La Punta Antonio Castagneri (RE 029)
di Ugo Manera
(da Pan e Pera, CDA&Vivalda, 2003)
Nello svolgimento dell’attività della Scuola di Alpinismo e negli incontri del GAM (Gruppo Alta Montagna) avevo avuto occasione di approfondire la conoscenza con Gian Piero Motti; mi ero reso conto che era un ragazzo molto intelligente e che non era affatto presuntuoso come alcune voci nell’ambiente lasciavano intendere. Parlava volentieri con me, mi confidava i suoi progetti di vita e mi esternava le sue opinioni critiche sugli scalatori e sulle loro imprese; sapeva essere ironico e mi canzonava per le mie smanie iperattivistiche. Mi raccontò della sua valle (la Valle Grande di Lanzo), delle sue esplorazioni e delle tante rocce che attendevano di essere scalate. Cominciammo così ad arrampicare insieme e iniziammo a tracciare vie al Bec di Mea, nelle brevi ma luminose giornate di un inverno senza neve. Le nostre discussioni avvenivano in un clima di grande allegria, ma anche di forte esaltazione reciproca; nascevano progetti senza confini, tutto ci sembrava possibile, compresa l’elaborazione di una nostra nuova dimensione dell’alpinismo, emancipata dalla tradizione eroica e drammatica.
Nell’autunno del 1968 Gian Piero mi propose di tentare una nuova via su di un ardito pilastro vergine alla testata della Valle Grande di Lanzo, quella selvaggia cerchia di pareti che forma una delle muraglie più interessanti e suggestive delle Alpi Graie. Su quelle rocce gli scalatori degli anni Trenta avevano tracciato degli itinerari interessanti e, più recentemente, Andrea Mellano aveva aperto un’ardita via sulla parete della Cresta di Mezzenile; io stesso avevo già vissuto delle belle avventure su quei monti, e un anno prima, come ho detto, avevo tracciato una difficile via sulla Punta Corrà. Aderii con entusiasmo alla proposta e ci attivammo per trovare due compagni. Nel primo periodo di attività in comune con Gian Piero, raramente ci legammo insieme in cordata, avevamo troppa voglia di arrampicare da primi, e c’erano sempre amici che si prestavano volentieri a fungere da secondi. Qualche tempo dopo ci rendemmo però conto che era più bello dividerci le responsabilità e salire legati alla stessa corda, cosa che facemmo in assoluta fiducia reciproca.
Ezio Comba e Ilio Pivano, ambedue istruttori della “Gerva”, si unirono a noi per effettuare un tentativo; ci demmo appuntamento per la sera di sabato 5 ottobre al rifugio Daviso, perché io, a causa di impegni famigliari, non potevo salire con loro nelle ore centrali della giornata. Nel tardo pomeriggio mi ritrovai perciò, autista solitario, a percorrere la strada che porta a Forno Alpi Graie sfruttando tutta la modesta potenza della mia utilitaria, nella speranza di riuscire a raggiungere il rifugio ancora prima del tramonto.
Quando arrestai l’auto al fondo della valle, il sole era già sceso dietro le creste e la malinconica penombra serale aveva invaso le valli; il borgo appariva deserto e silenzioso, in assenza dei turisti estivi. Mi caricai il sacco in spalla e a forte andatura mi avviai per il sentiero, accompagnato dal latrare di un ignoto cane; sul terreno restavano evidenti le tracce della discesa delle mandrie dagli alpeggi, a confermare che anche per quell’anno la “vita” sulla montagna era finita. La vista di una vipera mi fece sobbalzare. Guardai meglio: era morta, qualcuno l’aveva schiacciata. Raggiunsi un altro solitario, anch’egli diretto al rifugio; adeguai il mio al suo incedere per avviare un po’ di conversazione, ma presto esaurimmo gli argomenti; camminammo ancora un po’ insieme in silenzio, poi io allungai il passo e lo distanziai. Arrivai al Daviso a notte fonda, con una splendida luna che illuminava il cielo; Ezio, Gian Piero e Ilio stavano cenando, la mia comparsa scatenò l’allegria: strette di mano, battute scherzose, rievocazioni, tutto condito da numerose risate. Finita la cena, ci mettemmo a dormire con un po’ d’apprensione per le incognite che ci attendevano il giorno dopo.
Lasciammo il rifugio che non erano ancora le quattro, la luna era tramontata e noi salimmo al buio sbuffando per ripidi prati e per morene, facendoci luce con le lampade. Quando raggiungemmo il ghiacciaio una linea rossa fendeva l’orizzonte, la prima neve dell’autunno divenne rosa e le pareti, di fronte a noi, color fiamma. Ci fermammo qualche istante ad ammirare lo spettacolo già visto tante volte, ma sempre affascinante, poi proseguimmo verso la nostra meta. Il pilastro della Quota 3406 m era evidentissimo ed elegante, al di là di ogni nostra aspettativa; ne raggiungemmo la base superando la crepaccia marginale allo sbocco di un canalone obliquo che scendeva dal centro dell’ampia parete. La roccia appariva compatta e la linea di attacco definita da un perfetto diedro di pietra verde.
Gian Piero si legò con Ezio e iniziò la scalata. Il diedro verde lo impegnò seriamente; mentre mi legavo con Ilio, lo sentii pronunciare molte delle sue espressioni tipiche, riservate alle grandi difficoltà. Quando riuscì a sistemare una prima sosta, il suo secondo lo seguì e a mia volta iniziai ad arrampicare; subito mi resi conto che il nostro problema non sarebbe stato di facile soluzione. La scalata, estremamente difficile, era però di grande soddisfazione: la roccia, di buona qualità, era avara di fessure per i chiodi e mise a dura prova la nostra esperienza nel trovare il punto debole tra la lunga sequenza di strapiombi da superare. Seguimmo prevalentemente il filo di spigolo, elegante ed esposto, fino a metà altezza del pilastro, poi ci trovammo sotto un enorme soffitto biancastro; altri tetti sbarravano la via sia a destra sia a sinistra. Non s’intravedevano vie di uscita. Ci consultammo, quindi Gian Piero si avviò, salendo una torre staccata che portava sotto il grande tetto; da lì individuò una cornice ascendente verso destra che, sospesa tra gli strapiombi, sembrava indicare la linea di accesso a una zona meno difficile. Salì lungo la cornice, dondolando sulle staffe tra gli strapiombi; quando si fermò, Ezio lo raggiunse con molta fatica. L’intuizione del nostro amico era stata esatta, io seguii con Ilio entusiasmandomi sempre di più per le difficoltà superate. Ancora alcuni slalom tra gli strapiombi con passaggi di elevata difficoltà, dopo di che la linea di salita divenne più regolare lungo il filo del pilastro, su roccia granitica salda e muri rossastri verticali. Le ore erano trascorse veloci, ma la vetta era ormai vicina: dall’altezza raggiunta vedevamo già i dolci pendii glaciali del versante francese della catena; sotto la Punta Francesetti due sciatori, con ampie curve, scendevano sfruttando la prima neve della stagione.
Toccammo la cima della Quota 3407 m nel pomeriggio inoltrato, un gelido vento si era alzato e, spirando da nord, spazzava la cresta di confine. Eravamo pienamente soddisfatti, ma rimandammo le esternazioni d’entusiasmo perché ci attendeva una discesa lunga e complessa e le ore di luce a disposizione erano poche. Conservo una fotografia scattata in vetta: e quando la guardo mi viene da sorridere per il mio equipaggiamento; a quei tempi non c’erano ancora le razionali imbracature che oggi si usano ad arrampicare, e ognuno provvedeva secondo la propria fantasia: io avevo una strana fascia in vita fatta con uno spezzone di corda e integrata da ridicoli cosciali realizzati con fettuccia bianca.
La cresta da percorrere per raggiungere il punto di discesa era interminabile, con numerosi saliscendi, e la neve recente ostacolava il percorso. Ezio fu colto da una crisi di stanchezza e sconforto, alleggerì lo zaino buttando parte della sua attrezzatura, ma non bastò; ogni tanto si fermava rifiutandosi di proseguire, aiutandolo lo costringemmo ad andare avanti, e finalmente arrivammo a un lungo canale di neve fradicia che scendeva fino al ghiacciaio. Era quasi buio, sulla neve io ero il più disinvolto, perciò legai tutte le corde assieme, approntai una sosta e feci scendere assicurati i miei compagni per oltre cento metri; recuperai il chiodo di sosta, lasciai cadere le corde e scesi slegato con molta attenzione.
Continuammo la discesa al buio lungo il ghiacciaio, in direzione della seraccata. Ad Ezio sfuggì la piccozza, che scivolò sul pendio e scomparve in un crepaccio; sconsolato abbandonò anche la corda che portava a tracolla. Un breve pendio di ghiaccio cosparso di pietrisco ci separava dal ghiaione, sembrava ormai tutto finito, ma ad un tratto Gian Piero scivolò; vidi le scintille provocate dai ramponi che strusciavano sulle pietre incastrate nel ghiaccio, poi il nostro amico si fermò al fondo del pendio. Lo raggiungemmo, non aveva riportato danni gravi, ma si era scorticato le mani tentando di fermarsi; anche se era dolorante, si riprese presto e continuammo la discesa fino al rifugio Ferreri, ove sostammo a medicare sommariamente le sue povere mani. Poi continuammo come automi, agognando solo la fine dell’interminabile discesa e delle sofferenze, insensibili allo scenario fantastico creato dalla luce spettrale della luna che si diffondeva sulle pareti che ci circondavano.
La Quota 3407 m, che non aveva nome, venne da noi dedicata a una grande guida delle Valli di Lanzo e oggi si chiama Punta Antonio Castagneri.
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Grazie per questa dedica! Dopo tre generazioni, le gesta di Antonio (Toni di Tuni) e del fratello, meno conosciuto ma anche lui valente guida, Giuseppe (Gep di tuni), miei trisavoli, ancora rieccheggiano nella nostra famiglia.
Grazie.
Alberto Castagneri
Ammirevole per tutto, anche per avere dedicato la cima a una guida essendo accademico. Chapeau.
questa salita deve essere magnifica, sia per la qualità dell’arrampicata che per l’ambiente in cui si svolge.