La Pelle

La Pelle (GPM 027)
(ovvero considerazioni sull’alpinismo italiano e francese)
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, luglio 1972)

La conquista del pilastro ovest del Makalu (primavera 1971, NdR) può senz’altro definirsi come la più grande impresa dell’alpinismo moderno. Tralasciamo un attimo l’importanza del risultato e diamo per scontate le enormi difficoltà incontrate. Soffermiamoci invece sul come sia stato conseguito questo successo. Non a caso il Pilier del Makalu è stato vinto da una spedizione francese; non a caso l’Annapurna, primo ottomila raggiunto dall’uomo, fu conquistato dai francesi; non a caso lo Jannu, scalato dai francesi, segnò l’inizio di una nuova era nell’alpinismo himalayano, ossia l’epoca delle difficoltà estreme a quote elevatissime. Ora si impone la ricerca dell’itinerario più difficile su una montagna di ottomila metri, già salita per altri versanti più facili: è un progresso, una sicura evoluzione che garantirà il futuro del grande alpinismo, ormai un po’ fine a se stesso sulle Alpi.

Gian Piero Motti sulla famosa traversata della voie des Parisiens a La Pelle (1972). Foto: Ugo Manera

Tre sono state le grandi spedizioni (quattro se vogliamo considerare quella, recente, degli austriaci al Manaslu): la spedizione austro-tirolese al Nanga Parbat, la spedizione inglese alla parete sud dell’Annapurna, la spedizione francese al pilastro ovest del Makalu. Tre colossi impressionanti, tre differenti risoluzioni di problemi enormi, ed è proprio su questo punto che vorrei soffermarmi. La spedizione al Nanga Parbat ha dimostrato chiare lacune organizzative; disaccordi tra i vari componenti e diciamo pure affioramento di ambizioni personali. Indipendentemente da tutto ciò, il successo si è avuto grazie alla straordinaria determinazione e alla capacità eccezionale di alcuni componenti, primo fra tutti l’altoatesino Reinhold Messner. Dal punto di vista organizzativo e soprattutto umano, non mi è parso però un grande successo. Anche il successo personale di Messner ha ricevuto un durissimo colpo, inferto dalla perdita tragica del fratello Günther durante la discesa. Stranamente, forse ciò è dovuto al carattere e alla personalità dell’alpinismo austriaco, teso a esasperare maggiormente l’individuo e in costante ricerca di decadenti forme di eroismo che non posso sinceramente condividere; la spedizione al Manaslu avrà un risvolto più o meno identico. Carenze organizzative, mancanza di collaborazione, successo dovuto ad alcuni elementi.

Parete sud dell’Annapurna: vittoria che potremmo definire un po’ di équipe e un po’ dei due o tre fuoriclasse dell’alpinismo inglese, che già sulle Alpi hanno dato largamente prova del loro valore. Comunque, organizzazione eccellente, perfetto accordo fra i partecipanti. Unica considerazione: quando veramente le difficoltà divengono enormi, affiorano allora la tenacia e l’eccezionale resistenza di uomini come Bonington, Willhans e Haston, che reputo fra i migliori alpinisti mondiali del momento. Disgraziatamente, la morte di Jan Clough, del tutto accidentale, ha intristito questo splendido successo.

E veniamo al Makalu, che fra l’altro era già stato raggiunto dai francesi ben due volte per vie diverse. Ho letto attentamente la relazione dettagliata apparsa su La montagne et alpinisme e sono rimasto veramente colpito dallo spirito di collaborazione e dalla perfetta organizzazione della spedizione francese. Subito si comprende che lo spirito era quello di raggiungere la vetta, non importava “chi” dovesse raggiungerla e “come”. È chiaro che l’esperienza acquisita dai francesi nelle spedizioni extraeuropee gioca un ruolo fondamentale; ma certo, se non vi fosse un eccezionale cameratismo, una sincera amicizia e una generale volontà di vittoria, un tale successo d’equipe non si sarebbe sicuramente realizzato. Vi è poi nell’alpinismo francese qualcosa di entusiastico, di travolgente, direi quasi di sportivo, un atteggiamento sicuramente competitivo ma sereno, alieno da atteggiamenti tenebrosi e da romanticismi crepuscolari e decadenti.

La Pelle, Vercors

Tutto ciò non succede a caso. Alle spalle dei fortissimi francesi (sono veramente tanti, non si potrebbe dire chi è il più forte, non c’è la prima donna) vi è un modo di intendere la montagna e l’alpinismo del tutto particolare; vi è una preparazione intensa, e soprattutto vi è un terreno di preparazione veramente eccezionale per vastità e per possibilità di cimentarsi con nuovi itinerari di estrema difficoltà. Vi è, in sostanza, la possibilità e la volontà di misurarsi in continuo rinnovamento con il “nuovo”.

E veniamo al dunque. Mi direte: ma in Italia non esiste l’opportunità di scoprire nuovi terreni d’azione, per prepararsi adeguatamente a più grandi imprese? Ognuno deve riferire la propria esperienza: in Piemonte, è vero, non esistono le Prealpi francesi, non esistono purtroppo il Vercors o le Calanques, ma sono convinto che con un meticoloso lavoro di esplorazione nelle varie valli piemontesi si scoprirebbero sicuramente pareti di tutto rispetto. Pareti dove è possibile aprire itinerari di ampio respiro, che impegnino per due o più giorni e che veramente preparino a cimenti più severi. Invece si preferisce ripetere e sempre ripetere; si va sempre alla Sbarua, dove ormai arrampicare riesce persino noioso, tanto si conosce la struttura della parete e la dinamica dei movimenti. Non solo noioso, ma anche del tutto inutile ai fini della preparazione: solo arrampicando su terreno vergine ci si rende veramente conto delle proprie capacità. Consideriamo anche l’aspetto psicologico: vi è una bella differenza fra lo scoprire una via metro per metro, con la continua incognita di non passare, e il salire automaticamente lungo una fila di chiodi già infissi da altri!

Eppure alcuni, quando sentono parlare di pareti di trecento metri che sopra escono nei prati, di bastionate rocciose poste a quote non superiori ai duemila metri con relativi intermezzi di erba e di piante, storcono il naso, dicono che un tale alpinismo è solo più uno sfogo tecnico e che scompare la bellezza della vetta. Ma, per Dio!, sono pareti eccezionali, dove a volte si scoprono arrampicate di rara e grande bellezza. E poi nella pura ricerca delle difficoltà, nell’arrampicata intesa come sano esercizio fisico, diciamo pure come sport atletico, non vi è una grande bellezza? Forse dobbiamo sempre condire l’alpinismo di turbe psichiche, di romanticismi alla Schiller? Forse l’alpinista deve sempre rimanere un “giovane Werther”? Ricordo alcune magnifiche giornate, veramente ricche di soddisfazioni e di amicizia sulle modeste bastionate del Bec di Mea in Val di Lanzo e sulle gialle muraglie della Militi in Valle Stretta: sono pareti a bassa quota, che sopra hanno i prati e dove qua e là vi sono le piante e i terrazzini con tanta erba. Ma ricordo con quanta soddisfazione scoprimmo il passaggio dove nessuno aveva pensato di salire, e ricordo anche molto bene come a volte imbragato ai chiodi e alle staffe mentre recuperavo il compagno, avessi modo di guardarmi intorno, di scoprire con occhi incantati la bellezza smeraldina del fondovalle, di percorrere con lo sguardo le creste dentellate che chiudevano la valle, di accorgermi a un tratto di alcune piccole formichine che passeggiavano tranquille sul metro quadrato di roccia davanti ai miei occhi, e a tratti di ascoltare attento il ritmato canto del cuculo che giungeva dai boschi di faggi e castagni ai piedi delle rocce. E come sovente, sperduto fra grandi placche glabre, alla ricerca minuziosa di un buco o di un’esile fessura per procedere, non avessi affatto la sensazione di arrampicare in palestra: avrei potuto essere sul Capucin o sulla Torre Trieste, quando, ormai convinto alla ritirata, dopo quasi un’ora di ricerca, sporgendomi il più possibile e attraversando a corda su una placca esasperatamente liscia, trovai quella esile fessura che mi permise ancora di salire (qui Motti si riferisce alla traversata della quarta lunghezza della via del Naso sul Bec di Mea: oggi questo tratto si supera in arrampicata libera, ma il vecchio chiodo a espansione del quale si servì Motti per la sua traversata a corda a sinistra è ancora ben visibile poco più in alto e a sinistra della sosta di partenza. NdR).

Una moderna relazione della voie des Parisiens a La Pelle

In quei momenti, come dice Doug Robinson in un suo articolo stupefacente, si diviene “visionari”. Ho intenzione di tradurre per la nostra rivista l’articolo di Robinson e se qualcuno avrà la voglia di leggerlo potrà finalmente capire qualcosa di più sui giovani alpinisti, prima di accusarli di materialismo e di esasperato tecnicismo.

Da un po’ di tempo dunque, soprattutto in primavera e in autunno, andiamo in cerca di nuovi terreni di scalata e credo proprio che la nostra ricerca non sia stata vana, in quanto non solo non ci ha delusi, ma ci ha permesso anche di far conoscere ad altri luoghi di bellezza insolita e diversa, e pareti che nulla hanno da invidiare a quelle più celebri delle Dolomiti.

Da anni sono abbonato a La montagne et alpinisme, la splendida rivista del CAF, e sovente ho avuto modo di leggere interessanti articoli di presentazione dei vari gruppi calcarei delle Prealpi francesi, immenso terreno d’azione che si estende praticamente dalla Provenza fino oltre la Savoia: Calanques, Vercors, Verdon, Bartagne, Chartreuse, Bornes… nomi che mi hanno sempre affascinato e che hanno suscitato in me un pungente desiderio di scoperta. Desiderio di vedere pareti alte più di 400 metri, chiare, solari; desiderio di percorrere vie difficili che portano il nome di Desmaison, Livanos, Leprince-Ringuet… Cominciammo a conoscere le Calanques, poi, nella primavera più avanzata, ci avvicinammo al Massif des Cerces, un simpatico gruppo di torri calcaree dalle linee squisitamente dolomitiche, che si elevano di fronte ai giganti del Delfinato, a cavallo fra la valle della Guisanne e la meravigliosa e pittoresca valle della Clarée. Non restammo delusi. La bellezza dei luoghi era incantevole, gli itinerari d’arrampicata difficili, mai banali, sempre esposti. La roccia in genere ottima, un po’ meno nei tratti più facili, a volte terribilmente tagliente e rugosa.

Decisi allora di approfondire ancor più l’argomento. La lettura sistematica degli Annales del GHM (Groupe Haute Montagne) mi portò a conoscenza di altre zone vicine a Torino e sicuramente interessanti. Mi sono sempre chiesto perché il CAAI non curi la pubblicazione di un annuario a modello di quello del GHM francese; annuario che raccolga le note tecniche corredate di schema e fotografia delle più importanti vie nuove aperte durante l’anno sulle Alpi e nelle principali palestre italiane. Non credo che ciò costituirebbe una grande difficoltà, tanto più che una tale pubblicazione andrebbe veramente a ruba fra gli alpinisti, i quali, poveretti, devono razziare le varie biblioteche per trovare sulle splendide pubblicazioni francesi le informazioni alpinistiche che mancano del tutto sulle riviste italiane, così impegnate a sciupare pagine e pagine in verbali di assemblee e riunioni che con tutta probabilità non interessano a nessuno.

Chiudo, e ritorno alle Prealpi francesi e proprio mentre scrivo queste righe la visione e il ricordo di posti dolci e incantevoli mi ridonano la serenità che forse era stata un po’ ottenebrata dall’amarezza delle mie considerazioni. Rivedo allora le Tenailles de Montbrison, due sottili e aerei campanili in bianco calcare che improvvisamente ti compaiono davanti agli occhi mentre risali una fitta foresta di abeti. Le vedi già scendendo dal Monginevro verso Briançon e subito le riconosci perché sono inconfondibili. Ricordo a maggio la dura parete sud, naufragata in un mare d’acqua. Ricordo a ottobre il solare e tagliente spigolo nord-est, una delle arrampicate più simpatiche e divertenti che io abbia compiuto su roccia calcarea. Eravamo in nove (Alessandro Gogna, Gian Carlo Grassi, Benvenuto Laritti, Ugo Manera, Luciano Manzoni, Guido Morello, Gian Piero Motti, Gianluigi Quarti e Piero Ravà. NdR) e ognuno di noi voleva fare da capocordata, perché tutti non eravamo capaci di arrampicare da secondi. Tre cordate di tre, ricordi Ugo? Ricordi Alessandro? Tanta allegria, un briciolo di giovinezza, una dorata giornata di ottobre in un angolo solitario e silenzioso.

Una foto moderna di arrampicata sulla voie des Parisiens a La Pelle

A volte basta un nome per affascinarci, per farci desiderare una salita. Avevo letto un articolo di Mireille Marks su La montagne, avevo visto le fotografie di una splendida parete dal nome così strano, “La Pelle”, la pala, in sostanza un nome piuttosto comune. Eppure era una parete liscia, verticale, senza interruzioni, chiara, una seconda Roda di Vaèl per grandiosità e purezza di linee. Ho davanti a me la relazione tecnica e lo schema della via che ci attende: più di 300 metri d’arrampicata su una parete sempre verticale e strapiombante.

È la voie des Parisiens: primi salitori Lucien Bérardini, Robert Paragot, Christophe Gicquel e Émile Troksiar, il famoso Zatopek. Valutazione ED superiore; la più difficile via aperta nella zona, dissero i primi salitori; due giorni d’arrampicata, più di cento i chiodi infissi… La Pelle… me la sogno, me la figuro nella mia immaginazione. Poche le altre notizie, solo Mireille Marks parla di passaggi su placche a grattons così delicati ed esposti da dover ricorrere alle respirazioni yoga per trovare la giusta calma e concentrazione. Ammettiamo pure che Mireille Marks, senza voler mancare di rispetto alle arrampicatrici (Simone Badier potrebbe sentirmi…), abbia un po’ esagerato e abbia trovato un po’ lungo; il suo capocordata era André Bertrand, uno dei migliori alpinisti di Francia, uno che non scherza. Eppure dovettero bivaccare a circa 50 metri dalla vetta, forse per il cattivo tempo sopraggiunto.

Dunque a cosa si andrà incontro? A una ignominiosa sconfitta in terra di Francia, a una supplementare razione di “bandaggio”, a un bivacco su una parete alta non più di 300 metri? Sono molto dubbioso, eppure dalla data della prima salita sono trascorsi più di dieci anni, ormai la via dovrebbe essere una grande classica, molto ripetuta e interamente chiodata. Però bisogna sempre temere le sorprese: portare o non portare l’attrezzatura leggera da bivacco? Ma via, non è la prima volta che facciamo del sesto e poi il sesto dei francesi non sarà mica più duro del nostro! Forza Ennio, Ugo, Alberto, andiamo finalmente a vedere questo Vercors di cui abbiamo solamente sentito parlare, che conosciamo solo attraverso le fotografie!

Già durante il viaggio non mancano i poli d’attrazione. Poco dopo Briançon è l’imponente parete della Tête d’Aval, rossa e compatta, dove esistono due vie molto difficili, che dovrebbero rientrare nei nostri piani futuri. Poco oltre Gap ecco apparire il Pic de Bure, enorme, strana montagna, gigantesco blocco calcareo che si eleva isolato e grandioso fra titaniche colate di ghiaia. Verso oriente la rupe precipita con un balzo di seicento metri formando all’incontro di due immensi piani uno spigolo perfetto, una linea sottile e tagliente come la prua di una nave: di lì è passato Desmaison. D’ora in avanti ogni parete, ogni muraglia del Vercors avrà una via, naturalmente sempre estrema, che porta il nome del grande René.

Ci avviciniamo ora al Vercors. Nessuno di noi è stato nella zona, ed è con viva sorpresa che scopriamo a poco a poco un paesaggio insolito, almeno per il suolo italiano. Un paesaggio dagli orizzonti vasti e sconfinati, dove predominano le linee dolci e morbide, colline assolate e selvagge, piccole vallette incassate, curiosi fenomeni di erosione, improvvise e gigantesche muraglie giallastre che, con superbo contrasto, rompono l’uniformità del paesaggio. Rare o quasi assenti le abitazioni, pochissimi i campi coltivati, splendidi in compenso i fittissimi boschi di faggi e betulle e le cupe foreste di abeti e di larici.

In serata giungiamo presso Die, grazioso villaggio posto sulla Drôme, dopo aver attraversato una gola grandiosa, dove massi giganteschi di grigio calcare sembrano precludere ogni passaggio. Appare all’orizzonte una muraglia giallastra lunga almeno come due Piz Ciavazes affiancati, dove spiccano pilastri e spigoli di eccezionale bellezza. Qua e là qualche chiazza di neve ancora presente sulle colate di ghiaia che discendono dalla parete.

È la Muraille de Glandasse, la più bella e la più imponente fra le pareti del Vercors. Su questa immensa parete vi sono vie che nulla hanno da invidiare a quelle più difficili delle Dolomiti, vie che hanno richiesto tre o anche quattro giorni di arrampicata. Per ora ci accontentiamo di guardarla di lontano.

Giungiamo infine a Saillans, piccolo, quieto e simpatico villaggio della provincia francese. Poche case radunate attorno a una chiesa romanica semplice e spoglia. Sulla piazza alcuni contadini, figure che sembrano uscite dai film di René Clair, che con tanto di basco giocano con le piccole e pesanti boccette metalliche. Silenzio, campagna, profumo di terra e di fiori. E là, sopra i tetti delle case, enorme, grigia, verticale, la parete: La Pelle.

Un gran vento spazza le colline di Diois, quando all’alba risaliamo il ripido sentierino che si inerpica nella foresta verso le rocce. A mano a mano che ci avviciniamo alla parete, questa sembra ancora più strapiombante; sembra quasi che ti caschi addosso. Appare però qualche frattura, qualche interruzione.

Subito vado a imbranarmi sullo zoccolo, marcio ed erboso: slegato, attaccato a massi instabili su un pendio d’erba verticale, passerò il momento più rischioso della giornata. Alberto Re ed Ennio Cristiano, più saggiamente, attraversano fino al bordo della cengia e arrivano all’attacco con tutta facilità. Ci sentiamo un po’ come quei tali che, come ho letto un giorno su un bel librettino dei primi anni del Novecento, giunti sotto il Monte Musinè, oggi pacifica e innocua montagna adatta a scampagnate di oratori e di collegi, rimasero veramente turbati e un po’ terrorizzati dalla mole imponente del monte. Ma poi, come dice il padre Dante, «... la montagna è tale che sempre al cominciar di sotto è grave e quanto uom più va su e men fa male».

Due lunghe corde fisse pendono da strapiombi così marci e repulsivi che solo al pensare di salirvi mi sento mancare. No, non è la voie des Parisiens, ma un tentativo di aprire una via nuova: in tre giorni hanno vinto poco più di 80 metri, ma non vogliono forare la roccia. A4, ci dicono. Guardando in su, non ci sentiamo affatto di contraddirli.

Quattro francesi sono pronti all’attacco, altri risalgono ora lo zoccolo. Siamo in dodici, evidentemente la via ormai è classica e molto ripetuta. Tanto meglio. La prima lunghezza di corda facile non è, ma terribile nemmeno. Poi vedo Ennio che sale arzillo e sicuro una delle famose placche a grattons valutata sullo schema di sesto: diavolo, o Ennio oggi ha preso la bomba o forse sesto proprio non è. Effettivamente sesto non è, così come non lo sarà l’altra placca a grattons a metà parete: evidentemente il primo salitore non doveva gradire le placche. Gradiva invece i diedri e le fessure strapiombanti, dove certi quinti superiori ci faranno penare parecchio, sicuramente più delle placche a grattons.

La via ci appare intelligente, logica, la roccia è magnifica, i chiodi ci sono tutti. Anche le fermate sono sicure, ma ciò che veramente entusiasma è l’assoluta verticalità, degna di una parete nord della Cima Grande di Lavaredo. Mi sorprendo a vivere una delle giornate più serene, più tranquille e più felici che io ricordi in montagna. Oggi va tutto bene, il sole, il vento, la roccia che si adatta meravigliosamente alle dita, il sorriso di Ennio, un alpinista “gentile” di cui sono contento di essere amico. Il francese, che sale da secondo sopra di me, non pare molto allenato: superando uno strapiombo un po’ duretto in arrampicata artificiale, ha piantato un terribile pasticcio di corde e di staffe e per poco non mi è piombato in testa; anzi, per aiutarlo, gli ho proprio piazzato la testa sotto il sedere e, tirandomi sui chiodi, cerco di spingerlo verso l’alto.

Pazientemente attendo il mio turno, i chiodi danno segno di notevole pazienza e allora lo aiuto a districarsi da quella ragnatela. Mi ringrazia con una fila di merci e arriva alla fermata un po’ groggy. Sui tratti in salita artificiale ci sono già i chiodi e preferisco tirar via senza usare le staffe: si fa più in fretta e mi piace di più. Arrivo persino a dire che la via è supervalutata; Re dal basso fa eco, replicando che suma i pì fort dal mund! Manera sembra conoscere solo aggettivi come stupendo, magnifico, fantastico, eccezionale… Ma eccomi a infilare da secondo una solenne bandata su un passaggio che Ennio sembrava aver superato con irrisoria facilità. Ammetto di non essere molto capace ad arrampicare da secondo, ma almeno una volta mi trovo a ordinare con voce ferma e risoluta un secco «Recupera!» che molto si avvicina a un implorante «Tira!». Ciò mi serva di lezione. Mi consolo guardando il francese dietro a Ugo, che dopo un sofferto pour parler con l’uscita della fessura, prima con aria distratta e sorniona estrae un bel paio di staffe tintinnanti, poi sempre sottovoce sussurra a Ugo: «La corde, s’il vous plait...».

Ora non si comprende dove si possa salire. Strapiombi sotto e sopra. A destra una placca verticale dove alcuni piccoli bitorzoli rossastri, i famosi grattons, dovrebbero permettere una traversata quinto più. Si passa di lì.

Con non troppa convinzione mi sposto cambiando di piede su quelle verruche rossastre che dovrebbero essere appoggi, dominando un vuoto che ai bei tempi di Cichin Ravelli si sarebbe definito “ultragreponico”. Ci prendo gusto e mi diverto, pensando con un po’ di malignità che proprio qui Mireille Marks avrà dato inizio alle sue respirazioni guru per evitare il tremito da “bandaggio” oppure, con licenza parlando, come direbbe un nostro amico stilnovista, certo Carlaccio, per superare “il passaggio della chiappa che trema”… Siamo seri, il passaggio è di una classe straordinaria, ed è sorprendente l’intuito dei primi salitori nell’aver scovato una via di salita in quel nauseante lisciume.

L’esposizione qui è veramente grande: a picco sotto di noi non scorgiamo più la base della parete, ma le cordate di francesi che ci seguono e che sembrano sbucare direttamente dal vuoto, creando un effetto impressionante. Il cielo si oscura sulle verdi colline di Diois che si estendono ai nostri piedi. In genere, una parete è compresa in una valle, è racchiusa fra orizzonti delimitati. Qui il vuoto l’hai non solo sotto e sopra, ma anche davanti. Non vi sono valli, la vista spazia libera su un orizzonte sconfinato di dolci rilievi che si arrestano solo verso la pallida e lontana Muraille de Glandasse.

La parte superiore della parete ci riserva un’arrampicata ancor più bella, con tratti veramente difficili, come la traversata alla penultima lunghezza di corda. Poi improvvisamente, come per incanto, le mani si posano su terreno orizzontale e davanti non è che un grandissimo prato di erba giallastra sferzata da un vento gelido e rabbioso che ammassa grandi cumuli color del piombo fuso.

In una piccola nicchia Ennio e io, al riparo dal vento, attendiamo Ugo e Alberto, ed ecco Ugo che sembra sbucare dal nulla: prima appare una mano, poi il braccio, poi la testa e infine tutto il corpo emerge da quel vuoto vertiginoso. Pensiamo che se un profano avesse la possibilità di assistere a una scena simile, certo il suo giudizio sul buon senso dei rocciatori non sarebbe molto positivo… Discendiamo per facili canali e pendii erbosi, poi ancora giù per il sentierino, fermandoci ogni tanto a guardare la grande parete grigiastra, come una cosa ormai nostra.

La sera, davanti a generose bottiglie di Côte de Provence, si infiammeranno gli animi. Le elezioni politiche sono prossime e la discussione si anima forse un po’ troppo: comunismo, anarchia, fascismo, come sempre in queste situazioni si giunge a esasperare i concetti a tutto danno della logica. Si alza un po’ la voce, ci si insulta pure. Qualcuno vorrebbe che tipi come me ed Ennio fossero fucilati o per lo meno mandati in Siberia; noi d’altro canto auspichiamo il taglio di milioni di teste… ma il giorno seguente, attraversando il Vercors in un radioso mattino, scopriremo, in sostanza, di avere tutti le stesse idee e di essere concordi nel definire la via appena salita come la “via dell’Amicizia”.

La Pelle ultima modifica: 2017-04-14T05:36:27+02:00 da GognaBlog

Scopri di più da GognaBlog

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

4 pensieri su “La Pelle”

  1. E’ un classico di letteratura di montagna ma con riferimenti letterari, cinematografici e di cronaca che restituiscono il clima del periodo, uno scritto che va ben oltre l’essere un articolo di una rivista di montagna e merita ben altra diffusione.

  2. Meraviglioso acquerello di arrampicata, questo, per mano di Motti, e riproposto da Gogna (grazie), fresco e genuino, e dal quale emerge un bel modo di entrare nella montagna, quello che io preferisco.
    Certo stupisce quanto è semplice, alla fine, accostare il “mi sorprendo a vivere una delle giornate più serene, più tranquille e più felici che io ricordi in montagna” al “mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini. Non rinunciare alla montagna. E perché? No. Ma andare in montagna per divertirsi, per cercare l’avventura e per stare in allegria insieme agli amici” per chiudere il cerchio di un pensiero molto fragile, irrequieto, ma nuovo per il contesto.

    Sarebbe bello avere un cenno da parte di chi, quel giorno, era lì, e che ancora è qui, per sapere chi voleva mandare in Siberia Cristiano e Motti!

  3. Il bello dell’Alpinismo è che gli Alpinisti quando discutono fra di loro usano normalmente la parola “ANCHE” perché vanno qui e là, su questo e su quello, con questo e quel compagno, fanno in tutte le stagioni un po’ di tutto e magari ognuno è molto bravo in qualcosina di particolare.
    Anche gli specialisti di un luogo, di un tipo di arrampicata, di un ambiente usano la parola “anche”, ma molto più piccola.
    Tanti francesi hanno salito ANCHE l’Annapurna, il Makalu……….. forse perché dopo l’Anna hanno la federazione e non solo il club.

  4. Forse GP era stato un po’ ottimista e idealista… Forse avrebbe dovuto leggere di più sulla prima ascensione francese all’Annapurna e i suoi dolorosi e penosi strascichi per scoprire che i transalpini qualche scheletrino nell’armadio ce l’hanno…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.