di moschettoni. Li lasciammo sul posto perché pensavamo che dopo pochi giorni avremmo potuto completare l’impresa che ci era stata impedita da un invidioso dio delle intemperie.
Mancavano meno di 100 metri dalla base, un paio di doppie, quando si scatenò il temporale. L’amico Wiessner si riparò sotto uno strapiombo. Io ero ancora appeso alle corde quando venni colto dalla grandinata. Che crepitio, che fracasso! La grandine, a ondate, scivolava lungo la parete. Fu una fortuna che nello scendere non avessimo seguito le fessure e i camini perché lì era una vera cascata.
Avevo già vissuto analoghe esperienze durante le mie ascensioni, ma, sebbene non mi sia mai nascosto i pericoli che correvo, ho sempre provato una certa superiorità psicologica. Come la montagna mi richiede un impegno totale in questi frangenti così credo di poter far miei quei momenti di grande felicità che la montagna mi dona, sia che si tratti del riposo ristoratore al sole dopo una dura scalata sia che si tratti di un luminoso mattino dopo una notte di bivacco dominata dalla tempesta e dalla nebbia.
Di buon umore alle 5 arrivammo dove avevamo lasciato i nostri scarponi chiodati. Battevamo i denti per il freddo e l’umidità, ma già i primi bocconi di sardine e una specie di danza africana ci riscaldarono. Per ore la neve continuò a scendere turbinando senza fine dal cielo grigio. Faticosamente risalimmo il colle e a notte inoltrata arrivammo alla Regensburger Hütte, calorosamente accolti da Padre Demez.
Dopo alcuni giorni, ci sedemmo in cima alla Furchetta con 50 centimetri di neve fresca. Qualsiasi ascensione più impegnativa era impossibile, come era impossibile pensare alla nostra parete e al suo problema. Così, decidemmo di separarci.
Venne il mese di luglio. Le settimane passavano. Il tempo era variabile e con molta lentezza si scioglieva la neve che ricopriva la parete nord scarsamente soleggiata. Allora dal Catinaccio inviai al mio compagno il messaggio: “Al Regensburg il cielo è limpido”. Lui arrivò immediatamente dal Kaisergebirge dove aveva appena salito la parete sud-est del Fleischbank. Tutti e due eravamo in buona forma, a seguito delle ascensioni che nel frattempo avevamo compiuto, per cui potevamo sperare nel successo della nostra impresa.
La notte del 1° agosto era mite, il cielo era nuvoloso, sopra il Rodella balenavano i fulmini e soltanto raramente comparivano le stelle negli squarci fra le nuvole. Tutti cattivi presagi per una grande ascensione su roccia. Il barometro però si era un po’ alzato e questa era una sia pur debole speranza di bel tempo. Noi comunque volevamo tentare la salita e poco dopo mezzanotte la nostra lanterna illuminava il sentiero verso la Mittagsscharte. Nel grigiore dell’alba arrivammo alla base della parete. C’era però ancora molta nebbia e soltanto quando cominciò a diradarsi iniziammo, nel chiarore crescente, la salita del ripido spigolo del pilastro. Tutti e due salimmo in silenzio l’enorme sperone della parete. Finché le difficoltà lo consentirono salimmo slegati in modo da raggiungere al più presto il sospirato pulpito. Data la situazione atmosferica mi dissi che dovevamo assolutamente evitare un bivacco. Notai sul viso del mio compagno le mie stesse preoccupazioni. Ciascuno a modo suo percepiva l’immensità di quella fuga di placche gigantesche, ma nessuno era preoccupato del fatto di arrampicare slegato.
Arrivammo al punto da cui la volta prima ci eravamo calati ed estraemmo dalla fessura il chiodo della prima doppia. Proprio sotto il pulpito Dülfer ci legammo e dopo aver superato la parete concava e povera di appigli alle 9 del mattino eravamo al di sopra del pulpito. Ci trovavamo su una cengia lunga circa 40 metri coperta di detriti, che verso sinistra saliva restringendosi per terminare bruscamente nella parete verticale. Un ometto, in buona parte distrutto, in questo ultimo punto di sosta era testimone eloquente dei precedenti arditi tentativi. Il motivo per cui tutti avevano fallito mi fu subito chiaro. Possenti strapiombi impedivano la salita; qui, la natura sembrava negare ogni possibilità di arrampicare su questo muro giallo e strapiombante. Inoltre, per tutti i restanti 250 metri di parete, la roccia solida era completamente scomparsa e potevamo aspettarci soltanto roccia marcia e di pessima qualità. Qui era arrivato Buratti, alpinista di Innsbruck, che con due compagni e grande fatica aveva cercato di arrivare in cima. Però la caduta del capocordata li aveva costretti a bivaccare sul pulpito. Purtroppo, l’implacabile parete fece una seconda vittima in quanto uno dei compagni di Buratti, il gardenese Verra, cadde mentre scendeva a corda doppia dal pulpito.
Eravamo pienamente d’accordo sul fatto che qualsiasi tentativo di salire direttamente in vetta non avrebbe avuto alcuna speranza di successo. Tenendo presenti le parole di Dülfer secondo cui dietro lo spigolo di sinistra, che sembrava essere promettente, potesse trovarsi la chiave della salita, provammo in quella direzione. Un chiodo arrugginito era la prova dell’intenzione di Dülfer. Attraversammo la parete molto esposta su cornici instabili e placche lisce. La nostra speranza cresceva sempre di più, ma ci abbandonò improvvisamente quando raggiungemmo lo spigolo. Infatti, uno sguardo alla parete dietro lo spigolo ci convinse dell’impossibilità di salire. Rassegnati tornammo al pulpito e arrampicammo fino al suo margine occidentale. Il tempo volava e noi non eravamo ancora vicini alla soluzione dell’enigma. Wiessner adocchiò un pilastro di roccia verticale, ma io lo dissuasi dal continuare da quella parte. Però, cosa c’era alla sua destra? Quella rientranza appena accennata non avrebbe potuto rappresentare una possibilità di salita? Costruii un altro ometto di pietre poi Wiessner effettuò una traversata di circa 10 metri su appigli di roccia rossa e marcia oltre la parte nascosta del muro. La corda filava molto lentamente. Cosa ci sarà laggiù? Eravamo consci che l’esito della salita sarebbe dipeso da ciò che avremmo trovato lì. “C’è una larga fessura!” disse Wiessner “che però si perde in una parete gialla strapiombante.” Tuttavia, facemmo nostra questa possibilità. Wiessner seguì la fessura fino alla sua fine e si fermò. Io risalii la fessura fino a circa la metà, poi, assicurato di Wiessner, mi spinsi a destra verso un piccolo sperone roccioso al quale il mio compagno si era assicurato. Sopra questa minuscola sosta le rocce erano un po’ più solide e ci permisero di salire fino ad un grande strapiombo. Riuscii a salire questo risalto di rocce marce mentre il mio compagno mi esortava caldamente a piantare quanto prima un chiodo. Nel tratto di rocce instabili mi fu di grande aiuto l’esperienza maturata nel corso delle ascensioni effettuate nel Karwendel all’inizio dell’estate; salii rapidamente per tutti i 40 metri della corda fino a trovare un buon posto di sosta. Una traversata a sinistra ci portò dopo 20 metri ad una fessura appena accennata che sembrava non volerci concedere neppure lo spazio necessario per cambiare posizione. Il primo chiodo, veramente enorme, fu piantato nella roccia marcia, poi dopo che Wiessner aveva fatto passare con grande attenzione la mia corda sulla spalla e dietro la schiena per assicurarmi, salii fino a un piccolo punto di sosta sgradevolmente stratificato. Sebbene un rigonfiamento sporgente non mi permettesse di vedere cosa ci fosse al di sopra, la parete sembrava essere meno difficile. Zigzagando raggiunsi questo tratto della parete che però diventava via via più difficile anziché più facile! La roccia, di color rosso-bruno, era marcia e leggermente strapiombante. Poi, pur essendo riuscito a piantare un chiodo salii per qualche minuto su pessimi appigli che, invece di darmi l’auspicato sollievo, mi tolsero ulteriori forze. Quindi mi spinsi qualche metro più destra fino ad una larga fessura alla cui estremità inferiore si rannicchiò il mio compagno. La fessura era larga quattro dita e al suo interno tutto si muoveva e tendeva a crollare. Mentre mi tenevo alle rocce più salde, cercai di piantare un chiodo affidabile in una fessura, ma non era possibile e dovetti rimandare l’operazione a quando sarei stato più in alto. Intanto, cosa era successo? Dal basso mi giungevano distintamente i gemiti del mio compagno. Un sasso, uno dei tanti che avevo dovuto togliere dal fondo dalla fessura, lo aveva colpito sulla testa nel momento in cui si era sporto sopra lo strapiombo per controllare la mia progressione. Ci mancava solo questo! Cercai di tirarlo su di morale, dicendogli che la parte più difficile della salita era dietro di noi e che sapevo con certezza che il punto decisivo era soltanto poco più in alto. Risalii la fessura che si inarcava sempre più verso l’esterno. Con le mani leggermente tremanti afferrai un blocco ben saldo. Che sensazione, non si può dimenticare! “Ancora 3 metri di corda” mi giunse debolmente dal basso. Risposi: “Va bene” pur rendendomi conto che la corda poteva bastare appena per raggiungere la piccola nicchia che era sopra di me. Avrebbe potuto essere un posto di sosta. La fessura si allargava fin sotto ad un tetto diventando un breve camino. Superai questo punto difficile ed estremamente esposto, poi riuscii ad incastrarmi nella piccola cavità. La corda era completamente finita tanto da sentirne la forte trazione anche stando rannicchiato. Poi salì Wiessner. La pietra sembrava lo avesse ferito seriamente perché era esitante e saliva lentamente. Con una occhiata mi resi conto che il tempo stava cambiando. Sbrendoli di nebbia vagavano lungo le pareti. In uno spiraglio fra le nuvole vidi alla base della parete il circo bianco e spettrale, come se ci fosse stata una fitta nevicata. Tuttavia, la mia maggiore preoccupazione era quella di trovare il modo di continuare a salire adesso che la via si perdeva nella nebbia sopra di me. L’ora avanzata non ci permetteva di tornare indietro, “Avanti, su” divenne il nostro motto. L’amico Wiessner finalmente mi raggiunse. Con grande difficoltà cambiammo posizione ed esaminai la sua ferita che per fortuna non apparve essere troppo grave. Il tratto di parete che seguiva sporgente e fratturato richiese la particolare tecnica di “arrampicata in spaccata”. Seguirono rocce solide, ma umide e scivolose a causa di un blocco di ghiaccio incastrato. Quello sarebbe stato un buon punto di sosta, ma ci affrettammo ad andare avanti. Mi spingeva una irrequietezza interiore.
Ora la roccia mostrava di nuovo il suo colore grigio, era compatta e non era più verticale. Eravamo forse alla fine delle difficoltà? Oppure c’era un nuovo ostacolo di colore chiaro che si confondeva con la nebbia? Salii rapidamente un ripido canalino, ed ecco: una scarpetta d’arrampicata abbandonata. Una sensazione di felicità mi invase. La nostra lotta non era stata vana. La Furchetta era nostra!
Per raggiungere la cima salimmo la friabile cresta occidentale. Erano le 5 del pomeriggio. Costruimmo un grande ometto di pietre e con appetito moderato consumammo il primo pasto della giornata.
Nel frattempo, il tempo era decisamente peggiorato e da nord giungevano gelide folate di nebbia. Quando iniziammo la discesa, la fitta nebbia per un attimo si aprì e potemmo ammirare i prati verdi della Schislesalpe che raggiungemmo con soddisfazione avvolti in un turbinio di sottili fiocchi di neve, segno che il tempo stava decisamente cambiando.
La parete tanto agognata era caduta! Non voglio gridarlo come se fossi un orgoglioso vincitore ubriaco, ma desidero dire che la parete nord della Furchetta è stata conquistata con la più pura tecnica d’arrampicata! So che si diceva e si scriveva che la sua conquista: “sarebbe stata possibile soltanto quando fosse arrivato un moderno scalatore di pareti di cemento armato”, ma ora nonostante l’aura di inaccessibilità che durava da anni, l’arrampicata sportiva ed impeccabile era riuscita nell’intento; ora, forse qualcuno sarà ansioso di sapere cosa si può fare e cosa non si dovrebbe più fare.
Il giorno seguente stringemmo la mano a Padre Demez per l’ultima volta e lasciammo definitivamente la cara Regensburger Hütte in mezzo a turbini di neve e pioggia scrosciante. Il maltempo però a noi non poteva fare più nulla. Scendendo e camminando, ogni tanto siamo caduti battendo le ginocchia a terra quando i nostri scarponi scivolavano su ammassi di neve. Dietro di noi erano le Odle, innevate in un inconsueto abito invernale, mentre noi ci avviavamo verso la pianura verdeggiante sotto la pioggia, felici del successo ottenuto e strappato per il rotto della cuffia.
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Su questa parete, diversi anni fa, dopo il pulpito Dülfer, ci fu una animata discussione col mio compagno di cordata, mio figlio, che voleva assolutamente uscire per la diretta Vinatzer, consigliata da Diego Zanesco(1^ ripetitore), ci portammo verso sinistra proprio oltre uno spigolo e qui notammo una frana: la roccia era bianca e ricoperta di scaglie, a quel punto, per fortuna abbandonammo l’idea(fissa) della diretta e ci gustammo l’arrampicata lungo la roccia gialla e nera della Solleder. La roccia migliore la trovammo dopo il pulpito dove è maggiore la verticalità e ciò permise una riconciliazione della cordata.
notevole la prima invernale del 1967 di Reinhold Messner e Heinl Messner in giornata.
Lascio ad altri le disquisizioni sui gradi e sottogradi. Quando leggo le storie di Emil Solleder, e di tantissimi come lui, il mio spirito si innalza. E poi vola via, altissimo.
Ricordate Il mio canto libero del grande Lucio? Beh, proprio cosí!
… … …
Tutto ciò, beninteso, anche se in vita mia la parete nord della Furchetta al massimo avrei potuto vederla col binocolo.
A prescindere dalle proprie capacità e predisposizioni ,l’ uomo è spinto verso l’alto, verso gli innumervoli contesti montani con lo stesso entusiasmo di un tempo , ma non è possibile parogonare due mondi completamente diversi.
se non sbaglio:
– tentativo Dibona-Mayer-Rizzi
– tentativo Dulfer-Trenker
– soluzione a destra Solleder-Wiessner
– soluzione a sinistra Aukentaler-Buratti (dove aveva previsto Dulfer)
– soluzione Diretta Vinatzer-Reifesser
un continui a superarsi.
Ci pensò poi Vinatzer a proseguire dritto oltre il pulpito Dulfer, su roccia marcia.. E dopo venticinque anni si prese dell’irresponsabile da Abram. Che tempi.
Esistono molte affinità tra la ricerca di una via come questa e una ricerca scientifica in qualsiasi ramo.Ultimamente come quella divaccini e cure..non solo per l’urgente Covid, anche per molte altre malattie meno mediaticamente proposte.. Con i materiali di allora ( corde di fibra naturale , protezione del capo , scarponi chiodati, scarpette suola feltrata) confrontati con quelli odierni , le imprese assumono ancor piu’valore..questa poi e’ ben raccontata e tradotta.Purtroppo Solleder, si viene a sapere dal web, cadde in corda doppia nel 1931.
E si faceva la Storia…