La svolta epocale (partendo da Lynn Hill)
di Caroline Treadway
Traduzione © Luca Calvi
(pubblicato su Alpinist n. 58, estate 2017)
Lettura: spessore-weight**, impegno-effort***, disimpegno-entertainment***
Cerco di non stare a fissare Lynn Hill e invece continuo a farlo, come per riuscire a estrarre da lei quella qualità che la rende così eccezionale. Mi soffermo sulle sue mani: sono abbronzate, minute e muscolose, sembrano di cuoio consunto. Con un solo movimento, fluido, avvolge la corda alla base della parete di arenaria marrone, per poi piegarsi a riempire d’acqua la ciotola del cane.
A cinquantacinque anni sembra frizzante come nelle classiche foto in Yosemite di più di trent’anni fa. Mentre si allaccia le scarpette parliamo delle vie che ha salito nel corso degli anni. Il suo approccio, a suo dire, è stato di quelli “senza compromessi”.
Lynn Hill in libera sul grande tetto del Nose, El Capitan
E’ un pomeriggio d’autunno di quelli caldi, un bagliore d’estate. Siamo ben sopra Boulder, in Colorado, sui Flatirons e il cielo è di un azzurro imperiale. “Non faccio più la scalatrice professionista” – dice mentre si sistema l’imbrago – “Adesso faccio la mamma a tempo pieno”.
Sopra di noi incombe la via Death and Trasfiguration. La parete, striata di licheni, al sole diventa di color cremisi. La Hill incastra le mani in una fessura in ombra. Poggiando la punta del piede su alcune piccole protuberanze rocciose risale un diedro verticale, si accovaccia e poi sparisce in un nonnulla al di sopra del tetto. Ad osservare la Hill mentre ricompone come un puzzle i pezzi della sua via lungo la roccia liscia diventa subito chiaro che la sua forza fisica è solo complementare alla sua mente, alla sua abilità intellettuale nel risolvere i problemi e alla sua capacità psicologica di arrivare ai massimi livelli di prestazione.
“Ti sei portata le scarpette?” – mi chiede mentre si cala lungo la via. I suoi occhi azzurri come il ghiaccio stavano scintillando. Sapevo che quella “classica della zona” sarebbe stata ben più dura di quanto potesse sembrare. Mi abbasso verso lo zaino per prendere l’attrezzatura: non capita tutti i giorni di andare a scalare con il tuo idolo.
Non ho molti idoli, ma tra di loro di sicuro c’è Lynn Hill. Ho iniziato a scalare nel 1998, cinque anni dopo la sua tanto agognata prima ascensione in libera del Nose su El Capitan. Per molti lei era riuscita a catalizzare un punto di svolta epocale. La parete verticale, alta quasi novecento metri sale a penetrare uno scenografico arco di granito battuto dal sole, fino a creare una visione da capogiro per chi guarda dalla Valle. Quella che adesso è una rispettabile salita di 5.14a a quell’epoca era molto probabilmente la salita in libera più difficile che nessuno fosse mai riuscito a salire su una big wall. Lei andò a ripetere la sfida l’anno successivo, in un solo giorno. Fu poi solo nel 2005 che arrivò Tommy Caldwell per diventare la seconda persona – ed il primo di sesso maschile – a salire tutte le lunghezze in libera e il tutto in meno di ventiquattro ore.
Per alcuni l’impresa della Hill segnava il momento in cui il divario di genere nell’arrampicata era stato colmato. A questo hanno poi fatto seguito momenti che sono diventati pietre miliari ed hanno segnato l’ascesa delle donne in tutte le discipline della sfida, come riporta Charlotte Austin in Alpinist 52. Nel 2005 Ines Papert si è piazzata prima assoluta nella categoria difficoltà alla gara dell’Ouray Ice Festival. Nel 2008 Beth Rodden è diventata la prima persona a chiudere Meltdown, una fessurina da 5.14c che si ritiene essere il monotiro trad più difficile della Yosemite. Nel 2009 Kei Taniguchi è stata la prima alpinista di sesso femminile a ricevere il Piolet d’Or per la prima ascensione della ghiacciata parete sud-est del Kamet, vetta himalayana di 7756 m. L’anno scorso Lise Billon è diventata la seconda donna a ricevere l’ambito premio, per la sua salita del pilastro nord-est del Cerro Riso Patrón, una vetta trapuntata di cornici nel profondo dei fiordi della Patagonia meridionale. Nello stesso tempo Silvia Vidal ha forgiato durissime via di artificiale nell’intensa solitudine di grandi pareti extra-alpine. Nel boulder e nell’arrampicata sportiva Ashima Shiraishi e Margo Hayes hanno continuato a dimostrare che le donne sono in grado di poter risolvere i problemi più impegnativi del mondo.
Pamela Shanti Pack su The Sorcerer (5.11+, 300′, FFA Dunn-Coyne, 1978), Moab, Utah. Foto: Andrew Burr.
Con la crescita del digitale e dei social media le voci femminili si fanno sentire a voce più alta e in modo ben più vasto di prima. Per la maggior parte del diciannovesimo e ventesimo secolo il più delle donne è rimasta ai margini della letteratura d’avventura. I loro racconti alpinistici, spesso tratti da diari privati, vedevano ben più di rado la pubblicazione. Libri classici di autori femminili, come Tents in the Clouds, di Elisabeth Stark e Monica Jackson, Space Below My Feet di Gwen Moffat, oppure i Climbing Days di Dorothy Pilley ben difficilmente entravano a far parte dei titoli consigliati. Le riviste patinate generalmente mettevano in risalto solo alcune stelle, come Lynn Hill o Catherine Destivelle, mentre a moltissime ottime donne più che brave veniva lasciato appena lo spazio per una noticina sulle riviste d’alpinismo. Con le nuove possibilità offerte oggi dai media digitali, però, per le donne è molto più semplice auto-pubblicarsi e curare storie e immagine che poi sono loro stesse a controllare. Le piattaforme online aiutano a creare collegamenti tra scalatrici e attiviste di diverse regioni, a dare impulso e a far crescere il pubblico alla ricerca di storie sempre più complete. L’anno scorso il Flash Foxy Women’s Festival ha venduto tutti i biglietti in ventiquattro ore. Sulla scia di She Sends e Women’s Adventure Magazine, molte nuove pubblicazioni a stampa e digitali come Misadventures, terra incognita e Whoa Mag celebrano le imprese femminili nell’outdoor.
Ciò nonostante, all’incirca un quarto di secolo dopo la sua storica ascensione in libera al Nose, la Hill e altre scalatrici di massimo livello spesso vengono presentate come anomalie quantitativamente insignificanti. Come fotografa mi sono tuffata nel mondo dell’arrampicata negli ultimi dodici anni e spesso mi è stato chiesto di fare fotografie a donne. La scorsa estate ho visto Heather Weidner salire uno spicchio di granito tenuto su da esilissimi fili, proteggendosi solo con piccoli cams offset, per diventare la prima scalatrice donna che aveva chiuso China Doll (5.14R) senza andare a moschettonare nemmeno uno degli spit di via. Quando, però, mi sono messa a cercare di fare un elenco di tutte le donne che salgono vie difficili in stile trad, così, a memoria, ho visto che me ne venivano in mente davvero pochine. Fatta una ricerca un po’ più approfondita, però, mi sono resa conto che il gruppo è ben più nutrito di quanto pensassi: oltre alla Hill, alla Rodden ed alla Weidner, anche Barbara Zangerl ha ripetuto vie da 5.14 usando solo protezioni veloci. Steph Davis, Pamela Pack e parecchie altre donne sono arrivate a farsi vie gradate 5.13 in quello stile, mentre Hazel Findlay e Emma Twyford hanno salito vie trad durissime, tali da guadagnarsi il grado britannico di difficoltà E9 (che sottintende la presenza di notevole rischio ed impegno).
Steph Davis su Sunset Tower (5.13), Moab. Foto: Krystle Wright
Certo, con gli anni i gradi tendono ad avere oscillazioni. Qualsiasi sistema numerico è riduttivo e in un certo qual modo arbitrario. E’ un’espressione che non riesce a rendere appieno l’avventura totalizzante del movimento sulla roccia. Eppure c’è una potente valenza simbolica nell’idea di uno scalatore su roccia che va a provare i limiti estremi delle capacità tecniche senza la sicurezza di una fila di spit. Guardando un vecchio video di Lynn Hill al di sotto del Gran Tetto, con un mare infinito di granito sotto i piedi, mi sentivo ipnotizzata. La roccia sembrava liscia come la superficie di un lago. La punta delle dita che svaniva all’interno di una fessura appena percettibile e lei che sembrava riuscire a muoversi senza nemmeno provocare un’increspatura. Feci partire e ripartire il video in modo ossessivo, come se studiandolo potessi arrivare a scoprire un segreto. Come un principiante che studia l’esecuzione di un virtuoso dello strumento, osservavo le note di un qualcosa di intricato e di sfuggente. Cercavo di immaginare cosa lei stesse provando in quei momenti, l’assenza di paura, il senso della potenza, del selvaggio. Tutte cose che volevo provare io stessa.
Alla ricerca di un’ombra di quelle esperienze – e cercando di arrivare a capire quali barriere le donne abbiano dovuto affrontare per arrivarci – ho continuato a cercare interviste con scalatrici trad che abbiano portato avanti l’eredità di Lynn Hill. Alcune esprimevano la preoccupazione riguardo al fatto che le discussioni relative al genere andavano a sminuire tanto le imprese delle scalatrici quanto la loro esperienza. Alcune peraltro ritengono che quelle dinamiche non le riguardano in modo diretto, perché vogliono essere considerate semplicemente scalatrici, non “scalatrici donne”. Altre ancora sono del parere che tanto la pratica dello sport quanto l’industria che ci gravita attorno esistono solo all’interno del contesto sociale del quale risultano essere una diretta ramificazione, che a sua volta riflette le politiche, la cultura e i pregiudizi dell’epoca. Come sottolinea Julie Rak in un recente articolo pubblicato sulla rivista English Studies in Canada, i racconti dedicati all’arrampicata producono “una tipologia specifica di soggettività nell’arrampicata che mette in relazione l’arrampicata stessa all’idea occidentale di individualità”. Storicamente quei concetti di individualità sono stati costruiti per la maggior parte attorno ad esperienze di persone di genere maschile e di pelle bianca. Quella prospettiva continua ancor oggi a dominare la pubblicità, i festival cinematografici, le riviste, i libri, i premi e questo nonostante il senso di diversità che sta crescendo nel mondo dell’arrampicata.
Il numero di donne che scalano ai limiti superiori delle difficoltà in stile trad sta crescendo. Le storie che ho raccolto non vanno a creare una narrazione netta e unitaria, ma rimangono nient’altro che frammenti di storie, ben più lunghe, più sottili e più complesse. Tutte assieme ci incoraggiano a porre una domanda: ma cosa vuol dire scalare “in libera”?
Il viaggio che ha portato Lynn Hill a quell’ascensione rivoluzionaria ha avuto luogo in un’ambientazione che un tempo sembrava essere relativamente priva di presenza femminile. La partecipazione delle donne americane all’arrampicata negli anni ’60 stava raggiungendo il punto più basso, il tutto mentre la crescita dell’arrampicata artificiale stava invece raggiungendo il suo apice, una corrispondenza che non sembra per nulla essere una coincidenza. Negli anni che hanno fatto seguito alla Seconda Guerra Mondiale i mezzi di comunicazione hanno favorito il perpetuarsi dell’idea per cui il posto delle donne fosse all’interno della propria casa (anche se molte donne della classe lavoratrice continuavano a lavorare per necessità). Come scrittomi per e-mail dallo storico dell’arrampicata Kerwin Klein, “le donne della classe media generalmente non venivano incoraggiate a crescere usando per i propri giochi strumenti utensili a mano”. L’uso massiccio di chiodi, per alcuni, altro non era che l’espressione di una brutalità che gli stereotipi vogliono come “da uomini”. Quell’idea è stata descritta da Greg Child in Yosemite Big Walls di Chris McNamara, del 2000 come “un ingresso forzato, una violazione, un bombardamento di chiodi, uno schiantarsi contro la roccia per portarla alla sottomissione”. In un’intervista del 2014 per la rivista Alpinist, Joe Fischen ha scritto: “Detesto doverlo ammettere, ma all’epoca il tutto non sembrava essere proprio il genere di cose adatte a giovani donne… L’avvento dell’arrampicata senza martello andò a portar via buona parte della violenza dallo sport…”.
La rivoluzione dell’arrampicata “pulita” ha sfidato gli alpinisti a lasciare a casa martello e chiodi per andare a scalare con il solo ausilio delle protezioni veloci. Il saggio di Doug Robinson del 1972 The Whole Natural Art of Protection (L’arte del proteggersi in modo del tutto naturale) descriveva per i lettori americani l’uso dei dadi e degli eccentrici come un punto di svolta epocale per la filosofia dell’arrampicata. Sosteneva che era ben più etico fare affidamento sull’abilità e sulla tecnica per progredire lungo la roccia che affidarsi a materiale pesante e dannoso. “Salire clean vuol dire scalare la roccia senza modificarla: un passo in avanti verso l’arrampicata organica per un uomo che sia naturale”- scriveva Robinson. Con la diffusione di attrezzatura a camme di facile posizionamento ben presto l’arrampicata “clean” è divenuta la norma per una gran quantità di scalatori.
Lo stesso anno in cui l’influente saggio di Robinson faceva comparsa nel catalogo di attrezzatura di Yvon Chouinard, diventava legge il Titolo IX che andava a vietare la discriminazione di genere per l’istruzione sostenuta dai fondi statali, compresi i programmi per lo sport. In un articolo per Alpinist 17, Lynn Hill notava una connessione tra il cambiamento sociale degli anni Sessanta e Settanta e l’etica in via di sviluppo del mondo dell’arrampicata. Nata nel 1961 era cresciuta in un periodo di accese proteste contro la guerra, di marce delle donne e di attivismo ambientale. Scriveva: “In quanto scalatrice mi sono sentita legata ad una simile cultura anticonformista, opposta al materialismo, all’inquinamento e alla corruzione in crescita nella società. Il nostro approccio alla roccia, scalate clean, tradizionali, dipendente il meno possibile dall’attrezzatura, era l’estensione di questo punto di vista etico”:
L’ascesa dell’arrampicata libera inaugurò anche approcci che molti ritenevano essere più adatti a donne. In un articolo del 1973 per la rivista Mountain, Jim Bridwell descriveva il nuovo stile come un “ibrido tra boulder e balletto”. Lynn Hill ripropose la metafora della danza classica nel suo libro Climbing Free, del 2002. Il passaggio dal pesante uso del martello a un modo di salire più leggero e fluido aveva permesso, secondo lei “di danzare sulle dita delle mani e dei piedi lungo parecchi tratti di roccia che John Salathé (il pioniere delle scalate in Yosemite) avrebbe scalato in artificiale”. In uno studio del 2010 la ricercatrice dell’Università di Sheffield Rachel Dilley osservava che le praticanti di arrampicata libera di sesso femminile di varia età e di varia capacità si trovavano del tutto a proprio agio in quel senso di espansione dello spazio e delle capacità di movimento, in quel sentimento di armonia tra corpo e mente e nel poter trascendere le restrizioni tradizionalmente associate al genere di cui facevano parte.
Brette Harrington su Riders on the Storm (VI 5.12d/5.13 A3, 1300 m), Torri del Paine, Cile. Foto: Drew Smith
Eppure l’idea che l’arrampicata sia più adatta alle donne quando la stessa va a concentrarsi più su leggiadre coreografie che su tattiche ingegneristiche potrebbe alla fine perpetuare gli stereotipi. L’enfatizzazione delle qualità “femminili”, rinforza l’idea che le donne che vanno a scalare sono come prima cosa delle donne e poi delle atlete. In un articolo del 2014 La partecipazione delle donne agli sport ad alto rischio, la sociologa dello sport francese Maud Vanpoulle ha fatto notare che quest’idea crea “caricature in base alle quali un approccio è più femminile se presenta grazia e sicurezza, mentre è più maschile se invece richiama a forza e impegno”. All’inizio del ventunesimo secolo le immagini di scalatrici nelle pubblicità e nei media tendevano ancora a focalizzarsi su giovani atlete con il corpo in posizione elegante o su prese plastiche, il tutto su falesie spittate o su massi in una qualche spiaggia. Relativamente meno frequente era vedere immagini di donne che si facevano strada a suon di muscoli lungo fredde pareti di granito, alte sopra l’ultima piccola protezione veloce. Mentre peraltro la partecipazione delle donne all’arrampicata è diventata più grande che mai rispetto al passato, la conclusione della Vapoulle è che quelle ai massimi livelli di prestazione “appartengono ancora alla categoria delle eccezioni, quella categoria che riesce a suscitare un senso di stupore e ammirazione oppure a disturbare”.
Hazel Findlay su The Doors (5.13), Cadarese, Valdossola. Foto: David Pickford
Il livello di accettazione delle donne nell’arrampicata su roccia può essere misurato in leggende popolari. In un’edizione del 1970 di Summit, Royal Robbins aveva sbandierato l’influsso esercitato sulla Yosemite da parte di grandi donne come Elaine Matthews, la seconda donna a portare a termine la salita di una parete di VI grado in America o come Beverly Johnson, il cui elenco di ascensioni che incutevano spavento, compresa la notissima Crack of Doom, “mettevano a tacere ogni idea relativa al fatto che le donne non potessero eccellere nelle scalate in fessura”. Tuttavia lo “sciovinismo maschile” osservato da Robbins nella comunità del posto continuava a persistere. Tre anni più tardi, quando la Johnson e Sybille Hechtel effettuarono la prima salita tutta la femminile di El Cap, a Campo 4 c’erano i maschi che facevano scommesse se ce l’avrebbero fatta o meno. Quando la Johnson saliva in libera un tratto da 5.10, gli altri scalatori della Yosemite lo sgradavano a 5.9. Più in là nel tempo, quando la Johnson andò a far cordata con Jim Bridwell per parecchie prime ascensioni, Bridwell andava a gradare la via di 5.10 quando lei riusciva a liberarla. Tutto quello che non riusciva a passare era la base per arrivare ad applicare la gradazione di 5.11. Nella cultura competitiva dell’epoca sembrava che il sistema di gradazione della Yosemite funzionasse come sistema per alcuni scalatori maschi per poter andare a definire le scalate difficili su roccia come dominio puramente maschile.
Nonostante le imprese delle varie Johnson, Hechtel, Matthews e altre scalatrici dell’epoca, Galen Rowell, nella sua introduzione a The Vertical World of Yosemite del 1992 ebbe la seguente uscita: “Le donne sono vistosamente assenti dalle scalate di questo libro. Non ho scuse da presentare al riguardo, perché non sono qui per cambiare quella che è stata la storia. Molto semplicemente non ci sono state grandi prime ascensioni effettuate da donne durante gli anni in cui lo sport andava a formarsi… Ci sono state, certo, scalatrici per diletto… Il loro livello di capacità, però, era ben al di sotto di quello dei migliori scalatori”. Diciotto anni prima, in realtà, la Johnson aveva aperto assieme a Charlie Porter la via Grape Race, di sesto grado, una prima ascensione di rilievo che era stata riconosciuta dall’annuario Yosemite Big Walls del 2008 come “la via di El Cap (forse) più esposta di tutte a vento e pioggia”.
Lynn Hill su Outer Space (5.10), Eldorado Canyon, Colorado. Foto: Chris Noble
Per lungo periodo il Camp IV mantenne la propria fama di isola di machismo. In Climbing Free Lynn Hill scrive che il suo periodo di formazione come scalatrice, negli anni ’70, la vedeva sotto la guida di “una fratellanza di uomini”. Nonostante le donne fossero diventate visibili come non mai nella vita pubblica e politica, la Hill trovava che nel mondo dell’arrampicata “le donne si sentivano piuttosto poco incoraggiate o, a dirla francamente, si sentivano davvero poco propense a partecipare”. Nel contempo, però, l’impegno femminile negli sport organizzati negli Stati Uniti stava vivendo un momento di fioritura. La quantità di ragazze che praticavano sport alle scuole superiori era cresciuto di circa cinque volte rispetto a quando era stato approvato il Titolo IX. Quando questa generazione di giovani donne atletiche raggiunse la maggiore età nei primi anni ’80, queste portarono le loro abilità, tra l’altro, anche all’arrampicata su roccia. Contemporaneamente, su pareti e falesie di tutto il mondo le donne stavano dimostrando sempre più la loro parità a livello fisico con gli uomini. Nel 1982 l’australiana Louise Shepherd aveva salito l’iconica Separate Reality (5.12b), una fessura strapiombante lunga venti metri, nella Yosemite, la cui prima ascensione risaliva a solo quattro anni prima da parte di Ron Kauk. Nel 1984, poi, Lynn Hill tirò da prima Vandals, il primo 5.13 degli Shawangunk, un ricamo aggettante incastonato di quarzo bianco e nero. Appesa a quella prua rocciosa protesa all’esterno, sembrava messa in posa sul naso di una sorta di grandioso Nautilus dell’aria, perfettamente a suo agio in un mondo selvaggio e primordiale. Nel giro di pochi anni la Hill diventò l’ambasciatrice delle scalatrici statunitensi per le gare all’esterno. Da ultimo, poi, è andata ad applicare proprio quelle tecniche da sport acrobatico per far salire l’asticella del limite delle vie tradizionali dure ben più in là di quanto la maggior parte degli scalatori avrebbe potuto immaginare.
L’elenco sempre più grande delle ascensioni della Hill, culminate nella prima salita in libera del Nose in giornata, ha messo in discussione l’egemonia maschile nella Valle ed altrove. “Lynn ha fatto a pezzi la barriera di genere in un modo così minuzioso che nessuno potrebbe mai riuscire a rimettere a posto tutti i cocci” – scriveva John Long nella sua prefazione a Climbing Free. Nel 1958, quando Warren Harding, Wayne Merry, George Whitmore e Rich Calderwood fecero la prima ascensione del Nose, andarono a piantare su quella parete più di 675 chiodi in 45 giorni. Salendo in libera il Nose, come nota la studiosa Dianne Chisholm, la Hill ha rivendicato “un diritto territoriale e storico a saper padroneggiare e fare anche meglio quello che gli uomini erano riusciti a fare prima e con una tecnica così al risparmio che andava virtualmente a spogliare la tanto venerata via”. Con la sua famosa e iconica frase “Dai che si passa!” Lynn Hill ha reso pubblica l’idea che le donne erano in grado non solo di scalare bene quanto gli uomini, ma che erano anche in grado di sorpassarli.
Quando incontrai Lynn Hill ebbi l’impressione di averla già conosciuta da tempo. Nel 1998, all’età di ventidue anni, avevo strappato una sua foto da una rivista e l’avevo appesa in camera. Era una foto della Hill sul Nose, presa da sopra. Sembrava raccolta su se stessa, come un felino che si prepara al balzo, il sole del tardo pomeriggio che andava a scolpire i suoi muscoli in tensione e gli occhi concentrati su un qualcosa al di là della cornice. Ogni volta che passavo vicino alla fotografia, questa mi portava dalla scialba New Tork, con il suo carico repressivo di responsabilità, alla dorata Yosemite, quella che sembrava essere una terra di libertà e possibilità.
Dopo aver iniziato il college, ottenni un lavoretto come tracciatrice di vie presso una palestra locale e mi trovai così in mezzo a una squadra di amici il cui scopo principale era rappresentato dall’andare alla ricerca di nuovi boulder tra la City e i Gunks. Passammo un sacco di tempo a entrare e uscire da foreste infestate di zecche, cercando tutto ciò che potesse essere passato con la spazzola e poi provato. Il processo della scoperta divenne così un rituale che mi diede uno scopo. Non mi ero mai soffermata a pensare di essere l’unica donna del gruppo, mi ero sempre sentita come “una dei ragazzi”. Anche se sapevo che in giro c’erano altre donne che scalavano, queste non erano lì dov’ero io. A venticinque anni feci le valigie e mi trasferii a Ovest, in Colorado, patria di grandiose placche di granito e di alcuni dei più forti scalatori al mondo. Poco tempo dopo incontrai Steph Davis.
Beth Rodden su Meltdown (5.14c), Yosemite. Foto: Corey Rich
Con salite impressionanti, prime ascensioni e vie in free-solo, Steph Davis è una degli atleti di alto profilo più completi degli ultimi trent’anni. Nel decennio passato il suo andare a mescolare arrampicata e BASE jumping le è valso la fama di persona impavida. Come ha scritto la scalatrice Rosy Andrews in un articolo per la rivista Mountain comparso nel 1984, “mentre molte donne erano state cresciute ponendo poco accento sul prendersi i rischi”, la Davis preferisce non concentrarsi sulle barriere psicologiche o di genere. Come spesso dice “I dubbi portano pericolo”.
La Davis ha iniziato a scalare quand’era ancora una studentessa all’Università del Maryland, nel 1991. Pochi anni dopo si è trasferita a Ovest, per andare a cercare scalate in fessura in Colorado, Utah e Wyoming. Andare a mettersi da sola le protezioni le ha fatto acquisire la capacità di decidere come proteggersi invece di andare a seguire file di spit già posizionati. Nel 2003 è diventata la seconda donna al mondo a scalare El Cap in una giornata, sulla via Free Rider, seguendo la variante da 5.12 di Alex e Thomas Huber, lungo un aereo traverso che evita la fessura strapiombante e svasata della Headwall della Salathé. Dalla variante Huber, però, ha tirato dritto mirando a una fessura al di sopra della liscia parete di granito. In High Infatuation ha poi descritto come si fosse sentita “stordita, come se fosse passata attraverso un muro facendolo esplodere, per poi trovarsi così in un posto completamente differente e guardarsi attorno, scrollandosi di dosso scaglie di parete in ogni direzione”. Ha descritto peraltro ancora quel senso di trasformazione nella prefazione al libro di Chris Noble, Women Who Dare: “Scalare è un tramite, una presa metaforica che possiamo utilizzare per metterci in collegamento con forze potenti, in grado di cambiare la vita. In buona sostanza è il desiderio di metterci in collegamento che ci porta al migliore dei nostri “io””.
Quando la Davis stava iniziando a scalare non erano molte le donne a partecipare alla competizione. “Mi trovo sempre a dover discutere quando qualcuno mi chiede qualcosa sull’essere donna ed essere una scalatrice” – dice – “Io mi sono sempre concentrata su cosa volessi scalare e con chi volessi farlo”. In Women Who Dare, la Davis afferma che i concetti binari di genere possono andare a limitare il vero potenziale di un essere umano. “Vivere all’interno di etichette e definizioni ci tiene all’interno di un vaso dove tutto è grande fino al momento in cui le nostre radici arrivano a schiacciarsi contro le pareti del vaso. La libertà arriverà soltanto quando romperemo il vaso e manderemo i germogli in ogni direzione a crescere liberi e senza restrizioni”.
Nel 2007 la Davis è diventata la prima donna a salire in free solo la Diamond sul Longs Peak. Aveva scelto la Casual Route, una via da 5.10 considerata essere la via più “semplice” della parete, una striscia di granito puro rivolto a est venato da fessurine ombrose. A un’altezza di circa 4200 metri la Davis doveva portarsi fuori dal camino e lanciarsi per andare ad afferrare il successivo appiglio sicuro, il tutto a un’altezza di più di trecento metri dal lago Chasm. Come ricorda lei stessa “non si trattava soltanto di farlo, ma di riuscire a sentire un qualcosa mentre lo stavo facendo e questo non avvenne la prima volta… Farlo era una cosa, ma vivere del tutto l’esperienza era tutt’altra cosa, così lo rifeci”. La Davis tornò alla parete quasi subito e andò a salire in free solo la ben più dura Pervertical Sanctuary, dopo aver provato una volta la via da prima. Da brava musicista, la Davis trova la perfezione nella costanza dell’esercizio.
Un altro ruolo attivo viene svolto dalla Davis anche nella condivisione delle sue esperienze: tramite i suoi libri ed articoli la Davis cerca di tradurre per i suoi lettori e per se stessa la trascendenza che sorge dal venire a capo della sua paura, quell’aspetto inafferrabile dell’arrampicare che confina con l’inesprimibile. Per la Davis la connessione tra il flusso dell’arrampicare e quello dello scrivere è innato e uno alimenta l’altro. Nel 2005 riesce finalmente a scalare in libera tutte le lunghezze dalla Salathé Wall (5.13b/c), andando ad infilare le dita dentro i buchi dei chiodi creati dalle vecchie generazioni di scalatori in artificiale. Come riportato da lei stessa in seguito “Ero leggera come una spora di un dente di leone, avevo pieno controllo di me stessa, finalmente perfetta. Per alcuni preziosi secondi sono riuscita a raggiungere quel flusso inesorabile da me bramato per tutta la via. Finalmente ero libera”.
Ci vollero sei anni prima che la scalatrice neozelandese Mayan Smith-Gobat riuscisse a portare a termine la seconda salita femminile in libera della Salathé. La madre della Smith-Gobat, alpinista lei stessa, era rimasta a osservare alcuni suoi precedenti tentativi dalla base, da El Cap Meadow. “Spero di poter essere d’ispirazione” – ha detto la Smith-Gobat a ClimbingNarc.com – “e di dimostrare che non c’è ragione alcuna per cui laggiù ci debbano essere così poche ragazze su quelle big walls”.
Uno spruzzo dalla cascata va a bagnare il volto di Beth Rodden. La fessura si spegne per diventare una sorta di filo nero e brillante. I piedi tendono a scivolare e lei cerca di muovere le punta delle dita su quella vena di granito alla ricerca di un bordo, di qualsiasi cosa le permetta di scaricare il peso dai piedi. La cascata continua a rimbombarle nella testa, sono ormai due mesi che continua a lavorare la via e quella non è una giornata differente dalle altre. A metà via la fessura si restringe fino a diventare una piega sottile, nella quale riesce a infilare al massimo metà polpastrello. Ha le mani che tremano e punta disperatamente i piedi contro la parete. Sotto di lei ci sono solo due piccoli friend piazzati per metà all’interno della roccia e ognuno a malapena della larghezza di un ditale. “Se non altro sono due”, pensa. Pianta i piedi contro il granito viscido e si alza alla ricerca di una minima rugosità della roccia. Questa volta i piedi rimangono attaccati. E’ il 14 febbraio 2008 e Beth Rodden ha appena finito l’apertura di Meltdown, 5.14c, una delle vie trad più dure al mondo.
La Rodden aveva iniziato a scalare in una palestra a Davis, California sul nono grado e ben presto era arrivata a diventare una presenza fissa alle gare indoor, oltre ad essere stata campionessa Junior statunitense dal 1996 al 1998. Arrampicava spesso anche alla Smith Rock con la sua amica e mentore Brittany Griffith. All’età di diciannove anni si prese un semestre di congedo dalla UC Davis per andare a salire in redpoint la prima via sportiva da 5.14 d’America, To Bolt or Not To Be, aperta nel 1986 da Jean-Baptiste Tribout. La via sale una prua rossastra di tufo vulcanico seguendo una costellazione di bordi minuscoli e taglienti. Lynn Hill, il suo idolo, era alla base della parete a fare il tifo quando riuscì a passare.
Quella stessa sera, durante un festeggiamento a base di pizza a casa sua, la Hill chiese alla Rodden di unirsi a lei, a Nancy Feagin e Kath Pike in una prossima spedizione avente come obiettivo alcune prime ascensioni in Madagascar. Prima di quel momento la Rodden aveva tirato da prima solo alcuni 5.6 in stile trad e come ricorda lei stessa in Alpinist 12, “la maggior parte delle mie protezioni è saltata fuori da sola quando mi sono calata”. Nonostante si stesse allenando per gli X Games di San Francisco, la Rodden accettò l’invito. Quel gruppo di donne, guidate dalla Hill, alla fine tornarono dopo aver aperto Bravo les Filles su una big wall verticale nel massiccio del Tsaranoro. La Rodden dice di aver fatto ben poco oltre a risalire con le jumar “cercando di non essere di disturbo”. A causa di impegni precedenti con uno sponsor, peraltro, se ne dovette partire una settimana prima che la via fosse completata.
A parte ciò, comunque, come ha scritto la Rodden in Outside, durante quella scalata era riuscita a sviluppare un senso di “fiducia radicale in se stessa”. “Sono tornata che ero una persona molto più forte, non solo come scalatrice, ma a tutto tondo” – mi ha poi detto. Nella primavera del 2000 la Rodden abbandonò il circuito delle gare per andare in cerca di più avventura. “Andai dritta nella Yosemite come se sentissi di dover imparare a salire in stile trad” – mi spiega. Lì iniziò a scalare assieme a Tommy Caldwell creando un duo che andò presto ad aprire alcune delle vie in stile trad più dure a tutt’oggi, tra le quali Sarchasm (5.14a), un inquietante spigolo d’alta montagna sul Longs Peak. Nel 2005 i due hanno ripetuto la salita in libera al Nose di Lynn Hill, a comando alternato.
Come per la Hill, anche alla Rodden sono state fatte accuse relative al fatto che il suo fisico sarebbe stato un vantaggio sleale per le scalate su fessure da incastro di dita. “Probabilmente erano così sconvolti da quello che Lynn era riuscita a fare che per riprendersi avevano bisogno di trovare una ragione” – dice la Rodden. “Non si trattava però solo delle sue dita sottili… (Tommy) ha le dita più grosse che abbia mai visto”. Alta un metro e cinquantacinque, la Rodden pensa che la sua statura sia tanto un bene che un male, a seconda del tipo di scalata. La Rodden, però, non sta a focalizzarsi su quei tratti che non può cambiare: “Se non riesco a fare qualcosa non sto a soffermarmi sul fatto che sono troppo piccola o che le mie dita sono troppo sottili” – dice – “penso piuttosto a come venirne fuori”. La Rodden tratta il proprio approccio alle scalate come una parte della sua filosofia di vita “Cerca di godere di ciò che hai”.
Fino a poco tempo fa, dice la Rodden, non le era mai capitato di percepire il sessismo come un problema presente nell’industria dell’arrampicata. Poi, nell’aprile del 2016, durante un dibattito in occasione di un festival delle avventure al femminile tenutosi a Durango, Colorado, alla Rodden fu chiesto quanto lo percepisse essendo lei una delle scalatrici americane di maggior successo di tutti i tempi. La Rodden fece il calcolo che dalla fine degli anni ’90 fino alla prima decade del 2000 lei e Tommy Caldwell avevano sempre avuto gli stessi sponsor. “Avevo la stessa quantità di copertine di riviste d’alpinismo e di prime ascensioni. Senza dubbio, però, Tommy veniva sempre pagato di più”. Sul momento, dice, aveva pensato “ma chi se ne frega, ovvio che viene pagato di più, lui è figo!”. Col senno di poi, però, la Rodden ci ha ripensato: “Mi sa che non è giusto”.
Barbara Zangerl su Extra Lean (5.12-), Indian Creek, Utah. Foto: François Lebeau
Pamela Shanti Pack è appesa a un tetto e si tira su fino ai gomiti. Volteggia con una gamba sopra la testa, poi con l’altra, fino a infilare le dita dei piedi in una fessurina superficiale che incide un pezzo di granito Sherman facendolo diventare una pagnotta fossilizzata. “Adesso farò la mia migliore imitazione del bretzel” – dice, torcendosi poi dentro il soffitto finché a spuntare di fuori non resta che la sua metà superiore, come un verme in bocca ad un pettirosso. “Wow, fa girare la testa!”. I suoi capelli biondi si muovono al vento, mentre le orecchie tempestate d’oro riluccicano. “Non so per quale motivo ho pensato che sarebbe stato facile” – dice ridendo appesa a testa in giù. Ha la voce roca tipica di chi ha passato tutta la notte a far festa. Si solleva con una mezza trazione per poi emettere un piccolo gemito. Dopo mezz’ora sembra non essere riuscita ad andare da nessuna parte. Poco a poco riesce a guadagnare la mensola e da lì a calarsi per riposarsi.
Nel corso della sua carriera di scalatrice, dice la Pack, ha fatto più di sessanta prime ascensioni e più di cento prime salite femminili. Ha una laurea in arte e architettura presa a Yale e per parte dell’anno lavora su una nave che effettua mappature dei fondali marini nel mare di Bering, dove fa di tutto, dal portare barche in mare aperto fino a riparare i motori. Per il resto dell’anno vive nel suo camper tra una falesia e l’altra. “Non volevo essere una delle migliori scalatrici offwidth al mondo, al femminile: no, io volevo essere semplicemente una dei migliori scalatori offwidth al mondo tout-court” – dice la Pack.
Nel 2009 ha aperto Gabriel (5.13c), un tetto da ventidue metri nel Parco Nazionale di Zion all’interno del quale è andata a incastrarsi con tutto il corpo a testa in giù ed ha arrampicato in posizione inversa. Per parecchi anni quella è stata considerata la fessura offwidth più dura d’America. Nel 2012 ha effettuato la prima ascensione di Forever War, una spaccatura svasata, alta quasi novanta metri, tra due blocchi di granito sferzati dagli agenti atmosferici a Vedauwoo, ora una delle vie più difficili di tutta la zona. La sua nuova via più recente, American Horror Story, è una “adventure climb” da quattro tiri a Indian Creek, il quarto tiro, “magistrale”, da lei chiamato The Freak Show, è quello più dritto: lungo circa 35 metri, strapiombante da 45° a 60°, necessita di una scalata “in stile circense”, come ha scritto la Pack su Rock and Ice. La scalatrice è del parere che le scalate rivelino tutto sull’immaginazione dei loro primi salitori. “La maggior parte delle persone vede le tele vuote senza riuscire a vederne le possibilità”. Nel corso di una vita una serie di vie nuove può accumularsi fino a diventare, come scrive, una sorta di “autobiografia. Voglio che le mie vie raccontino delle storie. E’ come scrivere un libro ed io voglio che la gente lo legga”.
Racconta, poi, di aver lottato per farsi accettare. “Non appena ho iniziato a essere conosciuta come scalatrice, subito sono stata fatta oggetto di parecchi attacchi. Credo che il mio sia stato un caso particolare perché le fessure offwidth erano ancora un feudo per maschi”. Ogni scalatore che abbia avuto a che fare con le fessure larghe sa perfettamente che scalare in fessure offwidth ben di rado può essere elegante o grazioso. “C’è moltissima forza bruta, fisicità,” – dice la Packs sogghignando – “non è propriamente il top dell’eleganza”. Si fascia nuovamente i palmi delle mani con del nastro e ci attacca sopra della gomma nera adesiva. Sembra che qualcuno le sia passato sopra le mani con una moto.
La Pack mi dice di aver dovuto affrontare parecchie critiche da parte di uomini. “Quello che non arrivano a capire” – dice , “è quanto siano di ispirazione per me. Ogni volta che qualcuno mi ha tirato addosso palate di merda la mia reazione è stata “dai che adesso vado e gli fotto uno dei suoi progetti”. E così ho fatto! Ogni volta! Tipo “a cosa sta lavorando quel tizio? Adesso vado lì e mi faccio la prima ascensione”. Si mette a ridere e a me sembra di essere al bar, a bere una birra, e non rannicchiata sotto una fessura dimenticata a Vedauwoo, in attesa della pioggia. Osservo alcuni avvoltoi girare sopra una piccola depressione ricoperta di cespugli di uva spina e di piccoli pioppi. Da sud nuvole scure vanno addensandosi. L’aria è un elisir composto di saggezza e anarchia. “Mi è davvero sempre piaciuto essere una donna di frontiera” – mi dice.
“Ad una donna che abbia fatto un buon lavoro in campo culturale e di ricerca non piace essere definita un bravo studioso di sesso femminile… Definitela un bravo studioso, una brava studiosa e tanto basta… Io sono andata a scalare cinquecento metri più in alto di qualsiasi uomo negli Stati Uniti. Non definitemi uno scalatore di sesso femminile (Annie Smith Pack al New York Times, 1911)”.
“Quando ho cominciato a fare prime ascensioni le ho definite semplicemente prime ascensioni” – dice la Hill. “La roccia non fa discriminazioni”. Alcuni scalatori dicono che la stessa etichetta di prima ascensione femminile vada a enfatizzare proprio l’idea che dovrebbe andare a combattere, ovvero che le donne non dovrebbero essere trattate allo stesso modo degli uomini. Adesso la Hill crede che per alcune vie sia ancora importante sapere se il primo salitore sia stato una donna. Le storie su alcune prime salite femminili rivoluzionarie mandano un messaggio davvero forte: i punti più inaccessibili delle pareti rocciose non sono più un dominio per soli uomini. Per lungo tempo le imprese femminili non sono state sbandierate e le loro storie non sono state raccontate. Andando ad alleggerire un po’ quell’anonimato culturale, le prime ascensioni femminili potrebbero dare in qualche modo una misura dello stato del progresso verso l’eguaglianza.
Al telefono la scalatrice austriaca Barbara Zangerl mi dice che per lei non ha importanza la dicitura onorifica di “prima ascensione femminile”. “Non andrei mai a scegliere una via solo per poter essere la prima donna che l’abbia salita” – dice. “Certo, è un aspetto secondario piuttosto piacevole”. Poi, dopo una pausa, aggiunge: “Va benissimo per l’aspetto del marketing di uno scalatore professionista, certo, ma per me non sarebbe di sicuro una motivazione”. Nel 2014 ha effettuato la prima femminile di Prinzip Hoffnung, un 5.14 trad che ha preso il nome da un libro su ideali utopistici che può essere tradotto come “il principio della speranza”. L’arrampicata trad è piuttosto rara in Austria. C’è una pletora di vie sportive per le quali la Zangerl potrebbe andare ad aggiungere “prima femminile” al suo curriculum di scalatrice. Lei però resiste e va controcorrente. “Davvero, che l’unica scalatrice professionista della zona sia quella che va a scalare le vie femminili più difficili non è che sia proprio quella gran cosa” – dice. Di recente è diventata la seconda– indipendentemente dal genere – a salire in redpoint la Gondo Crack (5.14b R) in Svizzera senza utilizzare nessuno degli spit di via. La via, lunga diciassette metri, segue vere e proprie schegge nel lucido gneiss blu e marroncino, una linea così estenuante che lei ha tenuto un friend tra i denti per poter riuscire a piazzarlo più rapidamente.
Con la crescita dell’arrampicata e con l’avvento di maggiori flussi di contante per il settore è probabile che salga anche il valore di mercato delle prime salite femminili. Tuttavia la forte scalatrice trad Madaleine Sorkin mi dice che “per me è stimolante quando una donna riesce a fare qualcosa che nessuna altra donna prima era riuscita a fare, e probabilmente continuerà ad esserlo. Far finta che le donne nell’arrampicata abbiano le stesse opportunità degli uomini è una stronzata totale”. I racconti delle esperienze delle donne su falesie e montagne rendono sempre più di pubblico dominio l’idea che anch’esse possono essere protagoniste attive con storie di vita avventurosa e il valore di questo, per le giovani donne di oggi, è incommensurabile.
Per il suo undicesimo compleanno Hazel Findlay andò a scalare con il papà sulle falesie costiere vicino a Pembrokeshire, dove viveva, nel Galles meridionale. Si calarono assieme in doppia, scendendo verso l’oceano. Arrivati alla base, il papà le disse: “Vai e scala!”. Fu così che lei si scelse una via lungo quei salti grigi e ricoperti di sale e iniziò a salire. Si ricorda bene gli spruzzi che le bagnavano la punta delle dita, il profumo di primavera e del mare. “Quella è l’arrampicata nella sua forma più pura!” – dice. “Non sai cosa troverai, non hai una relazione da una guida, non sai se qualcuno l’ha già salita prima”.
Con la sua prima salita dal basso all’età di undici anni la Findlay era già entrata a far parte di un gruppo di antica tradizione di fortissimi primi di cordata in stile trad. Decenni prima che la tendenza delle attrezzature “clean” prendesse piede negli Stati Uniti gli scalatori britannici già avevano rinunciato ai chiodi andando a infilare prima dadi e poi protezioni meccaniche a camme all’interno di piccole fessure di gritstone. Nel 2011 la Findlay è riuscita a effettuare la prima salita femminile di Once Upon a Time in the Southwest, E9. La via si snoda per cinquanta metri lungo una placca di pietra grigia appartenente a una falesia sulla costa nel Devon. La Findlay aveva imparato a memoria dove dovevano andare le protezioni, in quale ordine e quale corda moschettonare. Prima di salirla dal basso l’aveva provata e riprovata parecchie volte con la corda dall’alto. La Findlay, però, sente che con quello stile “headpoint” viene meno qualcosa. “L’avventura praticamente se ne va a farsi benedire” – dice.
La Findlay sa che i numeri riescono a rendere piuttosto poco la vera essenza di una scalata. Dice che per lei alcune prime ascensioni si sono rivelate più difficili fisicamente di altre seconde, terze o quinte ascensioni di altre vie poi rivelatesi peraltro ben più appaganti. In una intervista del 2012 con Beth Rodden, la Findlay spiegava di non sentirsi motivata a provare e riprovare vie dure su El Cap quanto dall’idea di partire alla scoperta. Per chi vede le scalate come la ricerca dell’allineamento tra le due scoperte, quella interiore e quella esteriore, i gradi possono sembrare misure insignificanti, che non sono in grado di descrivere in maniera sufficiente e tanto meno di quantificare simili esperienze soggettive, che rimangono fondamentalmente private e misteriose. Adesso, all’età di ventotto anni, la Findlay dice: “Ho sempre pensato che per audacia si intendesse il partire per l’ignoto”.
Sempre più donne vanno a esplorare le pareti ancora mai scalate nel mondo e la forza e la capacità di percezione di ciascuna di loro può portarle ad immaginare possibilità differenti l’una dall’altra, aggiungendo così visioni sempre nuove al repertorio dell’arrampicata. Però è proprio questa fissazione sulle “prime” che meriterebbe attento controllo. Quando i racconti delle scalate e i media si concentrano solamente sull’annuncio della conquista di terreni sconosciuti sembrano andare ad abbracciare gli ideali vittoriani che celebravano l’imperialismo e la conquista della natura. Prospettiva, questa, che può andare a mettere in ombra esperienze ben più inesprimibili, dallo stretto legame che si forma tra compagni di cordata fino al senso di armonia con la natura che non ha bisogno di parole. Affrontando le prime ascensioni nel nostro stile potremmo trovare un modo per scoprire qualcosa di nuovo, un posto nostro e solo nostro nell’ignoto.
Ai miei esordi come fotografa d’arrampicata i miei colleghi erano tutti uomini. Sulle falesie andavano a catturare immagini dei tipi più forti sulle vie più dure. Il mondo delle scalatrici, invece, sembrava essere negletto, una nicchia nascosta, e io sentivo che avrei potuto andare a ritrarre qualcosa che gli altri stavano invece perdendo. Unghie rosse spezzate su candida arenaria. Un tallonaggio di profilo. Non erano necessariamente scatti da copertina o foto di scalate difficili. No, erano tentativi grezzi e sfrontati di andare a catturare quell’avvenire inaspettato e momentaneo senza gli occhi puntati degli uomini.
Alla maggior parte dei miei colleghi fotografi maschi piaceva fare da registi con le modelle, facendo grande uso di luci e Photoshop per arrivare a costruire la bellezza che volevano vedere. Ciò che io desideravo sopra ogni cosa era invece arrivare avere uno stile tutto mio. Non imitare ma creare, un processo che pareva inarrivabile, degno di alchimisti. Per un decennio mi sono sentita sola. Negli ultimi anni, però, è andata aumentando la quantità di donne che racconta storie usando i vari tipi di mezzi di comunicazione, dalle fotografe alle scrittrici, dalle documentariste alle produttrici. Adesso sono in grado di fare da mentore e di avere miei pari come mentori.
Da americana istruita e privilegiata mi rendo conto di essere fortunata a poter dare per scontate alcune libertà, opportunità e comfort. Dedicare così tanta parte della propria vita all’arrampicata implica un certo livello di stabilità finanziaria e di tempo libero. Tanto la Hill che la Rodden hanno parlato della loro ricerca dei modi per bilanciare arrampicata e maternità. Nessuna delle due ha avuto figli finché era ai massimi livelli della propria vita di scalatrice di vie trad di gran difficoltà. I primi club alpini in Gran Bretagna e America del Nord erano generalmente esclusivi e per scalatori bianchi, dei ceti medi o dell’alta società, una tradizione che continua a influenzare lo sport e la sua letteratura.
Per molte persone la diffusione dei social media presenta alcuni effetti negativi, tra i quali perdita della privacy e solitudine interiore. L’ossessione per la propria rappresentazione digitale può andare a impedire di potersi immergere in esperienze immediate. Gli aspetti positivi della rimozione delle barriere per la resa pubblica, però, in modo particolare per chi ha dovuto lottare per arrivare a far sentire la propria voce, sono innegabili. Ora è più facile trovare immagini di donne che “vanno oltre i propri confini, esplorano sempre di più, vivono vite avventurose anche se a fare ciò prima venivano incoraggiati solo gli uomini” – dice la scalatrice trad Kate Rutherford.
Lynn Hill dice di sentirsi eccitata quando vede lo slancio di giovani scalatrici che vanno forte, così come quando può condividere il suo amore per la ricerca dello scopo da raggiungere. “Loro però non vedono che c’è ancora un problema” – dice la Hill – “Pensano che la battaglia sia stata vinta, così come lo pensavo io quand’ero una ragazzina. Lascia che te lo dica: la lotta non è per nulla finita. La battaglia non è ancora stata vinta”.
In una recente intervista per Alpinist, la fondatrice di Flash Foxy Shelma Jun dice di vedere la necessità di dibattito sul genere che vadano a includere le esperienze di scalatrici provenienti da una varietà di background ben maggiore, nonché di persone che non vadano a identificarsi come uomini o come donne. “Anche all’interno dello spazio femminile ci possono essere persone che si possono sentire prive di collegamento e marginalizzate” – dice. “In quanto donna di colore per me scalare è sempre stato un atto politico. Non perché io vada a portare la politica nell’arrampicata, no: la mia esperienza di scalatrice, a causa del fatto che io sono chi sono, è politica”. Mentre la quantità di scalatrici continua a crescere, stanno prendendo slancio anche altri gruppi di scalatori non adeguatamente rappresentati, sostenuti da organizzazioni come Outdoor Afro, Brothers of Climbing, Latino Outdoors e BrownGirlsClimb, come anche Homo Climbtastic, festival di scalata molto popolare nella Virginia occidentale.
Un reportage del 2015 preparato dalla Outdoor Foundation ha stimato in circa due milioni e mezzo il totale delle persone che hanno praticato scalate trad nel 2014, con un aumento del 3,8 percento sugli ultimi cinque anni. Del totale dei partecipanti è stata trovata una percentuale di genere pari al 61,7 % di uomini e 38,3 % di donne. La stessa indagine relativa all’arrampicata sportiva ha rivelato che il divario era stato quasi azzerato. Di 4,5 milioni di praticanti il 53,1 % era rappresentato dagli uomini e il 46,9 % da donne. Non sono disponibili rilevazioni, invece, relative a persone non identificantisi nei generi.
Era l’estate del 1995. Brette Harrington, all’epoca ancora una bambina, era seduta nella parte posteriore di una barca, in attesa del coraggio per tuffarsi. Guardava verso il basso e verso l’acqua nera come l’inchiostro. Poi verso l’alto, verso le montagne coperte di neve che circondano il Lago Tahoe. D’improvviso andò a schiantarsi contro la superficie e iniziò a bere ampie sorsate di acqua gelida. Disorientata, rimase a galla nel suo giubbotto di salvataggio. I genitori le lanciarono una sagola, ma questa le sfuggì dalle mani e scomparve nel blu del lago. Lei non sopportava il guardare verso il basso, dove non si vedeva il fondo, a decine e decine di metri più in basso. Di nuovo i suoi genitori le lanciarono una sagola. Stavolta la afferrò e la tenne stretta.
Lo scorso mese di agosto, sui North Cascades, la Harrington ha avuto la stessa sensazione di sprofondamento: lei e Marc-André Leclerc avevano passato parecchi giorni a ripulire e a salire in artificiale undici tiri di roccia friabile e muschiosa in mezzo ad un’isola di granito lucente sul Monte Rexford. Vicino alla sommità del secondo tiro gli avambracci iniziarono a farle male e a irrigidirsi, mentre i polpacci iniziavano a tremare. Sopra di lei non c’era altro che una serie di incastri di dita messi in fila uno sull’altro lungo la parete verticale e sconfinata. Salì fin quando l’aderenza tenne, poi ripercorse volando la maggior parte della lunghezza. Le protezioni che aveva piazzato tennero, ma la corda subì danni sostanziali. Andarono avanti, insistendo per portare a termine la prima ascensione della parete.
Verso la fine dell’anno scorso ero nel mio salotto in Colorado, seduta a chattare via skype con Brette Harrington, che all’epoca si trovava sulle isole Caicos. La connessione che funzionava solo a tratti mi rendeva solo un’immagine sfocata e pixellata di arti abbronzati e capelli sbiancati dal sole. Facevo fatica a vederla su una vetta nevosa e battuta dalla tempesta sull’Isola di Baffin, dove aveva passato l’estate precedente, invece che in barca e al sole. E’ chiaro che anche la mia percezione delle donne ha bisogno di una svolta.
La Harrington aveva iniziato scalando su vie sportive a Rumney, nel New Hampshire, ma ben presto, come la Hill e la Rodden, passò all’arrampicata trad. Nel 2015 la Harrington è riuscita a salire quasi tutti i tiri di Free Muir (5.13c) su El Capitan, ad eccezione del traverso di 5.12a. Si è anche concentrata sull’andare a sondare nuovi spazi, spesso senza corda. Quello stesso anno è diventata la prima donna al mondo a salire in free solo la via Chiaro di Luna sul massiccio del Fitz Roy, nella Patagonia argentina, un pilastro che si innalza nell’aria gelida per più di trecento metri. Tecnicamente non era allo stesso livello di difficoltà di altre sue ascensioni fatte in precedenza, ma la sentì in modo più intenso. Scrive la Harrington in Alpinist 51: “Ogni singolo dettaglio era chiarissimo, come se lo stessi esaminando al microscopio. Questo è un dono che mi è stato fatto dall’arrampicata: far svanire il cicaleccio della quotidianità e rivelare la realtà del presente”.
Quando le donne diventano autrici delle proprie storie, siano queste articoli, fotografie, film, prime ascensioni, ma anche semplicemente un momento di auto-trascendenza condiviso, sono loro a detenere il potere di forgiare la percezione delle donne e l’esperienza delle scalatrici future. Quando sono le donne a coltivare le proprie storie, nel loro stile, lasciano un’eredità di indipendenza. Non ho mai pensato di essere la prima così come non ho mai pensato all’abbattimento delle barriere di genere. Non ho mai pensato di diventare un mentore. Ho però imparato a essere la guida di me stessa.
La questione non è solo quella di avere una voce, no. Si tratta di usare quella voce. Poi, sfidare ciò che viene dopo: la luce delle stelle, la tempesta o il silenzio.
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Beh, mi sento in dovere di correggere una svista. L’autrice scrive:
Galen Rowell, nella sua introduzione a The Vertical World of Yosemite del 1992 ebbe la seguente uscita: “Le donne sono vistosamente assenti dalle scalate di questo libro. Non ho scuse da presentare al riguardo, perché non sono qui per cambiare quella che è stata la storia. Molto semplicemente non ci sono state grandi prime ascensioni effettuate da donne durante gli anni in cui lo sport andava a formarsi… Ci sono state, certo, scalatrici per diletto… Il loro livello di capacità, però, era ben al di sotto di quello dei migliori scalatori”.
Sarebbe bene ricordare che The vertical world of Yosemite è del 1974, e che all’inizio degli anni Settanta quella era esattamente la situazione. Se Rowell ha introdotto nella riedizione dello stesso libro vent’anni dopo quelle frasi, che nella prefazione dell’edizione originale non c’erano, è proprio perché le cose nel frattempo erano cambiate, e lui ne era ben cosciente. In omaggio, quindi, e non in spregio di quanto le donne avevano fatto.
Nel nostro piccolo ambito personale, sentimentale, culturale sappiamo come far quadrare il cerchio. Sappiamo ciò che è giusto è ciò che è sbagliato. Eleggiamo a mito qualcuno o qualcosa e dileggiamo altro.
In altri ambiti, di altre persone, sentimenti e culture la quadratura è altra, così i miti e la giustizia.
Le storie dell’alpinismo che conosco sono prevalentemente alpicentriche. Facilmente non tengono in dovuto conto quanto fatto altrove, in Asia, nelle Americhe, in altri distretti europei.
Se qualcuno riuscisse a liberarsi del proprio ambito per abbracciarne altri, anche l’ipotetico suo opposto, sarebbe costretto a rivedere ciò che credeva e pensava.
Se fosse uno storico dell’alpinismo e avesse la dote disumana dell’imparzialità leggeremmo altre storie dell’alpinismo rispetto a quelle che abbiamo in casa.