La ricerca di Gian Piero Motti

La ricerca di Gian Piero Motti (RE 006)
di Andrea Gobetti
(da Una frontiera da immaginare, 1976)

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)

Ero andato a letto tardi la sera del 21 di giugno, ero stato sul Marguareis per tutto il “giorno più lungo dell’anno”, scrissi un po’ e sentii un po’ di Guccini prima di addormentarmi. E mentre mi crogiolavo in un sonno profondo, fui scrollato e riportato nella realtà.
“Andrea, telefono. È Alberto Rosso”.
Le due di notte, Alberto Rosso?
“Gian Piero non è tornato da venerdì sera; hanno trovato la macchina a Ceresole…”.
“Quando vai su?”.
“Alle 5”.
“Passami a prendere”.
Dico qualche borbottamento a mia sorella e torno a letto.

“Dove, quando, perché e come?”. Proprio come quando, appena tornato da Trento, mezzo addormentato sul letto, il telefono suonò ed era Gian Piero e mi disse che l’Indio (Danilo Galante, NdR) era morto sul Grand Manty.

E alle cinque sono sulla strada sotto casa mia a Reaglie, mentre la collina si sveglia sotto una malefica pioggerellina. Ho poca roba con me (scarponi, camicia, maglione e giacca a vento leggera). “Tanto sarà in basso” ho pensato nella notte. È da dieci anni che aspetto a quest’ora gli amici su questa strada per andare a divertirci in grotta e in montagna, con sempre la fontana a singhiozzo vicina e il rumore della macchina che sale che si sente avvicinarsi da lontano, e poi i fari che obliquano dallo stradone e la macchina si ferma davanti a me all’inizio di un’altra avventura. Adesso c’è solo Alberto dentro il Renault 5 e l’avventura è quella che non si voleva proprio, anche se tutti noi “alpinisti” sappiamo che prima o poi ci toccherà di affrontarla.

Chiacchieriamo un po’, pieni di sonno, è già passato un sacco di tempo da quando è scomparso e io penso che con oggi finiscano le probabilità di trovarlo vivo. Passiamo a Rivarolo a prendere Camusso, gran conoscitore della Valle dell’Orco; sua moglie è angelica e ci riempie di latte e panini al prosciutto, ci abboffiamo oscenamente, ma forse si presagisce che non mangeremo più fino a sera.

Il lago artificiale di Ceresole Reale

La Valle dell’Orco è più spettrale che mai, tra pioggia e nubi strappate dal vento nella livida luce del primo mattino, e i rossi graniti, bagnati da una pioggia insistente occhieggianti duri, maligni. Passiamo sotto la gola di El Caporal, dove solo mercoledì Gian Piero mi aveva portato a tentare una nuova via: la Mangus Colorado, da cui ci eravamo ritirati sotto un vento fastidiosissimo dopo che lui aveva superato due tiri di artificiale molto delicati. Poi su, oltre la galleria, sotto El Sergent finalmente alla diga di Ceresole dove è parcheggiata la Mercedes di Gian Piero. Quel maledetto bidone a Diesel, tanto familiare, a cui tornavamo in posti bellissimi con i piedi stretti nelle pedule, ora, lasciato lì sotto la pioggia, provoca in me una tristezza profonda, che non mi lascia.

Ed eccoci all’albergo Ciarforon, quartier generale del Soccorso Alpino, con davanti una lunga fila di macchine arrivata da ogni parte del Piemonte; alcuni sono lì da domenica, altri addirittura da sabato, altri arrivano adesso nella speranza di qualche nuova notizia. Tracce? Una: il guardiano della diga l’ha visto mentre l’attraversava con un sacco rosso in spalla e i bastoncini da sci in mano: era venerdì mattina. Il giorno precedente si è battuta tutta la zona verso il Colle della Crocetta che dà sulla Val Grande di Lanzo e le pendici del Courmaon sulla parte sinistra dell’Orco. Tra la folla dei soccorritori c’è Ugo Manera e mi chiama; ha un’idea nuova, pensa che Gian Piero possa essere andato a fare delle nuove foto a El Caporal, portandosi sulle pericolose balze di roccia che sono sul versante opposto della valle, pensa che sarebbe utile salire sopra Sergent e Caporal e di lì con lenti giri di binocolo controllare la situazione. La trovo un’ottima idea e partiamo in due sotto una pioggia non più tanto scrosciante; grossi gruppi di camosci scappano al nostro apparire dai loro nascondigli fra i rododendri; è una bellissima mulattiera lastricata quella che facciamo. “Ci porterò la mia bambina qui, quest’estate”, dice Ugo e io gli racconto di quando mio padre portò me e la povera “cocca Marta” ancora di nove anni in punta alla Ciamarella nella tormenta, e l’anno dopo sulla Tresenta, dove la Cocca non sapeva come fare per dire che si era fatta pipì addosso. “E difatti ora va nel Sahara tre volte l’anno e in montagna non ce la portano neanche in fotografia”. Questo posto invece dovrebbe apparire veramente magico e bellissimo a una bambina; chissà se un giorno anche la figlia di Ugo verrà con noi ad arrampicare?

Il Colle della Terra

In contrasto con i ricordi, l’elicottero dei carabinieri ci sorvola. Ora piove forte davvero, ma l’elicottero atterra e riparte senza soste; scendiamo varie gole e ne risaliamo altre; ogni tanto Ugo mi indica sul granito rosso e spazzato dalla pioggia qualche via da lui aperta, ma quando siamo dentro la gola del Caporal non ce la facciamo più a escludere Gian Piero dai nostri discorsi, qui ogni cosa parla di lui. «Che numero si fece su quel tetto…”, “Lui allora, a momenti sfranda giù…”. Indico a Ugo l’ultima e forse più bella via da lui aperta in primavera con Guido Morello: Itaca nel Sole, un disegno su un grande specchio di granito.

E capisco forse perché il Caporal mi ha sempre dato un senso di angoscia, fin dalla prima volta, con Danilo sulla Lunga Pista del Comanches: era perché ci sarei venuto a cercare un amico morto sul fondo delle vie, ad alzare gli occhi per cercarlo appeso su qualche placca. La roccia parla di sensazioni troppo antiche per gli esseri del carbonio, ma se l’uomo sa tendere le orecchie dell’inconscio può sentire il più forte degli odori, l’odore della morte, stampato sulle rocce che hanno visto o vedranno la tragedia. Ricordo Gian Piero che diceva: “La morte incombeva su di noi nella Voie de la Rampe al Gran Manty” e due anni dopo Giancarlo avrebbe sentito quella morte svolazzargli intorno, anche quando il tempo era ancora bello, anche prima che si scatenasse la terribile bufera che avrebbe ammazzato Danilo, la mattina seguente. Ma di Gian Piero sulle rocce del Caporal non c’è traccia.

Seconda lunghezza della combinazione Tempi Moderni-Itaca nel Sole, Caporal

Neanche la parete di fronte che continuiamo a battere sotto una pioggia ritornata torrenziale ci rivela il minimo segno della presenza del nostro amico. Mangiamo un po’ di cioccolata. “Che ore sono?”. “Mezzogiorno”. Mando al diavolo i falsi pudori: “Sai Ugo, secondo me è andata male”. Ugo non risponde, ma dalla faccia direi che è d’accordo con me.

Torniamo sulla strada asfaltata per Ceresole sempre sotto una pioggia da diluvio, a metà salita, troviamo Roberto con Grazia che ci dà un passaggio sino a Ceresole; insieme a loro c’è anche un giovane della scuola di roccia che è venuto su per dire che Gian Piero aveva proposto a un suo amico di accompagnarlo in un giro per vedere le pareti di roccia del versante che dà dal Colle della Crocetta sulla Val Grande. Arriviamo all’albergo Ciarforon assieme all’elicottero.
Niente.

È rientrato anche Morello dal Colle della Crocetta: una pista che sale e altre pasticciate che scendono in Val Grande. Ha battuto tutta la cresta con le “api” elettriche nelle orecchie. Hanno sgattato con il cane da valanga in tutti i buchi nella neve, al fondo di tutti i salti di roccia e ai piedi di tutti i nevai scoscesi.
Niente.

Ci vengono incontro, c’è Carla, la sorella di Gian Piero con Luciano, suo marito.
Niente.
Bene non è stato trovato morto.

Andrea Gobetti

“In un caso di frattura a un osso lungo sopravviene inevitabilmente uno stato di shock che in un tempo compreso tra le 24 e le 60 ore provoca un collasso irreversibile che porta alla morte…”. Così sta scritto sul manuale di soccorso speleologico. Qualcosa è capitato nel pomeriggio di venerdì, magari durante il violentissimo temporale che si è scatenato per due ore su tutta la zona; ora sono le 14 di lunedì: penso si stiano giocando gli ultimi spiccioli. Sento in giro se c’è qualcuno che sa qualcosa in più. “Nessuna traccia”. Un pastore ha visto un uomo che correva verso il Bec di Mea (Val Grande) sotto il temporale, ma alle 11 del mattino: troppo presto. (“A Gian Piero non piace camminare”. “Forse ha con sé il sacco a pelo”. “Se è per quello c’è uno di Breno (Val Grande) che dice di aver trovato da quel versante le tracce degli scarponi di Gian Piero”. Come fa a sapere che sono i suoi? Boh! «Ci vogliono altre squadre”. “Deve decidere il delegato di zona”. “Conta la prima chiamata anche se Motti fosse sceso dall’altra parte”. “Dipende tutto da Ivrea”. “Ci vuole un responsabile”. “C’è già, dategli retta”. “Chiamo la squadra di Venaria e di Giaveno?”. “Deve decidere il delegato”.
Ma che bella caccia al tesoro.

Gian Piero Motti

Vengo a sapere che a vedere le impronte degli scarponi di Gian Piero è stato Aldo Chiariglione; io lo conosco bene, uno molto in gamba e serio come si dimostrò nell’anno in cui facemmo della speleologia insieme. Lui è l’unico di Breno a possedere un paio di scarponi Galibier, cioè con l’intaglio della scuola diverso dall’universale Vibram, ed ha trovato altre impronte non Vibram dalle parti del Bec di Mea; Gian Piero addosso poteva avere i Galibier normali oppure le Saussois.

Potrebbe essere quindi dall’altra parte, magari in basso nel bosco, dove l’elicottero non lo può vedere e se è vicino ad un torrente non lo sentono neppure se chiama.

Decido allora che è più utile andare a Breno e vedo di portarmi dietro qualche altro amico di Gian Piero. Alberto è d’accordo, Guido pensa che sia più utile, ed ha ragione, che lui resti lì a coordinare il più possibile i movimenti a Ceresole;

intanto con l’ultima squadra tornano gli infaticabili della Gervasutti: Rabbi, Boreatti, Marucco e altri che hanno letteralmente setacciato la zona senza poter trovare una sola traccia. Su una panca c’è Marco Pozzi che dorme sotto la pioggia. Torna l’elicottero, è l’ultimo giro, manca carburante: trovato niente. Spunta finalmente un pallido sole mentre ciascuno, seduto sulle staccionate di un parco, pensa neri pensieri e si fa asciugare un po’ la roba. Arriva Lino Andreotti riuscitosi a sganciare dai suoi doveri di sindaco a Savigliano; si odono voci alte e urla: fuori dall’albergo è scoppiata una litigata. Al centro c’è l’indescrivibile Angelo Piana che con la sua lingua rasata tre volte al giorno, funge da catalizzatore per far scaricare la tensione e la stanchezza di circa cinquanta persone. Senza problemi Angelo fa l’ultimo prezzo a tutti e decide di andare a Breno; Rosso ed io cogliamo al volo l’occasione e salto sulla sua carretta variopinta. Carla e Luciano dicono che ci raggiungeranno. Da qualche misterioso meandro della carriola del show-man delle Alpi appaiono due bottiglie di vino rosso. Alberto dorme, Angelo beve, io bevo: rievochiamo lentamente la nostra discesa in fondo a Piaggia Bella nel ’72, la sua Grande Haute Route scialpinistica, le ultime belle cose fatte, e la maledetta situazione presente. C’è ormai poco da sperare.

Chissà quante volte è già stato detto. Ci vorrebbe un miracolo. I miracoli capitano solo quando muoiono tutte le speranze? Riesco a pensare soltanto a luoghi comuni. Anche per l’egoismo c’è posto nella disperazione, anche per i progetti futuri di lavori e spedizioni che senza Gian Piero valgono fichi secchi. E poi ricordo gli istanti lunghi di un grande gioco: i lunghi ritorni a Torino con i nostri discorsi strani, le risate, i giorni delle Calanques… «Ma che shock del cacchio vuoi che gli venga, — fa Angelo — non è mica un fighetta”.

Mi ha dato la mano una volta, sulla punta della Démande, l’altra settimana…

“Una volta con George Doppioni c’era mezza Val di Lanzo che ci cercava”.

Principe Siddharta, ma sei impazzito? Taglia sulla variante di quarto! Taci Sherpa Acquarolo! e via sul sesto nella magica fessura della Démande…

“A metà sentiero giù dal Castaldi troviamo i soccorritori, allora torniamo tutti insieme a valle e volevano suonarcele, perché gli dico “Chi cavolo vi ha chiamati? poi invece ci siamo insümiati tutti insieme” (insümiarsi = ubriacarsi come scimmie) … nove ore di Démande, una settimana fa…”.

Arriviamo a Breno ed entriamo nell’osteria di Cesarin dove già tante volte ero stato con Gian Piero e con gli altri della banda, e dentro vi è una tensione incredibile: qualcuno ha telefonato a Torino alla madre di Gian Piero, dicendo che lo avevano ricoverato ferito in un ospedale; prima che da Ceresole arrivi la conferma che si tratta di un errore (non uno scherzo) dovuto alle voci, alla fretta e all’idiozia di qualcuno, la speranza entra nel cuore di molti sino a far proclamare ad Angelo con due “stoppe” in mano: “È ora d’insümiese!”. La successiva doccia gelata mi tocca poco, ben peggio è sapere che la fortissima squadra di Breno, con Cesarin Griva e Aldo Chiariglione sta tornando indietro senza averlo trovato.

Diventa buio, Cesarin ci prepara una super-cena, quasi nessuno ha cenato e intanto si fa consiglio di guerra per l’indomani. Arriva Giancarlo, con Piero Pessa, il chionio (indovino dei boschi), come la gente di Breno chiama Giancarlo, ha indovinato subito dove sarebbe stato più utile.

Qui l’ambiente è molto più simpatico e vivo che dall’altra parte. A quella strana aurea di estraneità che si avvertiva tra refoli di burocrazia, autorità e rumori di elicottero, si contrappongono la tenacia e la volontà degli amici di Gian Piero, sia della valle che della città, i quali compensano la mancanza di elicottero, cani, radio-telefoni con la conoscenza del posto e delle abitudini montane di Gian Piero. Conosco Pilly, l’altro cognato di Gian Piero, che coordinerà le operazioni al paese; anch’io sto bevendo come una scimmia; Pilly sistema Alberto, Angelo e me in casa sua. Lascia poi la luce accesa fuori della porta quasi vergognandosi della propria speranza.

Il contatto mentale per il quale sto concentrandomi dalle due del mattino sfiora forse un’ombra, nell’attimo in cui sto per passare nel sonno, mi sforzo di urlargli “Resisti, Cristo, resisti!”, poi più nulla.

In vetta allo Dzongri Peak 4450 m, India, Sikkim, 25 ottobre 1977. Andrea Gobetti e Alessandro Gogna

“Prega Marta nella sera, nessun Dio l’aiuterà…”, cantava questo Gian Piero i giorni in cui ci conoscemmo sui tavolati di pietra di Morgiou, sotto la Grande Candelle. Mattino splendido, tersissimo, la gran pioggia ha lavato il mondo; l’alba si leva limpidissima mentre risalgo un torrente impetuoso che si butta giù dalle rocce vicino al Bec di Mea, dove potrebbe essere caduto e annegato mentre scendeva sul paese. “Lo stiamo già cercando da morto”, penso mentre battiamo tutte le pozze e gli sbarramenti del torrente alla ricerca di qualche macabra traccia del suo passaggio. Troviamo solo le rive pullulanti di splendidi gigli martagoni e funghi.

Alle nove siamo all’altezza del Bec di Mea, dove incontriamo Vincenzo Pasquali che ha appena parlato col pastore che ha visto Gian Piero venerdì alle 11. Il riconoscimento è sicuro, il pastore conosceva bene Gian Piero; lo ha visto tutto bagnato e gli ha chiesto se scendeva a casa sua a Breno; Gian Piero gli ha risposto di no, perché aveva lasciato le chiavi della baita sulla macchina a Ceresole e quindi era partito per risalire il Vallone delle Unghiase verso il Colle della Terra e la Val Orco. Anche i tempi quadrano, visto che il pastore non usa l’ora legale e che quindi le sue ”verso le 11” sono mezzogiorno per tutti gli altri. Vincenzo corre giù ad avvertire gli elicotteristi di Ceresole della notizia. Giancarlo, Piero ed io partiamo verso le Unghiase, il Colle della Terra e la soprastante Cresta di Fertà. Caldo, acqua granitica, buona. Fortuna che Piero pensa sempre per tutti, non ho niente da mangiare e lui mi dà cose buone.

Un po’ come i “ciocovo” nella bufera a Chorance. Mille duecento metri di dislivello più in alto Piero resta ad esplorare una zona di acquitrini dove avrebbe anche potuto cadere il fulmine. “Ha fulminato per tre ore il pomeriggio di venerdì”, diceva Cesarin ieri sera. Giancarlo ed io proseguiamo verso la Punta Fertà, altri 600 metri più in alto.

Giancarlo sale su queste montagne che conosce da quando era piccolo mentre per me è la prima volta che vengo quassù. Non una nuvola nel caldo pomeriggio; sotto di noi si apre il vallone che però è già pieno di soccorritori, allora prendiamo direttamente la cresta di grandi blocchi granitici sotto cui potrebbe benissimo finire un uomo colpito dal fulmine.
Niente.

L’unico risultato è che, tagliando un nevaio, riesco a far cadere una slavina di neve marcia, senza conseguenze; all’elicottero dei carabinieri se ne affianca uno più grosso che fa delle scivolate pazzesche vicino alle pareti; quando, nel corso delle sue acrobazie per tenersi vicino ai pendii passa vicino a noi, vediamo che è quello della Scuola Militare Alpina di Aosta e che vicino al pilota pare di riconoscere il cappellino a fiori di Giorgio Bertone. Siamo sulla punta, trovato nulla; tracce recenti scendono da qui verso il Colle della Terra, naturale passaggio con la Val Orco: hanno già cercato; sta cambiando un po’ il tempo e ci affrettiamo a scendere per non finire di trovarci nell’”alveare”. Si sentono richiami dalla cresta opposta, cala l’elicottero, sbarca un cane e alcune persone. “L’hanno trovato”, dice Giancarlo. “Direi di sì”, rispondo. Andiamo di corsa, altri trecento metri di dislivello, pare di intravedere nella neve un sacco-salma. “È finito in una canaletta — dice Giancarlo — si sarà rotta una cornice, il principe aveva sempre avuto paura delle canalette”. Vediamo uno che guarda giù da un canale scosceso. Siamo arrivati alla resa dei conti? Alla fine della strada? Capisco la stupidità di cose forse mai pensate, ma forse dette anche da me. “Trovarlo, vivo o morto, ma trovarlo”. Tutte balle! Peggio che vedere un amico morto non è certo anche la più assurda delle speranze. Sono arrivato vicino all’uomo e gli chiedo: «E allora?». «Niente», risponde. «Bene!», dico, sollevato assurdamente. Lui mi guarda un po’ strano e io salgo alla postazione radio dove c’è Guido che sta parlando al telefono, un uomo con un cane, e due bardati da alpinisti. Mi sta guardando storto: da solo, jeans, maglietta e fascia sui capelli da trenta centimetri, belle e che pronto l’ultimo prezzo! Guido è sempre impegnato col collegamento radio, gli altri mangiano; uno, tal Campiglia di Ivrea, sta spezzando del pane, mi ricordo che ho moltissima fame e che siamo saliti di 2.200 metri di dislivello a piedi; allora gli chiedo se ha qualcosa da mettere sotto i denti, e lui mi porge con un “Ne ho poco” un microscopico pezzo di pane; speriamo che non gli sia cascata l’ernia dallo sforzo; ma ho fame, lo prendo e ringrazio.

Il ristorante “da Cesarin” (Breno, Val Grande di Lanzo), oggi

Bacscis, bread, mister, my friend!”, come a Kabul quando aspettavo dollari dall’Italia e chiedevo qualcosa all’hippame ricco che i torpedoni scaricano davanti al Khyber Restaurant. Vietato agli affamati fare gli schizzinosi.

Guido finisce il collegamento e mi butta il suo sacco pieno di cose buone, mangio come un orango e mi sentirei in colpa se non fossero arrivati tutti in elicottero; arriva Giancarlo, il “grande” Grassi e sono tutti lì a chiedergli dove siamo passati, cosa abbiamo fatto, se vogliamo del tè; Guido ridacchia, anche a me fanno pena.

Sta calando il sole, la strada lungo le Unghiase è lunga e noi decidiamo di cominciare a scendere, dato anche l’adamitico abbigliamento. Il vallone è brulicante di punti neri che lo setacciano palmo a palmo; alcuni punti girano in formazione, altri solitari come se avessero delle idee personali in testa. Sono moltissimi: un vero soccorso da principe. Siamo bruciati dal sole. Finisce la neve e ricominciamo a bere buona acqua. Passiamo sotto pareti slanciate ed imponenti tanto da suggerire il confronto col Becco di Valsoera. Saranno state queste quelle che Gian Piero voleva studiare? Passiamo in numerose baite che però portano i segni del passaggio di altri soccorritori. Ci fanno male i piedi, ma la serata si preannuncia splendida. Già è la sera di San Giovanni, una delle notti magiche dell’anno come Valpurga, Calendora, Ognissanti, Calendimaggio… Quand’ero piccolo, nella baita del Pian del Frais, mio padre mi raccontava che la notte di San Giovanni spuntava poco prima dell’alba un fiore magico che dava grande fortuna a chi lo trovava; ma perché spuntasse era necessaria un’alba serena. Per quattro anni consecutivi fece brutto al Frais a San Giovanni e poi mi dimenticai della cosa. Saranno stati i bellissimi gigli martagoni di stamattina a rifarmela venire in mente? Fatica e vecchie storie: il rimedio sicuro contro la tristezza. È molto bello il gneiss rosso del Bec di Mea nel tramonto. Siamo gli ultimi ad arrivare a Breno. Raccontiamo della nostra lunga e infruttuosa ricerca e ci sentiamo uno dei più bei complimenti della nostra vita dall’infaticabile Cesarin: «Ma siete matti ragazzi? Tutta quella strada!”.

Marucco, Vittone e Pierin “mano di fata” dicono che ci hanno visto sulla cresta, ma che ci hanno scambiato per Bertone e una cliente. Io sarei stato la cliente; speriamo che Giancarlo non voglia i soldi. Mangiamo e beviamo, domani verrà Bertone, quello vero con cani e elicottero, mentre Aldo Chiariglione mi dice che si batterà la zona più bassa del bosco ancora poco setacciata. È chiaro a tutti che si sta cercando ormai un cadavere; solo Cesarin è incrollabile nella sua fiducia in Gian Piero e dice: “Domani alle 11 è qui”. Quattro al trucco, come si dice giocando a bocce. Le ultime notizie da Ceresole invece sono spettacolari: due ipotesi sono arrivate dai fiancheggiatori del soccorso. Una è che gli operai della diga vedendolo scendere dalla Mercedes l’abbiano accoltellato per rubargli il portafoglio e poi l’abbiano gettato nel lago (questi operai, si sa, sono diventati di uno sfrontato dopo le elezioni del 15 giugno…), l’altra è che l’abbiano rapito. Motti come tutti sanno è miliardario e fa il rappresentante alla Cassin e alla Fila per vezzo, mentre quando va da solo in montagna lo fa per appendere o nascondere i sacchi di oro e di argento che non gli stanno più in cantina: è un lavoro che ha cominciato sul Pilier Gervasutti!


Il ristorante “da Cesarin” (Breno, Val Grande di Lanzo), oggi: in piedi, i proprietari (figli di Cesarin), Piero e Claudia Griva.

Partono Piero e gli altri della “Gerva”. Arrivano invece da Reggio Emilia Camurri, Soncini, Possa e altri due con cui si era arrampicato insieme venti giorni prima. Ora però sono davvero stanco morto; con Giancarlo, Alberto e Angelo vado a casa di Pilly, che continua a tenere la luce accesa di notte.

* *

Sveglia incredibile, con Angelo sulla pancia che grida: “È ora! È ora!”. Ma perché non ne fanno sapone? Mi aiuta a vestirmi e ripetiamo lo show con gli altri due: sono le sei. Facce di morti di sonno si ritrovano nell’osteria di Cesarin; è chiaro, ma non detto, che oggi è l’ultimo giorno di ricerca, che la storia finisce qui. Chiacchiero con gli amici di Reggio che mi chiedono cosa penso; dico che vorrei pensare che sia fuggito dal mondo piuttosto che saperlo freddo, ma che, conoscendo Gian Piero e lo stato della sua famiglia in cui il padre non può sopportare un’emozione del genere, anche questa piacevole ipotesi messa in giro da incoscienti e disperati è assolutamente improponibile. Ora siamo tutti nella stanza da pranzo, siamo gli ultimi cittadini rimasti con gli amici valligiani Carla, Luciano, Pilly, Giancarlo, Angelo, i reggiani, Alberto Rosso, Alberto Re, Guido; si aspetta l’elicottero; Giancarlo esce e rientra, poi dice, gelido come Stanley: «È arrivato». «C’è anche Bertone sull’elicottero?», chiedo. “No, è arrivato Gian Piero”. Urla nella strada. Esco di corsa. Gian Piero è davanti a me venti metri lontano, col sacco, gli occhi dilatati, la bocca spaccata dalla sete, incespica, tiene gli occhiali in mano, non riconosce, ci cade nelle braccia, farfuglia: «Acqua, che colpo… acqua, acqua”, la lingua è bianca e spaccata dalla sete. È vivo, è vivo, mamma, è vivo, sì, giudafaus, è vivo! Oh, incredibile, incredibile in questo mondo che capiti la gioia in mezzo a noi e restiamo inebetiti gridando, o piangendo, o scuotendo lentamente la testa per convincersi che è vero che viviamo una realtà più bella del sogno.

Gian Piero viene messo a letto, ci riconosce, ma non ricorda, probabilmente un fulmine è caduto vicino a lui mentre correva nel sottobosco sopra Breno durante il temporale di venerdì, il cervello deve essergli andato a massa, come si dice. Ci chiede se è sabato, no è mercoledì; per un attimo è stordito e poi capisce: “Mi avete cercato?”. “Con due elicotteri, duecento uomini, mute di cani e radioestesisti”, gli dico. Lui ricorda la traversata, la pioggia, una caduta nel torrente, l’incontro col pastore, il cambiamento di programma rispetto a quello che aveva detto al pastore e la discesa verso Breno tra i fulmini. Poi il risveglio, la sete, la breve, ma terribile camminata, l’incontro con un valligiano di Breno. Cesarin vede confermata la sua speranza ed è l’immagine della gioia. Pilly intanto ha trovato il coraggio di telefonare alla mamma di Gian Piero e Rosso dà la notizia a Ceresole dove ci restano tutti secchi.

Abbiamo vissuto il libero, gioioso, favoloso ASSURDO. Mi prende per mano una gran gioia di vivere mentre esco nel sole dalla camera di Gian Piero e trovo Angelo appoggiato al bancone del bar. Lavoriamo allora insieme alla più meritata insümmiatura della nostra vita, visto che è così difficile per l’uomo reagire in maniera fantastica di fronte al fantastico.

La ricerca di Gian Piero Motti ultima modifica: 2019-06-22T05:08:03+02:00 da GognaBlog

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1 commento su “La ricerca di Gian Piero Motti”

  1. Non mi stancherò mai di rileggere questo capolavoro di Andrea. Un inno alla vita e all’amicizia, a quei momenti unici in cui si vive “una realtà più bella del sogno”. Grazie Alessandro di avercelo riproposto.

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