La tragedia dell’Howse Peak

Nell’aprile del 2019, gli alpinisti David Lama, Jess Roskelley e Hansjörg Auer interruppero le comunicazioni durante una spedizione in Canada e furono dati per dispersi. La spedizione si sarebbe conclusa tragicamente. La comunità alpinistica si mobilitò, prima per cercarli e poi per commemorarli. Sulla scia di questi fatti, lo scrittore Nick Heil esamina le motivazioni degli alpinisti di punta e si chiede: quanto dobbiamo avvicinarci alla morte per sentirci vivi?

La tragedia dell’Howse Peak
di Nick Heil
(pubblicato in origine su Outside il 28 agosto 2019, poi aggiornato il 27 giugno 2021)

L’Howse Peak è una vetta a due punte alta 3200 m che si erge dal Continental Divide, lo spartiacque continentale delle Americhe, tra la British Columbia e il Banff National Park dell’Alberta. La zona è remota, senza segnale per i cellulari e senza punti d’appoggio, nonostante sia ben visibile dalla solitaria Icefields Parkway, la strada che taglia in due Banff a poche miglia dalla montagna. La salita del versante est dell’Howse, una parete verticale di roccia sedimentaria alta circa 1000 m e solcata da un intrigo di neve e ghiaccio, è un progetto che solo gli scalatori più seri possono prendere in considerazione. La via più temibile su questo versante, M-16 – il cui nome riecheggia quello di una mitragliatrice, viste le colate di detriti e ghiaccio che a cadenza regolare la percorrono – è stata aperta 20 anni fa, in cinque giorni di grande impegno e rischio, da una cordata di tre alpinisti, e mai più ripetuta. Uno di loro, Steve House, ha scritto in seguito che questa via aveva comportato la necessità di scalare “uno dei tiri più impegnativi della sua vita”.

Lunedì 15 aprile del 2019, tre dei migliori alpinisti al mondo, David Lama, 28 anni, di Innsbruck, Austria; Hansjörg Auer, 35 anni, di Umhausen, Austria; e Jess Roskelley, 36 anni, di Spokane, Washington, sono saliti con gli sci ai piedi dell’Howse e hanno montato una tenda in una conca innevata, con l’intenzione di tentare la M-16, o una sua variante, la mattina presto dell’indomani. Il trio era nella zona da quasi un mese, facendo base in un appartamento, a Canmore. Tutti e tre erano membri del team di arrampicata di North Face, un gruppo storico di atleti della montagna fondato nel 1992, che include, tra gli altri, vere e proprie autorità come Conrad Anker, Peter Athans, Emily Harrington, Alex Honnold e Jimmy Chin.

Se guardiamo all’arrampicata come ad un insieme di discipline, la più impegnativa tra queste è l’alpinismo, per via dei pericoli oggettivi che comporta, portando i suoi praticanti su percorsi impegnativi di neve e ghiaccio e su pareti verticali di roccia, spesso di cattiva qualità. Ma questo non è ciò che la maggior parte delle persone riconosce come alpinismo oggigiorno: la gente pensa infatti al triste circo che va in scena sull’Everest o al commercio di salite guidate alle cime del Mt. Rainier o del Mt. Hood. Per gli alpinisti, invece, lo stile è tutto. Una progressione corretta implica uno stile di scalata leggera e veloce, facendo uso minimo dell’attrezzatura e muovendosi nella massima autosufficienza. È dato grande valore alle prime salite, ma anche la ripetizione di vie di notevole difficoltà ti fa guadagnare rispetto. Il margine di errore è paurosamente basso e la lista delle vittime è lunga. Roskelley aveva recentemente detto alla sorella minore, Jordan, un’istruttrice di yoga che lavora con la squadra di basket maschile dell’Università Gonzaga di Spokane: “Se quei ragazzi commettono un errore, perdono una partita. Se commetto un errore io, muoio”.

In occasione di questo viaggio Lama, Auer e Roskelley hanno scalato per la prima volta tutti insieme. Erano diventati amici nell’ambito di North Face, frequentando fiere e riunioni aziendali, e chiacchierando tra loro con entusiasmo di potenziali spedizioni. I tre si erano sistemati per un mese in Canada, in una base comoda da cui potevano lanciare sortite alpinistiche, provare nuova attrezzatura e sognare grandi progetti. Avevano discusso di un tentativo sulla cresta sud-orientale dell’Annapurna III, uno degli ultimi grandi problemi rimasti da vincere in Himalaya. Lama e Auer ci avevano già provato due volte, nel 2016 e nel 2017, con un altro austriaco, Alex Blümel. Nella loro prima spedizione, erano stati respinti a poche centinaia di metri dalla vetta. Nella seconda, il progetto era finito ancor prima di raggiungere il campo base, quando avevano ricevuto la notizia della morte di un amico e avevano perso la voglia di continuare. Per un terzo tentativo, Auer e Lama avevano pensato che il loro nuovo compagno di squadra Roskelley potesse essere più adatto. E in caso vi fossero stati problemi con lui, il viaggio in Canada era l’occasione per risolverli.

Da sinistra: Roskelley, Auer e Lama in vetta all’Howse Peak. L’immagine è stata recuperata dal telefono di Roskelley. Foto: Jess Roskelley.

Prima di metà aprile, il trio aveva già completato alcune scalate di grande spessore nei dintorni di Canmore, tra cui Nemesis, una spettacolare cascata di ghiaccio, e una classica delle Canadian Rockies, Andromeda Strain. M-16 era più grande e più ambiziosa di quelle due vie, ma rientrava ampiamente nelle loro comprovate capacità. Avevano tutti in curriculum scalate più lunghe, più difficili e oggettivamente più pericolose di quella. Lunedì sera, Parks Canada aveva previsto condizioni primaverili per l’area dell’Howse, una valutazione tipica, anche se un po’ vaga, per quel periodo dell’anno: “Il pericolo di valanghe è variabile e può andare da debole a forte. Si consiglia di muoversi nelle prime ore del giorno, poiché le condizioni possono cambiare rapidamente”.

Verso le 2 di mattina di mercoledì 17 aprile, la moglie di Roskelley, Allison, mandò un messaggio alla madre di lui, Joyce. Jess non si era ancora fatto sentire dal sistema di comunicazione satellitare, come faceva di solito. Joyce cercò di rassicurarla, ma Alli passò comunque una notte insonne in attesa di notizie. La mattina dopo, quando Jess non si era ancora fatto vivo, Joyce parlò con il padre di Jess, John, anche lui famoso alpinista. John pensò che ci fossero diverse possibili spiegazioni, non tutte così gravi. Contattò Parks Canada, che inviò prontamente una squadra di soccorso da Lake Louise, che si trova a circa 50 chilometri di distanza.

Un soccorritore andò in auto fino al Banff National Park, dove trovò il pick-up di Jess parcheggiato all’inizio del sentiero per l’Howse. Poi fu inviato un elicottero per sorvolare la parete est dell’Howse, e lì videro una grande distesa di detriti portati da una valanga alla base della parete. Alcuni pezzi di attrezzatura da arrampicata erano visibili al fronte della valanga. Fu avvistata una gamba che sporgeva dalla neve, e questa era la cosa più brutta. Non c’erano altri segni degli scalatori o ulteriori indicazioni su cosa fosse andato storto. Il tempo stava peggiorando rapidamente, quindi, dopo avere scattato delle foto dall’alto, i soccorritori dovettero fare ritorno a Lake Louise, e da lì si misero in contatto con John e Alli.
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Sono arrivato a Canmore venerdì pomeriggio, con un volo su Calgary dal New Mexico, dove vivo. Conosco i Roskelleys per avere risieduto a Spokane per diversi anni negli anni Novanta, lì ho imparato ad arrampicare e ci sono tornato con regolarità, in seguito, dato che mio padre vive ancora lì. All’epoca, mi ero iscritto agli Spokane Mountaineers, un club locale, di cui John Roskelley era probabilmente il membro più stimato. Negli anni Settanta, fece parte della prima cordata americana a raggiungere la cima del K2, e in quel tempo ha fatto altre grandi imprese sulle più importanti montagne del mondo. Nel 2014, ha ricevuto il Piolet d’Or alla carriera, il più alto riconoscimento alpinistico a livello internazionale. Non era molto attivo come alpinista al tempo che io trascorsi a Spokane, essendo entrato in politica, come assessore di contea. Interagimmo un paio di volte, perché io lavoravo per un settimanale e avevo sempre apprezzato il suo buon senso e la sua schiettezza, nel mondo burrascoso della politica cittadina.

I Roskelley sono molto uniti. Vivono tutti a Spokane e si riuniscono spesso per pranzi, vacanze e festività. Per diversi anni dopo il college, Jess e sua sorella Jordan, che era stata una saltatrice con l’asta all’Università dell’Oregon, sono stati coinquilini e in grande confidenza.

Ho trovato la famiglia all’interno dell’appartamento che Auer, Lama e Roskelley avevano affittato. Un borsone con dentro attrezzatura da alpinismo era sul pavimento della cucina e c’era una discussione piuttosto tesa su cosa farne. Jordan era in piedi davanti al frigorifero, tenendone aperta la porta, che rivelava al suo interno non molto altro che birra e un impasto per cuocere biscotti. “Ma questi ragazzi di cosa si nutrivano?” ha sospirato.

Il meteo instabile è durato fino a domenica, la domenica di Pasqua, facendo precipitare trenta centimetri di neve fresca in alta montagna e tenendo ferme le operazioni di ricerca. I media erano infervorati: Parks Canada aveva ricevuto più di 800 richieste di informazioni sull’incidente. Altra gente era arrivata ​​a Canmore, tra cui Scott Coldiron, uno dei compagni di scalata di Jess, e la fidanzata di Lama, Hadley Hammer, una sciatrice sponsorizzata da North Face.

Giravano voci di un miracolo pasquale. Non era impossibile che un sopravvissuto, forse due, fosse rimasto bloccato sull’Howse senza modo di comunicare. Ma l’umore era pesante. Alli singhiozzava a scatti, la triste realtà della perdita sembrava abbattersi su di lei a ondate. Joyce puliva la cucina, il viso tirato. John faceva telefonate per correggere gli errori nelle numerose storie che, nella fretta, venivano messe in circolazione. Jordan se ne andò per sedersi nel pick up di Jess, recuperato dal sentiero e ora parcheggiato vicino al condominio.

Crescendo, Jess aveva avuto a un tratto un rapporto conflittuale con l’arrampicata. “Durante il liceo sono stato trascinato in montagna da mio padre, come una sorta di compagno di arrampicata artificiale”, ha scritto nel 2014 sul blog del produttore di fornelli da campo MSR. “È come se fossi stato pianificato con tempistiche precise per essere il suo compagno quando lui sarebbe invecchiato e gli fosse servito un giovane a fianco a tenerlo carico di energia”.

Per un po’, aveva optato per sport più convenzionali: sci di fondo, wrestling. Aveva fatto gare di mountain bike. Ci sono stati anni in cui sembrava che davvero lui non sarebbe mai più tornato a scalare.

Ma le montagne erano nel suo destino. Era fatto per arrampicare, con le braccia lunghe e muscolose, la vita stretta e spalle larghe che aveva riempito di tatuaggi colorati. In cima al petto, si era fatto tatuare una specie di collana con incisa una delle sue citazioni preferite, il motto dell’esploratore Ernest Shackleton: fortitudine vincimus (“con la perseveranza si vince”). Guidava grossi pick-up rialzati e gli piacevano le t-shirt e i cappellini da baseball con la visiera piatta. “Era il classico duro americano”, ha detto Scott Mellin, direttore globale per gli sport di montagna della North Face.

Jess aveva anche un lato casalingo e familiare. Adorava il suo bulldog bianco, Mugs, ed era molto innamorato di Alli; il suo Instagram era pieno di immagini di loro due che si divertivano in luoghi romantici: Thailandia, Islanda, Costa Rica. Aveva un senso dell’umorismo giocoso e irriverente, con una propensione per le battute su flatulenze e peti. Una volta, a metà di una scalata sul ghiaccio, contattò via radio la moglie, che stava facendo sci alpinismo lì vicino.

“Ci sei? Passo”.
“C’è qualcosa che non va?” aveva risposto lei, allarmata.

Una pausa, poi si era sentito il rumore di una gran scoreggia rimbombare dal viva voce.

“Jess!” aveva urlato lei, ed era scoppiata a ridere.

Era sempre stato un tipo sveglio, ma a scuola aveva avuto i suoi problemi. Aveva sviluppato una sensibilità spiccata, accompagnata da un forte temperamento. I bulli lo facevano infuriare. Joyce, insegnante di terza media, fece più di un viaggio per recuperare il figlio dall’ufficio del preside, dopo che era stato coinvolto in qualche rissa. Alle medie, gli fu diagnosticato un disturbo da deficit di attenzione. Aveva difficoltà a rimanere concentrato. “Se si trovava in un’aula silenziosa, poteva distrarlo un insegnante che temperava una matita nella stanza accanto “, mi ha raccontato Joyce. Gli fu prescritto l’Adderall, che lo aiutò. Ancora più terapeutica, però, fu l’arrampicata su roccia e ghiaccio. Incanalava l’energia e l’ansia nelle mani e negli attrezzi da ghiaccio, e questo lo aiutava a calmare la mente.

Nel 2003, quando Jess aveva 20 anni, lui e John scalarono l’Everest insieme. La spedizione fu lunga e massacrante, afflitta da condizioni meteorologiche incerte. Quando finalmente raggiunsero la cima, riuscirono a vedere solo nuvole e il vento soffiava così forte che furono costretti a inginocchiarsi. I due si abbracciarono e piansero.

L’Everest fu un punto di svolta. A Jess non piacevano molto le spedizioni tradizionali in Himalaya (sul blog MSR, si riferiva all’Everest come a un safari, “un’esperienza di lusso per benestanti”), ma aveva dato prova di sé in una scalata seria ad altitudini estreme. In seguito decise che “l’arrampicata in stile alpino era la forma più pura di questo sport”. Abbandonò l’Università del Montana durante il suo secondo anno e si fece assumere come saldatore nella regione petrolifera del North Slope, all’estremo nord dell’Alaska. Era un lavoro impegnativo ma redditizio; in cantiere si facevano i turni e questo, cosa più importante, gli consentiva di scalare per settimane intere senza pausa.

Per il decennio successivo, Jess affrontò con determinazione picchi e pareti ghiacciate in Alaska, Montana, Canada e Sud America, sforzandosi di trasformare la sua passione in una professione. Durante una scalata, sembrava di poter dare il meglio di sé proprio quando le cose, per qualche motivo, volgevano al peggio.

“Ho visto Jess in situazioni difficili, mentre tutti si cagavano sotto lui tirava fuori questi attributi di ferro”, dice Coldiron, un ex sergente dell’esercito in Iraq che ora lavora per il dipartimento dei vigili del fuoco di Spokane. “È una qualità che non vedi spesso, la capacità di salire di livello e fare ciò che deve essere fatto. L’ho visto in combattimento in Iraq. Lo vedo quando ho a che fare con grossi incendi, dove la vita delle persone è in gioco”.

Nella primavera del 2017, Clint Helander, un arrampicatore di base ad Anchorage, contattò Jess per tentare la prima integrale della cresta sud del monte Huntington in Alaska. La cresta si articola in una serie di guglie e pinnacoli, come se fossero la fila di denti di uno squalo gigantesco, uno più imponente dell’altro. La coppia non aveva mai scalato insieme prima, ma si era incrociata in Patagonia e avevano fatto subito amicizia. “C’è molta gente in grado di fare ghiaccio e muoversi sui nevai”, mi ha detto Helander, “ma Jess univa a questo il tipo di determinazione che si deve esigere per quel certo tipo di percorsi”.

Il successo sull’Huntington aiutò Jess a ottenere un contratto con la North Face. “Era davvero arrivato al punto in cui sentiva che ce la stava facendo”, ha detto Alli. “Quest’anno non avrebbe dovuto andare a fare saldature. Poteva allenarsi a tempo pieno, e grazie a questo, devo dire, negli ultimi due mesi il suo atteggiamento era cambiato. Era così eccitato”.
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Domenica, arrivò una schiarita e la squadra dei soccorritori poté tornare all’Howse. Non ci sarebbe stato nessun miracolo pasquale. Con l’aiuto di un cane da valanga, i soccorritori localizzarono i tre corpi tra i resti della valanga.

La morte di uno solo di questi ragazzi sarebbe stata una notizia per tutti gli appassionati d’alpinismo, ma perderli tutti e tre in un sol colpo scosse il mondo intero. Scrivendo sul New York Times, Francis Sanzaro, direttore di Rock and Ice, disse che era stato come “svegliarsi e scoprire che le grandi stelle del football Tom Brady, Le’Veon Moss e Antonio Brown erano rimasti uccisi, tutti insieme, mentre giocavano una partita”.

La mattina dopo, andai con gli sci fino alla base dell’Howse con un amico di Spokane per dare un’occhiata più da vicino alla montagna. La parete si imponeva come un incubo fatto di roccia nera e di ghiaccio blu, che si ergeva dritto verso l’ignoto. Ricominciò a nevicare, e dunque tornammo indietro per non correre il rischio di perdere la traccia. Vicino all’inizio del sentiero, incontrammo una giovane donna con le scarpe da ginnastica che avanzava goffamente nella neve alta, verso l’Howse. Aveva guidato per diverse ore da Calgary, ci disse. Le chiedemmo se conosceva gli scalatori.

“No. Ne ho appena letto, ma per qualche motivo la notizia mi ha molto colpito e ho sentito il bisogno di venire qui”, disse. “È stato come un pellegrinaggio, credo”.

Se Jess Roskelley era il “duro americano”, Hansjörg Auer e David Lama erano le superstar europee. Si erano distinti in Austria, all’interno di una cultura con l’ossessione dell’alpinismo. L’Österreichischer Alpenverein, il Club alpino austriaco, vanta più di mezzo milione di membri, il 5 percento della popolazione del paese. Gli scalatori più forti sono riconosciuti per strada.

Auer deve parte della sua notorietà ad un video divenuto virale nel 2018, girato con la telecamera montata sul suo casco, che lo mostra mentre fa una calata molto precaria, dopo essere finito fuori via mentre sale in solitaria una parete di misto, in Austria. Ma era considerato uno degli scalatori più abili e coraggiosi al mondo già dal 2007, quando era venuto alla ribalta scalando in free-solo la Via Attraverso Il Pesce, nelle Dolomiti. Chiamata così per una caratteristica nicchia a forma di pesce a tre quarti della parete, la via si sviluppa per 900 metri con difficoltà fino al 7b+, con un passaggio chiave con prese rovesce che Auer ha affrontato senza corde o protezioni, sopra 400 metri di vuoto.

Fino al giorno in cui Alex Honnold, nel 2017, ha salito slegato, su El Capitan, Freerider, una via di 1000 metri con difficoltà fino al 7c, leggermente più lunga e più difficile del Pesce, la scalata solitaria di Auer era stata il punto di riferimento mondiale per il free solo. Ma lui non aveva portato una telecamera o una troupe cinematografica e la via l’aveva provata solo una volta, tre anni prima. Della sua impresa si sarebbero potute benissimo perdere le tracce, se due tedeschi che arrampicavano su una via vicina non lo avessero visto scalare.

Da piccolo, Auer era un tipo un po’ imbranato, magrolino e timido, con le orecchie a sventola, un mento enorme ed uno spazio ben visibile tra i denti davanti. “Ero sempre una delle ultime scelte per la squadra di calcio”, dice in No Turning Back, il documentario di Storyteller Labs sulla sua vita da scalatore. “Andavo a fare escursioni da solo in montagna. Lì mi sentivo a mio agio”. Nel 2017, ha pubblicato un’autobiografia, Südwand, che descrive in dettaglio i suoi sentimenti da reietto e i problemi avuti con l’anoressia.

Aveva iniziato una carriera da insegnante di matematica, che alla fine abbandonò per dedicarsi all’arrampicata a tempo pieno. A trent’anni, stava trasferendo le sue formidabili abilità arrampicatorie sulle grandi vie d’alpinismo. Nell’ottobre 2015, stava scalando il Nilgiri Sud in Nepal con Alex Blümel e il suo caro amico Gerry Fiegl quando Fiegl, debilitato dalla quota, era scivolato durante la discesa. Auer e Blümel poterono solo guardarlo, inorriditi, mentre si ribaltava all’indietro e precipitava per oltre 500 metri, morendo. Un paio di anni dopo, Auer e Blümel completarono la prima salita della parete nord del Gimmigela Est, una montagna di 7000 metri, in Nepal. In vetta, trascorsero mezz’ora in silenzio. Più tardi, Auer chiese a Blümel a cosa stesse pensando. “A Gerry”, gli rispose.

Il percorso di Lama è stato ugualmente impressionante, se non di un profilo ancor più alto. Il padre di Lama è una guida Sherpa e la madre è austriaca; molto presto lo hanno iniziato all’arrampicata. Quando aveva cinque anni, andò a fare il camp di arrampicata gestito dal veterano dell’Everest Peter Habeler, che dichiarò di avere scoperto un prodigio. A 18 anni, si classificò al primo posto nella classifica finale della Coppa del Mondo di arrampicata. Non guastava il fatto che aveva un bell’aspetto che sarebbe andato bene sulle riviste per adolescenti, la pelle color caramello, gli occhi marroni e un caschetto lucente di capelli scuri. A 21 anni, abbandonò le competizioni per dedicarsi esclusivamente all’arrampicata alpina.

Il fatto che la forza e le abilità tecniche di Lama potessero essere portate sulle grandi montagne lo caricava di promesse, ma la sua avventura da alpinista cominciò male. Nel 2010, Lama tentò di scalare in libera, ovvero usando l’attrezzatura solo per proteggersi, la famosa Via del Compressore sul Cerro Torre in Patagonia. Una troupe cinematografica della Red Bull lo aveva accompagnato durante la scalata, piantando decine di chiodi sulla parete e trasformando l’iconica guglia in una specie di muro da arrampicata in grande stile. Quando Lama fallì e la troupe lasciò chiodi e corde fisse in parete, cominciarono a piovere le critiche. “Torna a casa tua, topo da palestra”, lo prese in giro un altro scalatore, da internet.

Lama prese molto sul serio queste critiche e si impegnò a fare la scalata in puro stile alpino. Gli ci vollero altri due anni, ma alla fine riuscì a liberare la Via del Compressore; l’impresa fece guadagnare a lui e al suo compagno, Peter Ortner, una menzione speciale ai Piolets d’Or. “David era un alpinista incredibile, ma era anche un bell’essere umano”, dice la fidanzata Hadley Hammer. “Era gentile, mi faceva ridere tutto il giorno e riusciva a farmi sentire come se fossi capace di qualsiasi cosa”.

Nel 2018, Lama ha realizzato il suo capolavoro: una scalata in solitaria del Lunag Ri, al confine tra Tibet e Nepal. Aveva già tentato la via due volte, nel 2015 e nel 2016, con Conrad Anker. Il secondo anno, a 6000 metri di quota, Anker ha avuto un infarto. Con l’aiuto di Lama, è riuscito a scendere al campo base, da dove è stato evacuato in elicottero. In seguito, Anker ha detto che non avrebbe più scalato in alta quota. “David mi ha salvato la vita”, mi ha detto. Nel 2018, Lama è tornato al Lunag Ri, per completarne la prima ascensione da solo in tre giorni.
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Qualche settimana dopo l’incidente sull’Howse, ho incontrato Benjamin Erdmann, 32 anni, che per molto tempo è stato compagno di cordata di Jess, ed era uno dei suoi amici più cari. Erdmann è un tipo cordiale e vivace che vive a Leavenworth, Washington, dove fa l’apicoltore e produce kombucha. Quando aveva 18 anni, suo padre tentò il suicidio ed Erdmann si dedicò all’arrampicata per superare il trauma. Per diversi anni, insieme a Jess, è stato uno degli alpinisti americani di punta, sponsorizzato da Adidas e Camp.

Come Jess, anche Erdmann ha lavorato in Alaska, nella regione del North Slope, come ispettore delle saldature. I due avrebbero poi fondato un’azienda di saldature e il fatto che i loro turni, i loro interessi e i loro stili di vita fossero coincidenti permise loro di viaggiare insieme, mettendosi in tasca numerose salite difficili in Alaska, Canada e Sud America. Poi, nel 2018, Erdmann ha smesso all’improvviso di arrampicare.

Due anni prima, avevano trascorso quasi un mese in Patagonia insieme ad un terzo amico, Scott Coldiron. Qui, avevano dovuto fare i conti col ritrovamento del corpo di Chad Kellogg, uno scalatore di Seattle molto stimato e rispettato. Nel 2014, Kellogg e il suo compagno Jens Holsten stavano scendendo lungo la Supercanaleta, una via dura sul Fitz Roy, quando la loro corda si bloccò su uno spuntone di roccia sopra di loro. Provarono a strattonarla e il pezzo di roccia si staccò via, precipitando verso il basso e colpendo Kellogg in pieno, sulla testa, uccidendolo all’istante. Holsten non poté fare altro che scendere.

La posizione precaria del corpo aveva impedito qualsiasi tentativo di recupero, fino al 2016, quando Jess, Erdmann e Coldiron stavano scendendo dalla Supercanaleta e vi si imbatterono. Erdmann fu il primo a raggiungere il corpo, che era cementato alla roccia dalla neve e dal ghiaccio. Tentò di intagliare via il ghiaccio colpendolo con la piccozza, ma continuava a centrare gli arti di quel cadavere, trapassandoli. Ci provò e riprovò, ma era una cosa raccapricciante, e divenne in breve troppo sconvolgente e rischioso per continuare.

Quando Jess ed Erdmann tornarono la stagione successiva, il ghiaccio si era sciolto e il corpo di Kellogg era caduto sul ghiacciaio. Ne raccolsero i resti e li seppellirono in una tomba di pietra.

“Dopo questo, non ce l’ho più fatta”, mi ha detto Erdmann. “Avevo iniziato ad arrampicare per aiutarmi a gestire un trauma, ma ora l’arrampicata mi causava dei nuovi traumi a sua volta. Ero come un eroinomane che si era rivolto al metadone per disintossicarsi, per diventare in seguito dipendente dal metadone”.

La parete est dell’Howse Peak

Non mi era nuovo questo linguaggio, il vocabolario della tossico-dipendenza, usato non solo nel mondo dell’alpinismo, ma anche tra molti praticanti di attività pericolose come il BASE jumping, il volo con le tute alari, lo sci estremo, il surf su onde giganti e così via. Mi meravigliavo di come tali attività avessero il potere di annullare, in un certo senso, il nostro istinto innato all’autoconservazione. Quanto si avesse bisogno di avvicinarsi alla morte – o volarci incontro, o sciarci sopra, o surfarla – era, per me, una questione di grande fascino, a cui non sapevo dare risposta.

In Walk the Line, un documentario sul tentativo di Anker e Lama sul Lunag Ri, si vede Anker sdraiato nella neve, debilitato dall’infarto, in attesa di essere evacuato. “Mi sono sempre chiesto quando avrei ricevuto il messaggio che era ora di abbandonare questo gioco”, dice rivolto alla telecamera. “E credo di averlo ricevuto”.

È un messaggio che in molti non riceveranno mai. Negli ultimi anni, abbiamo assistito a una serie di incidenti mortali tra scalatori di alto profilo: Justin Griffin, Kyle Dempster, Scott Adamson, Ueli Steck, Marc-André Leclerc, Ryan Johnson, Daniele Nardi, Tom Ballard, Hayden Kennedy, Inge Perkins, Kellogg, e Fiegl, per citarne alcuni.

Nel 2018, la North Face assunse Timothy Tate, uno psicoterapeuta di Bozeman, Montana, e amico di Anker, specializzato in programmi di elaborazione del lutto, per lavorare con atleti sopravvissuti o testimoni di incidenti mortali e magari colpiti dai sensi di colpa. L’iniziativa è stata in parte sollecitata dalle morti di Kennedy e Perkins nel 2017. La coppia stava facendo sci alpinismo nella Madison Range del Montana quando Perkins morì travolta da una valanga. Sconvolto e traumatizzato, Kennedy, che stava ancora soffrendo per la morte, avvenuta un anno prima, dei suoi cari amici Dempster e Griffin, tornò a casa, scrisse una lettera di commiato di 15 pagine e si tolse la vita.

“È stato devastante per tutti”, dice Anker. “Hayden si era trasferito da poco in città, e continuavo a pensare che se qualcuno fosse riuscito a parlargli, se non fosse stato solo, le cose sarebbero potute andare diversamente.

“Nella nostra comunità c’è questa sensazione di inevitabilità degli incidenti mortali; dopo, non ti resta che rimetterti in piedi e fare come i cowboy: non parlarne”, ha continuato. “Ma ora stiamo cercando di avere una comprensione migliore e più ampia della cosa”.

Un pomeriggio di fine maggio, sono andato a trovare Joyce e John nella loro residenza a poche miglia a nord di Spokane Valley. Vivono in una casa in stile Tudor all’interno di una proprietà di 80000 metri quadri, in posizione dominante sopra le rive di uno stagno, con splendide viste sul vicino Mount Spokane. Era una giornata primaverile luminosa e ventilata, il tipo di giornata che ti vorresti godere senza nessun pensiero in testa.

La famiglia aveva recuperato il telefono di Jess, su cui avevano trovato una manciata di foto della scalata. John, che molti anni prima aveva lavorato per il medico legale di Spokane analizzando le scene degli incidenti, aveva tirato fuori alcune immagini sul computer nel suo studio. Aveva usato i metadati sul telefono per tracciare il percorso degli scalatori, che era iniziato sulla M-16 prima di virare a sinistra per tracciare una nuova linea di uscita verso la cresta. Un’immagine dalla vetta, con i tre sorridenti a riempire tutta l’inquadratura, era stata scattata alle 12:43. “Dalla foto in vetta ho capito che Jess si stava sentendo davvero contento di se stesso”, ha continuato. “Voglio dire, era raggiante. Ho capito subito che si era sentito all’altezza”.

I ragazzi erano in discesa quando la valanga li ha colpiti. Un altro scalatore che si trovava in zona, ignaro che i tre fossero lassù, stava esplorando potenziali salite sull’Howse dalla strada. Ha riferito di aver visto una cornice crollare e schiantarsi lungo la parete verso le 2 del pomeriggio. Non sembra che abbiano fatto qualcosa per causare l’incidente. “In qualche modo, sono stati spazzati via”, ha detto John. “Questa è la mia impressione. Ma non si può sapere. Sono solo ipotesi”.

Ho chiesto se Jess fosse preoccupato di non riuscire a tenere il passo degli austriaci, data la loro forma fisica, la loro velocità e la dimestichezza che avevano con le grandi vie in solitaria.

“Me ne ha parlato e gli ho detto: ‘Ehi, guarda, Jess. Stai con loro. Portati meno attrezzatura, vai più leggero, ma non correre rischi. Se hai bisogno di una corda, o se ti senti più a tuo agio con una corda, legati. Non lasciare che ti spingano fino al punto da non sentirti più a tuo agio.'”

Qualunque problema Jess avesse dovuto affrontare da adolescente, con suo padre, per quanto riguardava l’arrampicata, erano in seguito riusciti in qualche modo a superarlo, e avevano sviluppato una unione preziosa. Si erano legati per molte scalate dopo l’Everest mentre Jess stava facendosi una vita da alpinista. “Chiamava sempre John per chiedere consigli sulle vie”, mi ha detto Alli. “Parlavano di continuo di queste cose”.

“Quando Jess era più giovane, non l’ho mai spinto”, ha detto John. “Non volevo davvero incoraggiarlo a diventare uno scalatore solo perché lo ero stato anch’io. La mia filosofia era che doveva trovare la sua strada”.
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Si sono presentate così tante persone alla cerimonia commemorativa, tenutasi in un grande teatro nel centro di Spokane, che gli organizzatori hanno dovuto indirizzare la folla in eccesso verso il salone da ricevimento di un hotel vicino, dove hanno trasmesso in streaming la cerimonia. Il palco era pieno di fiori e drappeggiato con bandiere di preghiera tibetane. Timothy Tate, il terapeuta dei lutti, era il cerimoniere. La sorella maggiore di Jess, Dawn, che vive a Reno, Nevada, ha cantato in duetto con Jordan “Landslide” dei Fleetwood Mac, e questo ha commosso molti dei presenti. Anker ci ha ricordato che la vita di Jess era fatta di umiltà e ironia. Alli ha raccontato con grande coraggio del troppo breve tempo passato insieme, concludendo con uno dei Jess-ismi preferiti: “Buona notte”, ha detto tra le lacrime, indicando Erdmann, che era seduto in prima fila e si era stretto le mani sul cuore. “E stanotte tieniti il buco del culo ben stretto!”

Ne è seguito un chiassoso ricevimento, che si è protratto fino a tarda notte.

I genitori di Auer e Lama avevano rilasciato dichiarazioni sui social media, sottolineando l’amore e la passione che entrambi i ragazzi avevano per l’alpinismo, ma si erano tenuti lontani dal contatto diretto con il pubblico.

La settimana dopo la commemorazione, Alli e io abbiamo pranzato al Flying Goat, una taverna a pochi isolati dalla casa di lei e Jess. Nel menu, i proprietari avevano rinominato uno dei piatti preferiti della coppia, una polpetta di pasta fritta con salsiccia, jalapeño e formaggio di capra, il Roskelley Dumpling.

Alli e Jess si sono conosciuti a un appuntamento al buio organizzato da Jordan nel 2013. Jess indossava una t-shirt e il suo solito cappello da baseball, e aveva preparato una degustazione di vini per Alli. “Wow, sei ancora più carina nella vita reale”, disse quando lei si sedette. A vent’anni, Alli aveva perso un precedente fidanzato in un incidente automobilistico, e capiva la brevità della vita umana. Lei e Jess si fidanzarono otto mesi dopo, e si sposarono nel 2015.

La linea nera ripercorre la caduta della valanga

Alli non ha un passato da alpinista: Jess l’ha guidata in questo. È forte e atletica, da bambina andava a cavallo, ed è un’esperta sciatrice. Ma scalare montagne ripide e selvagge era un nuovo tipo di esperienza. Si immerse in un programma di tre mesi con gli Spokane Mountaineers. “Ero diventata parte di questa famiglia di scalatori, e volevo essere in grado di parlare la stessa lingua”, ha detto.

Dopo pranzo abbiamo fatto un giro per la loro casa, un bungalow artigianale addossato a un masso in un quartiere verdeggiante a nord-ovest della città. Mugs, il bulldog, è venuto da me dimenandosi con così tanto entusiasmo che mi sono chiesto se pensasse che potessi essere qualcun altro. “Una cosa che devi sapere su Jess è quanto amava stare a casa”, ha detto Alli. Potevano volerci un paio di settimane per tornare alla routine di casa dopo un viaggio, e in quei giorni poteva essere distaccato e poco socievole, ma presto si sarebbe rimesso a fare lavori di tinteggiatura e la spesa da Costco. Avevano così tanti progetti: comprare un furgone, viaggiare, sistemarsi e mettere su famiglia.

Poi Alli mi ha accompagnato all’esterno, nel garage sul retro, dove Jess aveva da poco installato un Treadwall, un muro mobile con gli appigli di plastica, per fare allenamento. Lo spazio era pieno di attrezzi e indumenti. Mugs ci ha seguito e si è rannicchiato vicino alla porta. “Quello è il suo posto adesso”, ha detto Alli. “È sempre lì, ad aspettare Jess”.

La squadra di soccorso di Parks Canada le aveva raccontato qualche dettaglio in più su cosa credevano fosse successo sull’Howse. I ragazzi avevano fatto una caduta lunghissima, trascinati dalla valanga. Avevano trovato una corda, sfilacciata e quasi spezzata a metà. “Spero che sia stato veloce”, ha detto Alli. “Che non siano stati per lungo tempo sepolti sotto la neve, a soffrire. Mi tengo stretto il pensiero che Jess abbia avuto giusto il tempo di alzare lo sguardo e pensare, ‘Oh, cazzo!’, e che sia finita lì”.

Le ho chiesto se avessero mai parlato dei rischi impliciti nel lavoro di Jess.

“Oh sì, ne abbiamo parlato”, ha detto. “Ero consapevole fin dall’inizio. Ho accettato pienamente la possibilità che ciò potesse accadere. Ma non ci si può davvero preparare. Hai sempre la convinzione che a te non accadrà”.

Quel pomeriggio, mentre tornavo a casa di mio padre, mi fermai alla piccola falesia dove avevo imparato ad arrampicare con i Mountaineers più di due decenni prima. Non c’era nessuno in giro. La ricordavo come un luogo incontaminato, ma ora sembrava in grande decadenza, c’erano graffiti sulle rocce e bottiglie rotte tra le erbacce.

Avevo il cuore spezzato, per i Roskelley e per i loro amici. Non ho mai conosciuto Jess, ma sapevo che il dolore di tutti coloro che lo avevano conosciuto era stato forte, e che non dava tregua: quelle ultime settimane mi avevano lasciato un senso di grande turbamento. Camminai fino alla base della paretina dove avevo lottato per portare a termine la mia prima scalata, una via breve e semplice chiamata Open Book. Ci avevo trascorso molte ore, in quel posto, ma quella particolare via l’avevo scalata solo una volta, da principiante, quando mi era parsa terrificante e incredibilmente difficile, anche con la corda dall’alto.

Non sono mai stato un granché come arrampicatore. Il mio grado di tolleranza per l’esposizione e per il rischio è sempre stato basso, soprattutto rispetto a chi questo sport lo prende sul serio. Ma ho sempre amato la montagna e ho fatto escursionismo, scalato e sciato in tutto il mondo. Tutte avventure di livello relativamente basso, anche se mi sono trovato a venir fuori in modo fortunato da almeno un paio di situazioni molto rischiose. Adesso mi colpisce il fatto che per renderti conto veramente di quanta fortuna hai avuto, dovresti poter arrivare al punto in cui la fortuna finisce.

Qualche istante dopo essere arrivato lì, stavo arrampicandomi su Open Book con le scarpe da corsa. Non era difficile, ma neanche troppo facile. Non era il caso di cadere. Dopo circa dieci minuti ero seduto in cima, a una quindicina di metri da terra, col cuore che batteva forte, tirando il fiato, le gambe che penzolavano dal bordo. Era stata un’idea stupida, ma era andata, e a guardarla in retrospettiva non era stata molto più che una scarpinata in verticale. Tornai alla macchina e partii a tutta velocità, entrambe le mani sul volante, ancora pieno di adrenalina. Non ricordavo che il cielo, da quelle parti, fosse mai stato così azzurro, o che l’aria fosse così limpida e così profumata di resina. Passai davanti alla casa di mio padre, senza fermarmi. Per un altro po’ continuai a guidare.

La ricostruzione dell’accaduto secondo John Rosskelley
a cura della Redazione di Mountain Blog Italia
(pubblicato su mountainblog.it il 27 settembre 2019)

La morte di Jess Rosskelley, David Lama e Hansjörg Auer sull’Howse Peak in Canada ha scioccato la comunità alpinistica mondiale. È successo il 16 aprile 2019, e il padre di uno di loro, il noto alpinista americano John Roskelley (nel 1978 primo salitore della cresta nord-est del K2, assieme a Louis Reichardt, Jim Wickwire e Rick Ridgeway, durante la terza ascensione assoluta della montagna, NdR) ha indagato a fondo su ciò che è accaduto (ritornando diverse volte nella zona e recuperando il materiale per analizzarlo) e ha reso nota la via che i tre alpinisti salirono prima di morire.

John Roskelley ha condiviso le sue conclusioni al Ladek Mountain Festival, in Polonia.

“Stasera sono un narratore”, ha detto John, “un biografo di ciò che Hansjörg, David e Jess hanno realizzato sull’Howse Peak lo scorso aprile. Non ero lì durante la loro scalata o il loro incidente, ma sono stato lì per diversi giorni, dopo. ”

Come ha spiegato, le informazioni per ricostruire l’itinerario che hanno seguito i tre alpinisti sono state ricavate dai loro telefoni cellulari, che hanno registrato gli orari, l’altezza, la longitudine e la latitudine, nonché dalle fotografie che hanno scattato. Successivamente, i dati di longitudine e latitudine sono stati inseriti su Google Earth, dove è stato tracciato il percorso esatto che i tre hanno seguito lungo la parete.

L’enorme Nord-est dell’Howse Peak aveva precedentemente attirato diverse cordate di alto livello. Nomi come quelli di Will Gadd, Steve House o Barry Blanchard hanno firmato le poche salite registrate su una parete che colpisce per la sua grandezza e spaventa per i potenziali rischi che presenta.

La prima via tracciata sulla Nord-est risale al 1999. Dave Edgar e Dave Marra scalarono Life by a drop (Alaska VI, WI5 + R), senza arrivare in cima. Nello stesso inverno, Barry Blanchard, Steve House e Scott Backes realizzarono la prima salita completa della Nord-est con M-16 (1.000 m, WI7+), dopo tre giorni in parete. Il quarto giorno, Blanchard fu evacuato in elicottero per una ferita causata da un distacco. Nel 2002, Will Gadd, Scott Semple e Kevin Mahoney aprirono Howse of Cards (Alaska VI, M7, WI6X). Nessuna delle due vie è stata più ripetuta da allora.

Percorsi da sinistra a destra: Blu – Life by the Drop (Edgar-Marral, 1999); Rosso – Auer-Lama-Roskelley, variante di M-16 (2019); Giallo – M16 (Backes-Blanchard-House, 1999); Fucsia – Howse of Cards (Gadd-Mahoney-Semple, 2002); Verde – Northeast Buttress (Ken Baker, Don Vockeroth e Lloyd MacKay, 1967).

Secondo il racconto di John Roskelley, in base ad una foto e al luogo in cui è stata scattata, si stima che suo figlio e i due austriaci abbiano lasciato il campo alle 5:30 del mattino e iniziato i primi tiri della via M-16 verso le 7. Alle 8 erano già a metà della sezione di massima difficoltà, con tratti – stimati dalle fotografie di David Lama – di WI6 o WI7. Le foto, scattate al mattino alle 7.35, 7.46, 8.05 e 8.36, mostrano chiaramente i tre alpinisti che fanno una traversata da destra a sinistra, dalla cima del tiro WI 6 sulla M-16. Da qui, si diressero verso un nuovo terreno, verso la metà superiore della “King Line”.

I tre alpinisti hanno raggiunto la vetta prima delle 13, come emerge dal selfie scattato in cima. In totale, hanno impiegato 6 ore e 43 minuti per salire la nuova variante della via di 1345 metri sulla Nord-est.

John Roskelley al Ladek Mountain Festival, Polonia. Foto: Lucyna Lewandowska.

Meno chiaro è ciò che è accaduto durante la discesa. Secondo quanto riferito dall’alpinista Quentin Roberts, che stava scalando nella valle, un grande cornicione crollò nella zona in cui Jess Roskelley, David Lama e Hansjörg Auer si trovavano in quel momento. L’ultima fotografia scattata da David Lama risale alle 13.27; Quentin Roberts segnala il crollo verso le 14.

I corpi di Jess, David e Hansjörg sono stati trovati molto vicini tra loro, sepolti sotto uno strato di neve poco profondo, 90 centimetri nel suo punto più profondo.

“È difficile dire cosa sia successo”, afferma John Roskelley. “La verità è che non lo sappiamo. Esistono dei buchi, ma l’evidenza suggerisce due opzioni. “

La prima è che siano stati spazzati via dal cornicione crollato. La combinazione dei tempi e dei dettagli della foto di Roberts, la posizione dei corpi porta John a credere che questo sia lo scenario più probabile. Ma una seconda possibilità è l’errore umano. “I nodi nella corda e lo stato dell’attrezzatura trovata con loro, sono difficili da spiegare”, dice John “Ci sto ancora lavorando …”

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La tragedia dell’Howse Peak ultima modifica: 2024-09-26T05:32:00+02:00 da GognaBlog

17 pensieri su “La tragedia dell’Howse Peak”

  1. Caro Ottone, ti ringrazio di questa perla, me l’ero persa e devo dire davvero esilarante 😀
    Per quanto riguarda il commento del Nostro, non so che dire: mai una volta che si smentisca, le solite banalità – “chiamami che ce la vediamo fra uomini veri, non anonimi!” – condite da slogan germanici dove riesce a sbagliare perfino la sillabazione di uno dei due lemmi che doveva riportare. Mi chiedo: ma non è previsto uno sbarramento scolastico-intellettivo all’esame di ammissione delle Stelle Alpine? Forse grazie a quello i vari Caminetti non popolerebbero più i blog, sentendosi legittimati dalla patacca a renderci partecipi dei loro “pensieri”. 

  2. Caro Gelido, porta pazienza, ognuno si crea il suo palcoscenico dove cercare qualche gratificazione. Caminetti in effetti è quasi sempre il primo ad aprire le danze, si vede che sta incollato al video in attesa di nuovi articoli. Comunque se vuoi farti due (anche tre) risate leggiti questo, è sempre opera del nostro.https://gognablog.sherpa-gate.com/il-volo-dello-stornello/
     

  3. Caro Gelido, già dal nome tremo.
    Mi vien da dirti che meglio “piaga intellettiva” che coglionazzo anonimo.
    Se pensi di dovermi dire qualcosa d’importante, telefonami, il mio numero è nel mio sito. Diversamente, come dicono dove sono nato: ci cresci come l’acqua nel vino. Edelweiss for ever.

  4. Ogni volta che apro un articolo del Gogna mi ritrovo immancabilmente qualche banalità della stella alpina Caminetti: ma non si può fare qualcosa per questa piaga intellettiva che tedia la sezione commenti?

  5. Palmasco, purtroppo bisogna usare i tasti come una volta.
    Per una faccina sorridente ( 😀 ) devi digitare il carattere “:” seguito da “D” (senza spazi vuoti fra i due).

  6. P.S. gli interrogativi dopo l’esclamativo sono un errore, io avevo messo una faccia sorridente, tradotta invece in pesanti interrogativi. Mi dispiace moltissimo 

  7. …Quando Jess ed Erdmann tornarono la stagione successiva, il ghiaccio si era sciolto e il corpo di Kellogg era caduto sul ghiacciaio. Ne raccolsero i resti e li seppellirono in una tomba di pietra…
     
    In verità non è andata proprio così. Il corpo di Kellogg rimase appeso alla sosta dove morì per almeno 2 anni. Ci fu anche qualche tentativo di recupero da parte della locale squadra di soccorso ma la cosa era maledettamente complessa e rischiosa che venne lasciata perdere. Il corpo infine cadde lungo la Supercanaleta e venne rinvenuto decapitato dagli italiani Nicola Lanzetta e Giacomo Deiana nell’estate australe del 2016.
    Se ne racconta nel video (al min. 11.40) di Lanzetta “Patagonia, indietro non si torna” di cui consiglio vivamente la visione . Ecco il link https://www.youtube.com/watch?v=TCitcfCJPlY&t=221s
     
    Comunque in quegli anni ci incontrammo spesso con Ben Herdmann, una vera forza della natura, e nel 2014 le nostre strade si riincrociarono sulla ovest del Cerro Torre dove ci disse che per salire aveva un’arma segreta: Jess Rossekelley!

  8. Secco, lucido, focalizzato. Un pugno che ti arriva diretto nello stomaco. Pieno di emozioni, controllate in modo adulto e maturo, con pudore. Lacrime e dolore interiore vissuto con profondità ma non esibito. Niente retorica, melodramma, prediche. Grancassa che suona e colori forti. Butta lì alcuni temi chiave: la dipendenza dal rischio, la consapevolezza dell’elevata probabilità dell’inciddente, le problematiche collegate alle storie di vita personali, il ruolo dell’ambiente sociale e familiare, i meccanismi di difesa dall’ansia, il vuoto lasciato dietro di se’ nei propri cari. Macigni di granito, accennati come spunti per il lettore su cui riflettere. Nessun tentativo di fare la morale e di educare, lecturing come dicono gli americani. Caro lettore io te la butto lì , a te andare avanti se ti interessa. Un esempio di come si può fare buon giornalismo anche su temi molto sensibili e un esempio di una tradizione che purtroppo da noi non ha una gran presa sul pubblico, più esposto alla retorica e all’esibizione emotiva. 

  9. @ 3 CominettiQuanto a David Lama e ai suoi sventurati compagni , è meglio vivere un giorno da leonen o cent’anni da pecoronen , o qualcosa di barzotto fra i due estremi ?.Secondo me Villaggio era un genio , e Fantozzi con la sua satira feroce , è uno dei personaggi comici che amo di più.

  10. Crovella l’avrei visto come ottimo interprete del mega direttore che castiga il povero ragioner Fantozzi.

  11. Ciao Cominetti, le inesattezze dell’articolo riguardano le vicende in Patagonia? 

  12. Anche a me Fantozzi fa ridere ma dietro la risata c’è una realtà che tanto ridere non fa. E comunque il mio voleva essere un riferimento alla vita routinaria di molti di noi, senza nulla condannare ma semmai ponendo l’accento su stili e scelte di vita, tutte discutibili. Infatti qui spesso se ne discute.

  13. Mah…a me Fantozzi ha fatto molto ridere, anche a pensare quanto volte sono stato fantozziano…

  14. Articolo molto bello nonostante tocchi temi drammatici.
    Ci fa ricordare che la vita è la meteora che ognuno si sceglie di trascorrere sulla terra e non un rigido schema reso sterile da rigidi pensieri che si credono come gli unici percorribili.
    D’altronde è Bonatti che ci fa sognare, mentre Fantozzi può al limite farci venire qualche incubo.
    E tutto ha un prezzo.
    Nonostante l’enorme interesse, l’articolo contiene delle inesattezze, ma ciò non ne compromette la validità.

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