La parete sud del Mount Watkins

Introduzione all’articolo di Chuck Pratt (GPM 062)
di Gian Piero Motti
(da Rivista della Montagna n. 36, settembre 1979)

Lettura: spessore-weight***, impegno-effort**, disimpegno-entertainment***

La storia dell’alpinismo nella Yosemite Valley non è ancora molto conosciuta in Europa, malgrado il notevole interesse che l’alpinismo californiano ha suscitato tra i giovani. Lo scritto che presentiamo ai lettori risale all’epoca d’oro dell’alpinismo in Yosemite, intorno agli anni Sessanta, quando due grandi figure dominavano la scena della valle: Royal Robbins e Warren Harding. Intorno a queste due figure si erano formati due gruppi veri e propri, che esprimevano una ideologia differente. Harding è un personaggio vulcanico, imprevedibile, passionale, capace di qualunque azione. Impaziente di realizzare le sue aspirazioni, ambizioso e orgoglioso, rappresenta un modo aggressivo di affrontare la scalata, dove per riuscire si ricorre a qualunque mezzo: installazione di corde fisse, assalti ripetuti, largo impiego di chiodi a espansione. L’importante è «riuscire» nell’impresa e dimostrare agli altri e a se stessi di esserne stati capaci.

La pagina di apertura dell’articolo sulla Rivista della Montagna n. 36, settembre 1979

Robbins è l’antitesi di Harding. Severo, puro nelle sue concezioni, sempre molto attento e controllato, dà l’idea di un perfetto robot intelligente, una sorta di macchina per arrampicare che nulla lascia all’improvvisazione, ma tutto calcola e prevede, sempre alla ricerca di uno stile di scalata «pulito».

Eppure la prima grande mossa sulla scacchiera dello Yosemite toccò al gruppo di Harding. Fu vinto il famoso Nose del Capitan con un assalto sistematico e tecnologico, senza risparmio di uomini e di mezzi. Harding più volte dette prova di una tenacia e di una resistenza incredibili.

In risposta Robbins realizzò il capolavoro di eleganza: la via Salathé sul Capitan, un trionfo dell’arrampicata libera sull’artificiale, la salita condotta in un sol tratto dalla base alla vetta, con pochissimi chiodi a espansione.

Evidentemente la fredda capacità di Robbins aveva vinto sulla passionale irruenza di Harding, il quale si sentì un po’ toccato sul vivo. Non era tipo da non reagire. E la reazione venne proprio con la prima salita della parete sud del Mount Watkins, uno dei colossi del Yosemite. La risposta di Harding tappò la bocca a tutti: la salita venne compiuta nel caldo torrido dell’estate, in un sol tratto dalla base alla vetta, senza installare corde fisse e con pochissime scorte di acqua e di viveri. Una realizzazione di estrema eleganza.

Vediamo gli attori di quest’impresa. Di Harding si è già detto. Alla lunga appare più simpatico e più umano del freddo e infallibile Robbins. Tra i due la polemica (mai cattiva ma sempre viva e competitiva) perdura tutt’oggi, malgrado essi si stimino parecchio. In seguito presenteremo uno scritto di Robbins affinché il lettore possa verificare le differenze su esposte.

Chuck Pratt e Yvon Chouinard nel 1964

Il secondo uomo è Chuck Pratt, uno dei migliori arrampicatori di quell’epoca: di lui e delle sue capacità in scalata libera, si dissero cose fantastiche. Romantico, idealista e sognatore, rivela in questo scritto tutta la sua sensibilità e il suo gusto per l’avventura. Il terzo uomo è Yvon Chouinard, il «profeta» del Yosemite, colui che ha saputo ideare tecniche e materiali sempre nuovi, colui che ai giovani ha sempre saputo indicare la strada ideale per procedere. Come uomo è un po’ la sintesi degli altri due, come arrampicatore è eccezionale. Ne risulta una cordata formidabile, una specie di «trimurti» dove Harding risulta il più vecchio ed esperto, il padre per così dire. L’ideatore dell’impresa è colui che sempre la sostiene. Pratt è l’uomo d’azione, il figlio simbolico, colui che riesce a concretizzare il progetto di Harding, mentre Chouinard vi appare come una sorta di spirito forte e costante, che sempre vigila sull’impresa in ogni istante.

Il racconto, forse il più bello e il più «puro» della storia dello Yosemite, è appunto di Pratt.


La parete sud del Mount Watkins
di Charles Chuck Pratt
(da American Alpine Journal, 1965)
traduzione di Gian Piero Motti

La storica prima ascensione della Via del Naso sulla parete del Capitan, compiuta nel 1958, aprì una nuova era nell’alpinismo della Yosemite Valley. Durante gli anni successivi, altre tre vie formidabili, superiori ai mille metri di altezza, furono aperte sull’immensa parete monolitica. La notevole altezza della parete del Capitan, la natura dell’arrampicata, assai faticosa e sostenuta, i problemi logistici che ne derivano furono fattori determinanti nella realizzazione di queste prime ascensioni e richiesero un assalto a più riprese, facilitato dall’installazione di corde fisse che permettessero una facile ritirata sul fondo valle. Dalla prima ascensione del Capitan, erano state effettuate otto salite lungo le varie vie. Ormai gli arrampicatori erano giunti come al tramonto della prima fase pionieristica e cominciavano a prendere più confidenza in quel tipo d’arrampicata assai sostenuta e di lunga durata, tanto da divenirne esperti. Durante l’estate 1964, a seguito di alcuni miglioramenti scoperti nella tecnica di tirar su i sacchi e forti anche di un’attrezzatura più adeguata, i tempi ci parevano maturi per tentare la prima ascensione di una grande parete in uno sforzo unico e continuo.

Una delle poche pareti che non erano ancora state salite fino all’estate 1964 e che potesse essere paragonabile a quella del Capitan, era la parete sud del Mount Watkins. Elevandosi per quasi 900 metri al di sopra di Tenaya Creek, all’estremo est del Yosemite, il Moun Watkins rivaleggia per la struttura grandiosa ed imponente anche con il vicino Half Dome. Malgrado la sfida formidabile e più che evidente proposta dalla parete, il «problema Watkins» sembrava solo produrre una certa apatia negli arrampicatori residenti al Campo 4. Sebbene molti di essi, io incluso, andassero meditando su chi avrebbe voluto affrontare la parete, ancora nessuno di noi si era veramente mosso per agire. Ma una piacevole sera di luglio alla tenda di Warren Harding, posta sulla riva del Lago Tenaya nel cuore dell’Alta Sierra, mentre vino e buon cameratismo stavano scorrendo in gran copia come sempre, Warren mi mostrò una fotografia molto appiattita della parete sud e mi invitò a unirmi a lui. Senza molto riflettere, forse in un momento di entusiasmo un po’ avventato, mi dichiarai pienamente d’accordo. Con entusiasmo e con forza ci stringemmo le mani, ormai sicuri che l’affare del Mount Watkins era stato aggiudicato e venduto. Alcuni giorni dopo andavamo girovagando attraverso il Campo 4, due arrampicatori un po’ matti in cerca di un terzo come loro, avendo concluso che, in una scalata come quella, una cordata di tre elementi era un giusto compromesso tra rapidità di movimento e sicurezza. Tuttavia, ogni nostra ricerca andò vana. I «forti» della valle non dimostravano alcun interesse. Quelli che invece si interessavano non avevano la capacità necessaria.

Warren Harding in parete

La sera eravamo ormai rassegnati alla cordata di due, quando camminando nell’oscurità come un fantasma, Yvon Chouinard comparve davanti a noi. Aveva dieci giorni da spendere e ci chiedeva se per caso c’era qualcosa di interessante in progetto… Durante la settimana, dopo una breve ricognizione sul posto per studiare il problema e per formulare un piano di salita, ci demmo da fare per radunare viveri, attrezzatura e materiale da bivacco per una permanenza di circa quattro giorni in parete. La marcia d’approccio di tre miglia che porta al Mount Watkins, comincia al Mirror Lake (Lago dello Specchio). Appena scaricammo i nostri sacchi al parcheggio, due giovani e piacenti signore ci chiesero se per caso eravamo alcuni dei «Grandi» alpinisti del Yosemite. Yvon, modestamente, si accusò colpevole e dichiarò apertamente il nostro obiettivo. Allora esse, incuriosite, chiesero se era vero che gli arrampicatori del Yosemite strofinano e riscaldano le loro mani sul granito per metterle in condizione di aderire alle pareti verticali. Con estrema serietà le assicurammo che la stupida leggenda era vera. Poi, con perfetta scelta di tempo, Harding tirò fuori dalla macchina una bottiglia di vino e un pacchetto di biscotti, spiegando che quelli erano i nostri viveri per quattro giorni. Lasciammo poi le due giovani signore incredule e molto meravigliate per la poca sanità di mente e la totale mancanza di buon senso degli arrampicatori in Yosemite. Ma così la leggenda poteva continuare…

Dopo aver seguito il sentiero della Sierra Loop per due miglia, da ultimo cominciammo a contornare i ripidi pendii al di sopra di Tenaya Creek (la gola del torrente Tenaya), finché non raggiungemmo la base del Mount Watkins, dove cercammo di trovare un posto abbastanza adatto a trascorrere la notte. Durante l’oscurità cominciammo a notare con apprensione che la grande massa granitica del Mount Watkins ci nascondeva completamente il quadrante settentrionale del cielo. Il mattino seguente ci svegliammo in un silenzio un po’ fosco e terribilmente significativo. Con gli occhi bassi ci portammo all’attacco della parete.

A differenza delle altre grandi pareti del Yosemite, il Mount Watkins non ha una lunga storia alpinistica. Warren qualche anno prima era salito per più di duecento metri. Altri arrampicatori avevano studiato la parete osservandola dal margine meridionale della valle, ma il nostro avrebbe dovuto essere il primo vero e proprio tentativo di raggiungere la vetta lungo la parete. Durante la sua breve ricognizione, Warren era stato fermato da una placca levigata alta almeno 30 metri, che si ergeva sopra una larga e comoda terrazza ricoperta di alberi. Dopo lo studio che avevamo fatto della parete tre giorni prima, avevamo scelto di seguire la stessa via. Ciò implicava soltanto un’arrampicata di terzo e quarto grado e ci avrebbe permesso di guadagnare parecchio in altezza durante il primo giorno d’arrampicata. Sfruttando uno spigolo evidente che sporgeva al bordo sinistro della terrazza alberata, avremmo potuto salire sufficientemente in alto per effettuare una serie di pendoli per raggiungere poi una comoda terrazza sporgente proprio alla sommità della placca levigata, evitando così la necessità di dover bucare per 30 metri. Questa cengia avrebbe dovuto permetterci di raggiungere in seguito un sistema di diedri, che si prolungava per circa 300 metri al bordo destro della parete. Forse il sistema di diedri si congiungeva con delle fessure sottili e arcuate che attraversavano tutta la parete verso il bordo ovest. Speravamo che le fessure ad arco ci avrebbero portati al grande e liscio «scudo» posto al centro della parete. Speravamo anche di poter aggirare la parte liscia dello «scudo», superando così i rimanenti 180 metri di parete che lo dividevano dalla vetta. Comunque erano tutte supposizioni che sarebbero solo state risolte dopo alcuni giorni di arrampicata assai dura e tecnicamente impegnativa. La sfida individuale, le difficoltà non previste, l’incertezza, in sostanza l’Ignoto, che differenzia un’avventura da una comune passeggiata, era l’aspetto più attraente e affascinante dell’impresa nella quale ci eravamo imbarcati.

Tavola fuori testo in American Alpine Journal, 1965. Yvon Chouinard al primo giorno di parete, sul pendolo. Foto: Tom Frost

La nostra prima preoccupazione fu il trasportare 100 libbre di cibo, acqua e attrezzatura fino al punto più alto che Warren precedentemente aveva raggiunto. Dopo aver stipato il tutto in due grandi sacchi, salimmo con grande fatica lungo la corda fissa lasciata da Yvon, che conduceva in testa lungo una serie di cenge e di rampe ascendenti, con un percorso un po’ complicato. Ma ben presto raggiungemmo la terrazza alberata alla base della placca dove Warren precedentemente era tornato indietro. Avendo deciso di proseguire ancora più in alto quel primo giorno, cominciai a mettere tutto il carico in tre sacchi di tela, mentre Warren e Yvon si davano da fare lungo lo spigolo poco marcato che si originava al margine sinistro della terrazza. Due lunghezze di corda in arrampicata libera li portarono a una certa cengia, dove essi studiarono accuratamente la possibilità di compiere un lungo pendolo, necessario per raggiungere la meta prevista del nostro primo giorno: la comoda ed evidente terrazza posta al termine della placca levigata, circa trenta metri sopra di me. A circa metà pomeriggio Yvon era disceso per 25 metri, poi cominciò ad attraversare lungo una placca molto delicata, cercando per quasi un’ora e mezza di piantare un chiodo. Infine si rassegnò a bucare e mise un chiodo a espansione. Da quest’ultimo si calò ancora e cominciò una serie di spettacolari pendolate, cercando di raggiungere la terrazza posta al termine della placca. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, finalmente Yvon riuscì ad afferrarsi alla cengia, dopo aver pendolato per 20 metri lungo la placca verticale. Warren con una corda doppia diagonale raggiunse Yvon e dopo mi fu calata una corda fissa. Così Yvon poteva proseguire ancora nella speranza di raggiungere il sistema di diedri che avremmo dovuto seguire per 120 metri.

Mentre rimontavo la corda fissa, potevo osservare Yvon che battagliava lungo una fessura strapiombante del diedro, da risalire con tecnica di incastro. Dalla terrazza cominciai a tirar su tutti e tre i sacchi in una volta sola, con una tecnica speciale di issaggio che Royal Robbins aveva scoperto e perfezionato sulle vie del Capitan. Questo procedimento adotta una sola corda di ricupero, passata attraverso una carrucolina ancorata ai chiodi di fermata. Passando la corda attraverso un nodo Prusik o meglio un bloccante meccanico (maniglia Jumar) posto sul capo libero e scaricato della corda, riuscii a issare il carico lavorando solo con la forza delle gambe, invece che tirarlo su con le braccia, spingendo verso il basso con il piede una staffa collegata alla maniglia Jumar. La tecnica si rivelò efficientissima e fu molto meno faticoso che tirar su il tutto con la sola forza di braccia. Yvon e Warren ridiscesero alla terrazza, dopo aver lasciato 60 metri di corda fissa, giusto in tempo per preparare il nostro primo bivacco in parete. Dopo un solo giorno di parete, era evidente a tutti noi che la difficoltà maggiore da superare non sarebbe stata né l’arrampicata né le manovre di corda, ma piuttosto il caldo. Eravamo a metà luglio e la temperatura nella valle, a questa stagione, resta costantemente intorno ai 30 gradi. Come scorta d’acqua avevamo previsto circa due litri e mezzo al giorno per persona, la «dose» normale per una salita difficile e faticosa in Yosemite. Però non avevamo tenuto conto del caldo soffocante e debilitante, che per un giorno intero ci aveva come fusi, in un costante stato di abbondante sudorazione. Quegli alpinisti che disprezzano Yosemite e la sua mancanza di salite «alpine», ricaverebbero un’esperienza interessante se spendessero qualche giorno nel pieno dell’estate lungo una parete difficile della Valle. Le basse temperature e i venti gelidi non sono i soli aspetti negativi del tempo in montagna.

Il mattino seguente Warren e io risalimmo le corde fisse e continuammo ad arrampicare lungo il gran diedro, sperando di raggiungerne la fine prima della notte. L’arrampicata era faticosa e tecnicamente difficile, tale da richiedere più e più volte l’impiego dei chiodi orizzontali molto sottili, oppure di quelli a lama di rasoio piantati in fessure molto superficiali e un po’ disgregate. Comunque, il nostro più grande problema continuava a essere il caldo. Solo qualche volta una brezza leggera ci alleviava un po’ dalla temperatura insopportabile. Sebbene ci sforzassimo in ogni modo di non bere acqua durante il giorno, per averne almeno un litro ciascuno da sorseggiare nel fresco della notte, costantemente ci sorprendevamo a trafficare nei sacchi per dar mano alle borracce. La cosa si rendeva necessaria soventissimo, per inumidire le nostre gole riarse, ogni qual volta l’aria calda e secca esasperava ancor più la nostra sete inestinguibile. Anche il recupero dei sacchi, che non avrebbe dovuto costituire alcun problema, cominciava a essere la fatica più grande a causa del caldo. Yvon, che quel giorno si incaricava del recupero, si sentiva sfinito a ogni lunghezza di corda, esaurendo tutte le sue energie durante la giornata.

Nel primo pomeriggio ci sorprese non poco il volo di un’aquila reale a pochi metri dalla parete. Ci concedemmo una breve pausa, per un po’ lasciammo l’arrampicata e meravigliati restammo a osservare lo splendido rapace che maestosamente e senza sforzo alcuno, planava ben alto nel cielo sopra di noi. Sebbene lo spettacolo fosse inconsueto e magnifico, speravamo che il nido non fosse posto sulla direttrice della nostra salita. Nei giorni seguenti l’aquila sembrò compiere una specie di volo rituale lungo la parete, qualche volta anche tre o quattro voli al giorno, come se essa fosse un osservatore attento e silenzioso, posto come un guardiano a controllare la progressione di tre intrusi che si muovevano così lentamente nel suo regno di roccia e di cielo. Alla fine del secondo giorno raggiungemmo un sistema di cenge spazioso e molto confortevole, tanto che lo chiamammo il «Sheraton – Watkins». Ed è qui che ci trovammo di fronte alla maggiore incognita di tutta la nostra via, preparata e accuratamente studiata. La sommità del diedro ci sovrastava ancora di circa 60 metri. Quei 60 metri presentavano non solo fessure strapiombanti di roccia friabile e lastre instabili, ma anche alcuni tratti superabili solo con largo impiego di chiodi a espansione. In quel punto eravamo distanti circa 60 metri dalla grande arcata strapiombante che avevamo visto dalla base. E potevamo vedere chiaramente che essa non era affatto collegata con il vasto «scudo» delle placche centrali, ma che almeno 30 metri forse insuperabili li separavano. La prospettiva di bucare 30 metri di parete liscia ci terrorizzò non poco, costringendoci a cercare attentamente un’altra possibilità per raggiungere il centro della parete. In quel punto eravamo nel fondo del diedro, la cui parete sinistra era striata da una serie di fessure un po’ superficiali ma abbastanza continue, che permettevano di raggiungere una terrazza posta 30 metri più in alto ai piedi della parete centrale. Da questa terrazza, sembrava che una piccola cornice andasse a morire nella prima di una lunga serie di rampe più articolate, che attraversavano diagonalmente tutta la parete verso ovest. Sembrava l’unica alternativa ragionevole ed avevamo luce sufficiente per superare una lunghezza di corda, fino alla terrazza posta 30 metri più in alto e per poi ridiscendere a bivaccare al «Sheraton – Watkins».

Ci svegliammo molto presto il mattino del terzo giorno, con ‘l’intento di sfruttare il fresco delle prime ore della giornata, prima che il sole cominciasse il suo lavoro debilitante. Fu Yvon a condurre quel giorno, dal punto più alto che avevamo raggiunto. E fu proprio qui che cominciammo una vera e propria passeggiata sul bordo estremo di un astro sferico. Potevamo vedere molto bene la serie ininterrotta di cengie che attraversavano la parete per almeno un centinaio di metri. Ma una volta abbandonato il diedro, un’eventuale ritirata sarebbe divenuta sempre più difficile e complicata. Restava non solo l’incertezza sulle possibilità di trovare una via in seguito, ma anche il problema di scegliere ogni volta la giusta soluzione tra quelle che parevano possibili. Usando tutti i rurps (ndr: chiodini di acciaio a lametta da barba, adatti per le rughe superficiali del granito) e i chiodi a lama di coltello che avevamo portato, Yvon riuscì a raggiungere l’inizio della prima rampa, ricorrendo anche a tre chiodi a espansione. Poi cominciò la prima delle tre grandi traversate diagonali che ci avrebbero portato 100 metri più a sinistra nel centro della parete. Sebbene l’arrampicata non fosse estremamente difficile, cionondimeno lo sforzo per proseguire era più che notevole. Dopo circa tre giorni di parete, il caldo aveva così stremato le nostre forze e la nostra energia, che l’arrampicata procedeva a passo di lumaca. Warren se la cavava molto bene nel tirar su i sacchi da solo, così quasi tutto il pomeriggio fu speso per far attraversare la nostra piccola spedizione lungo la parete. Sebbene non avessimo guadagnato molto in altezza, i nostri sforzi finalmente furono ricompensati quando la traversata ci portò proprio al centro dello «scudo» della parete. Ricorrendo ancora una volta ai preziosi e indispensabili chiodi sottili e a lama di coltello, condussi per una lunghezza di corda quasi circolare, raggiungendo l’arcata strapiombante lungo un settore di roccia friabile e molto pericolosa. Poi seguii il bordo dell’arcata il più a lungo possibile. Ritornai indietro, con la convinzione che il giorno successivo i miei compagni per proseguire si sarebbero trovati di fronte a un normale passaggio a pendolo. Ci trovavamo in una zona di cenge molto estese in lunghezza, ma anche abbastanza comode, tali da permetterci di masticare con calma e voluttà i resti delle nostre scorte di formaggio, salame e altre ghiottonerie di tal specie, godendoci anche una breve apparizione della nostra amica aquila, che compiva il suo volo di ispezione giornaliero. Al termine di questo terzo giorno di scalata, eravamo ben consci della nostra critica situazione. Avevamo portato acqua sufficiente per quattro giorni, ma ora era chiaro che la vetta non sarebbe stata raggiunta in meno di cinque giorni. Tra noi e il gigantesco tetto che sporgeva dal bordo sommitale, restavano ancora più di duecento metri d’arrampicata problematica e per nulla evidente. A malincuore ci trovammo d’accordo nella decisione di ridurre la nostra razione giornaliera di acqua, per far fronte sufficientemente alla calura di un altro giorno trascorso in parete. Ancora non si prendeva in considerazione l’eventualità di una ritirata, sebbene la prospettiva di affrontare il caldo insopportabile con quel poco d’acqua rimasto, ci scoraggiasse non poco.

Il quarto giorno si rivelò come uno dei più difficili e problematici di tutta la nostra carriera di arrampicatori. Il sole continuava la sua spietata tortura, mentre Yvon e Warren si accingevano nuovamente alla lotta. Warren trovò che io avevo notevolmente sottovalutato la difficoltà del pendolo. Dopo uno sforzo quasi agonizzante, finalmente riuscì ad afferrarsi alla cengia e proseguì ancora fino al punto di recupero. Nel pieno pomeriggio, arrampicando alla velocità delle tartarughe lungo lo «scudo», raggiungemmo il punto chiave di tutta la scalata. Sopra di noi vi era una placca assolutamente liscia, alta 30 metri e sormontata da uno strapiombo che precludeva ogni possibilità di salita.

Warren più di una volta si era sentito mancare per il caldo, Yvon riusciva a parlare a fatica e io me ne restavo accucciato e istupidito cercando di utilizzare una piccola striscia d’ombra al di sotto di un grosso blocco staccato. Nel tentativo di avere un po’ più d’ombra, tendemmo sopra le nostre teste un’amaca da bivacco, ma i risultati si rivelarono insoddisfacenti. Per la prima volta prendemmo in considerazione la possibilità della ritirata, ma anche questo ci avrebbe richiesto un altro giorno intero speso in parete. Ci pareva che tutti quei lati positivi che avevano reso la scalata così affascinante e attraente, ora si ribaltassero al negativo e la trasformassero nella nostra disfatta. Warren studiò la possibilità di calarsi per 30 metri, sperando di raggiungere il bordo opposto dello scudo. Tuttavia, ci dispiaceva assai perdere 30 metri d’altezza duramente conquistati, soprattutto perché non eravamo affatto sicuri che le fessure sul bordo sinistro dello scudo portassero fino in vetta. Dopo una discussione resa ancor più difficile dalle nostre gole disseccate, decidemmo di tentare la placca liscia sopra di noi, sperando eventualmente di afferrare poi un sistema di fessure fino alla sommità, circa 150 metri sopra di noi. Warren si offrì di condurre da primo. Dopo aver piazzato tre chiodi a pressione, tornò indietro, troppo sfinito per continuare. Lo rimpiazzai io e con estrema difficoltà riuscii ancora a piantarne due, i primi due chiodi a espansione che piantavo nella mia carriera alpinistica, talmente mal piantati da essere appena sufficienti per sopportare il mio peso sulle staffe. Fu ancora la volta di Yvon che, dopo aver spezzato due perforatori, riuscì a piazzare ancora un chiodo a pressione, prima di lasciare ancora il comando a Warren. Invece di continuare a bucare, Warren lanciò un anello di corda attorno a un piccolo albero che sporgeva cinque metri più in alto, riuscendo poi a issarsi fino a una fessura orizzontale. Dandoci una magnifica dimostrazione di tenacia e di resistenza, Warren continuò a condurre fino al termine della placca, superando alcuni passaggi estremamente difficili in arrampicata libera e raggiungendo un terrazzino sufficiente per assicurare. Rinfrancato nello spirito ma non nel corpo, Yvon raggiunse Warren quasi nell’oscurità, stupefatto dalla resistenza del compagno. Lasciata una corda fissa, ritornarono alle cenge, dove tutti ci lasciammo cadere sfiniti dalla stanchezza.

Il quarto giorno Yvon, a causa della disidratazione, aveva perso così tanto peso che poteva comodamente abbassare i suoi calzoni da arrampicata senza aprire un sol bottone… Per la prima volta in sette anni riuscivo a sfilare un anello che portavo al dito e Harding, la cui somiglianza al classico aspetto che si dà a Satana è leggendaria, esasperava ancor più con la magrezza la sua espressione già abbastanza sinistra.

Tavola fuori testo in American Alpine Journal, 1965

Quella notte dormimmo fino a tardi e il quinto mattino ci svegliammo abbastanza rinfrescati. Sperando di raggiungere la vetta prima di sera, risalimmo la corda fissa per studiare attentamente i 120 metri rimasti. Ancora una volta ci trovammo di fronte a una situazione critica. Un sistema di fessure continue saliva fino a 30 metri dalla vetta, ma appariva chiaro che esse ci avrebbero portati in un settore di roccia rotta e friabile. Yvon condusse una difficile lunghezza, cercando di curvare verso l’angolo sinistro dello scudo. Dopo averlo raggiunto, mi calai un poco e cercai di pendolare verso lo spigolo sinistro dello scudo. Ma ancora non fui in grado di vedere se lo spigolo permetteva di salire fino in vetta. Decisi allora di superare le fessure poste sopra il punto di fermata dove si trovava Yvon. Esse erano molto larghe e da superare incastrandosi. Spinsi l’arrampicata libera al mio limite di caduta, per poter usufruire dei pochi bongs (cunei in lega leggera molto larghi) che avevamo portato. Dopo una dura battaglia per superare un ciuffo di arbusti, riuscii ad attrezzare un punto di fermata su staffe. Quel mattino avevamo stabilito la nostra razione d’acqua, consistente in un litro a testa. Yvon e io avevamo già bevuto il nostro litro e quando lui mi raggiunse, fui molto sorpreso nel trovare ancora la sua borraccia da un litro piena. Warren quel giorno si era rifiutato di bere, scegliendo così di agevolare il compito di noi due. Il suo sacrificio fu una dimostrazione di coraggio e di autodisciplina veramente ineguagliabile. Incoraggiato, Yvon superò in arrampicata mista un camino faticoso e friabile, esibendosi in movimenti assai atletici, fino a raggiungere alla sua sommità uno stretto terrazzino. Ci annunciò con gioia che l’ultimo tiro di corda sembrava facilmente chiodabile e che la vetta non era lontana più di 60 metri da lui. Ansioso di giungere in vetta, arrampicai il più velocemente possibile, mentre Warren con estrema decisione si dava da fare per tirar su i sacchi. Ciò che noi avevamo reputato dal basso come una semplice lama staccata, in realtà si rivelò come un pilastro monolitico alto 30 metri, delimitato ai bordi da due diedri ad angolo retto perfettamente fessurati sul fondo. La fessura di destra, a un primo esame, sembrava richiedere l’impiego di pochi bongs. Infatti rapidamente riuscii ad afferrare la sommità del pilastro, un terrazzino piatto e triangolare posto a 25 metri dalla vetta. Pareva che con l’ultima lunghezza di corda si andasse proprio a rasentare il bordo del gigantesco tetto posto sul labbro della sommità.

Yvon, ricorrendo per l’ultima volta ai rurp e ai chiodi a lama di coltello, raggiunse il bordo sommitale del Mount Watkins, proprio al calar del sole. Il suo grido trionfante mi fece udire ciò che per cinque giorni avevo atteso di udire. Quando Warren raggiunse il terrazzino, a tutti i costi volle schiodare l’ultima lunghezza, dicendo che quest’ultimo giorno egli non aveva contribuito abbastanza…! Warren Harding, che ebbe l’idea di realizzare la scalata, la cui determinazione ci aveva stupefatti sulla placca più in basso, Warren Harding, che aveva sacrificato la sua razione d’acqua dopo cinque giorni di durissima lotta, diceva che non aveva fatto abbastanza! Gli passai il capo della mia corda e mentre lui cominciava a schiodare l’ultimo tiro di corda, rimasi solo sul terrazzino con i miei pensieri.

Nella luce evanescente della sera, la Valle del Yosemite mi apparve bella come mai l’avevo vista, serena e quieta come mai mi pareva di averla conosciuta. Per cinque giorni la parete sud del Mount Watkins aveva dominato ogni nostro pensiero e tutta la nostra esistenza, nel modo in cui solo la natura riesce a dominare la vita degli uomini. Con il ricordo della lotta combattuta e la certezza della vetta raggiunta, provavo una profonda pace interiore che solo sul Capitan avevo vissuto. Pensavo al mio incomparabile amico Chouinard e alla nostra grande amicizia, un’amicizia ora condivisa anche con Warren, poiché eravamo stati uniti da un legame molto più grande e durevole di quelli che si possono intrecciare nel mondo più in basso. Cercavo di scoprire quali fossero i pensieri che attraversavano la mente dei miei compagni durante quegli istanti alla fine della scalata. I miei pensieri correvano indietro, lungo tutta la storia dell’alpinismo in Yosemite, da quell’indomabile scozzese Anderson, che per primo scalò l’Half Dome, a John Salathé, la cui filosofia e la cui etica in arrampicata avevano dominato l’alpinismo in Yosemite per i primi vent’anni, a Mark Powell, il successore di Salathé, che dimostrò a tutti noi come l’alpinismo possa essere un modo di vivere e la base per una filosofia esistenziale. Questi uomini, come noi stessi, erano venuti nella Valle della Luce con spirito inquieto e con il desiderio di vivere una grande avventura con i loro compagni. Siamo venuti come stranieri, pieni di apprensioni e di dubbi. Donando all’arrampicata tutto ciò che potevamo dare, siamo stati arricchiti da un’esperienza fisica e spirituale che pochi uomini possono vivere. Avendo accettato la sofferenza come una conseguenza naturale del nostro tentativo di salire, siamo stati ripagati dal dono della vittoria e di un completamento per il quale sempre saremo riconoscenti. Era proprio per questo che ciascuno di noi era venuto in Yosemite, ed è proprio per questo che ciascuno di noi ritornerà, stagione dopo stagione. Le mie fantasie furono interrotte da un grido di richiamo dall’alto e nella luce piena e ricca della Luna, cominciai a risalire la corda fissa fino a raggiungere la vetta, dove Yvon mi stava aspettando.

Warren si era spinto fino al punto più alto del pianoro sommitale, per vedere se qualcuno ci era venuto incontro. Ritornò solo e così noi tre ci gustammo uno dei momenti più felici della nostra vita. Prima di lasciarci alle spalle il bordo sommitale e di cominciare a camminare fino a Snow Creek, dove finalmente avremmo trovato l’acqua, mi concessi un’ultima visione della nostra aquila, per la prima volta non sopra, ma sotto di noi. Nella luce della Luna, planava calma e silenziosa lungo la parete, maestosa e fiera come sempre, finalmente indisturbata dalla nostra presenza nel suo regno, ritornato come cinque giorni prima.

Prima ascensione della parete sud del Mount Watkins (Yosemite), dal 18 al 22 luglio 1964: Yvon Chouinard, Warren J. Harding e Charles Chuck Pratt.


La prima ascensione solitaria ad opera di un italiano

di Renato Casarotto
(da Rivista della Montagna n. 36, settembre 1979)

In questi ultimi anni è apparsa sulla scena alpinistica la Yosemite Valley dove si pratica un’arrampicata d’avanguardia per quanto riguarda la tecnica e le difficoltà superate. Come altri alpinisti anch’io sono stato attratto da queste montagne gra-nitiche e finalmente nell’autunno del 1978 mi si è presentata la possibilità di poterle conoscere. Nel programma che mi ero prefissato era compresa un’ascensione solitaria che desideravo definire sul posto dopo aver fatto una sufficiente esperienza.

Fu così che entrato in contatto con un giovane americano, assiduo frequentatore del luogo, riuscii a farmi un’idea più completa sulle salite che si avvicinano maggiormente alla mia etica alpinistica. Egli mi descrisse un’ascensione in termini entusiasmanti sia per l’arrampicata prevalentemente libera che per il luogo lontano dal caos turistico della Valle: il Mount Watkins. Partii alla volta di questo per salire la via Chouinard-Harding-Pratt del versante sud.

Parete sud del Mount Watkins, primavera 1996, prima in libera: il canadese Steve Sutton conduce la seconda lunghezza (5.12a). Foto: Brooke Sandahl.

Le difficoltà si dimostrarono subito notevoli e dovetti effettuare più volte la classica manovra «californiana» costituita dal pendolo. Fin dal primo giorno di arrampicata capii quale sarebbe stato l’ostacolo più fastidioso da superare: più che altrove avrei dovuto soffrire per la temperatura insopportabile; questo lo potevo anche prevedere. Non altrettanto però un episodio curioso occorsomi: dopo un centinaio di metri di arrampicata notai in una fessura alcuni cordini rosicchiati e ammucchiati come per la costruzione di un nido. Osservando meglio vidi nell’interno un grosso topo capitato lassù chissà da dove. Praticando come di consueto l’autoassìcurazione dinamica fui pervaso dalla paura che quel topo mi avrebbe potuto rodere le corde facendomi precipitare e nello stesso tempo, dovendo usare la tecnica ad incastro per proseguire lungo le fessure, ebbi un attimo di esitazione ad infilarvi le mani temendone le conseguenze. Più avanti proseguii per più di cento metri, su un percorso non corrispondente alla via originaria. Quando mi resi conto di non essere sull’itinerario giusto, ritornai al punto di partenza, perdendo così una giornata.

Considerato che avevo calcolato una permanenza massima in parete di tre giorni, si rendeva necessario il razionamento dell’acqua. Nei giorni seguenti il sole implacabile continuò a torturarmi al punto che avevo la gola talmente riarsa da soffrire nel deglutire. Mi sforzavo di ricercare i più piccoli angoli d’ombra, ricavandone una sensazione di sollievo. Ad aumentare la sofferenza contribuivano le scarpe di tela e per il gran calore mi friggevano i piedi. Il pomeriggio del quarto giorno di arrampicata arrivai in vetta ormai esausto, ma stroncato soprattutto dal fatto di aver finito l’acqua fin dal termine del terzo giorno. Sulla cima mi fermai per qualche istante a riordinare il materiale da arrampicata e guardai per qualche attimo l’ambiente circostante: lo vidi sotto una luce maestosa e d’incanto, nella pace interiore raggiunta a conclusione dei miei sforzi, dopo i giorni intensi vissuti in parete. Avevo intravisto la via di discesa in occasione dell’ascensione precedente all’Half Dome, e pur essendo sopraggiunta ormai l’oscurità, udito il rumore di una cascata, mi avviai in quella direzione.

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La parete sud del Mount Watkins ultima modifica: 2017-12-16T05:47:31+01:00 da GognaBlog

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