Presentazione
di Franco Ribetti
(Scandere 1984)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(3)
Siamo nel 1983: in Italia scoppia la moda del computer. Non del calcolatore classico che ormai tutte le aziende usano, ma del «giocattolo» per controllare il bilancio familiare, per divertire i ragazzi.
Tutto è stabilito, inquadrato, catalogato, descritto, eppure, volendo e sapendo guardarsi attorno, è ancora possibile trovare la grande avventura, quella dei primi esploratori per intenderci. E qualcuno la cerca, la vuole, la trova. In silenzio, pochissimi amici sanno qualcosa, i giornali non ne parlano. Eppure quella di Robert Peroni, Pepi Schrott e Wolfgang Thomaseth è una delle più grosse imprese tentate e riuscite nelle regioni polari.
Si parla a dismisura di un altro tentativo, sempre dalle parti del Polo, ma di ben altro genere con budget da capogiro, collegamento con il satellite, mezzi aerei di soccorso pronti, a intervenire e… polemiche poi a non finire (Ribetti qui si riferisce alla spedizione solitaria di Ambrogio Fogar con il cane Armaduk, 1982, NdR).
Certo per giudicare e sparare sentenze bisogna esserci dentro o almeno essere capaci di far meglio, ma salta subito all’occhio la differenza di trattamento fra due imprese neppure paragonabili tra loro, visto lo svolgimento dei «fatti». Con questo non è assolutamente mia intenzione esprimere un giudizio, ma voglio solamente evidenziare come forse il «nome» di un personaggio e gli interessi commerciali abbiano facilmente il sopravvento su imprese che invece meriterebbero maggior attenzione. Ma ritorniamo al computer. Mentre qui le aziende del settore incrociano le armi per il predominio del mercato, tre giovani il 15 maggio lasciano Bolzano e, dopo un campo di allenamento durato quasi un mese, il 17 giugno partono dalla costa orientale della Groenlandia del nord, circa al 75° parallelo, per tentare la traversata di questi 1.400 km di ghiaccio. È un’avventura mai tentata, nessuno la pensava possibile. Pazzesca poi nella maniera in cui è stata attuata. Così l’ha definita il nostro ambasciatore a Copenaghen, quando l’ho incontrato all’aeroporto, anch’io in partenza per la Groenlandia, con compiti molto più semplici, anche se molto meno piacevoli.
Infatti la mini spedizione ha scelto di non avere contatti radio, di non usare cani, ed eventualmente di non tornare sui propri passi perché il luogo di partenza è disabitato. Per ottenere dal governo danese il permesso di tentare l’impresa, rilasciano una dichiarazione scritta nella quale rinunciano ad ogni forma di soccorso o di ricerca. In caso non fossero arrivati alla costa occidentale entro il mese di settembre dovevano essere considerati morti.
Ma non sono dei pazzi, certo l’impresa è rischiosa, ma sono preparati. Robert, con il quale mi sono incontrato a Sondre-stromfjord, mi diceva che l’«idea» era nata una decina di anni prima. Tutti hanno studiato, preparato, controllato per non lasciare nulla al caso. Addirittura si sono costruiti un tunnel del vento e una camera del freddo per provare il materiale.
Slitte, piccozze, ramponi, attacchi, sci, palerie delle tende, fornellini, ecc. sono tutti in titanio; l’alimentazione è studiata appositamente ed è leggerissima; gli indumenti tutti in fibre naturali: lana, cotone, piumino.
L’intero equipaggiamento è progettato e disegnato dagli stessi componenti della spedizione. Malgrado tutto questo ogni slitta pesa 135 kg e bisogna trainarla in salita fino a 3.000 metri, in mezzo ai crepacci, sulle «onde» di neve formate dal vento, sulla neve fonda. È uno sforzo immane che dura tre mesi. L’11 settembre la spedizione raggiunge la costa ovest. È fatta.
Per chi ama le statistiche propongo alcuni dati che parlano chiaro e inquadrano l’impresa di Robert e compagni. I dati si riferiscono a spedizioni che non hanno fatto uso di cani, cavalli, snowcat, elicotteri, aeroplani:
1888 – Fridtjof Nansen attraversa la Groenlandia meridionale da est a ovest, km 350.
1950-1983 – Circa 20 ripetizioni della traversata di Nansen con varie modifiche che portano il percorso a 500 km.
1981 – Spedizione finlandese attraversa Ellesmere Island, 600 km.
La traversata della Groenlandia
di Robert Peroni
(pubblicato su Scandere 1984)
Mi trovo a quota 1.100 metri e da alcuni giorni mi rendo conto di avere paura per ogni cosa. Dentro di me sono molto stupito di questo fenomeno e per dare una spiegazione a tutto ciò cerco di capirmi, di osservarmi, di scrutarmi; devo riuscire a spezzare questo collare di acciaio perché ormai sta per soffocarmi. È come un incubo: mi sveglio tutto sudato, esco dal mio sacco a pelo e guardo il sole, sono le tre del mattino. Cerco di ricordare l’incubo: mi vedo barcollare nel nulla, come in una nebbia fitta dove non si intravvede l’orizzonte. Sarà mica il temuto white out, descritto con orrore dalle ultime spedizioni polari? Mi guardo attorno, cerco di vedere l’orizzonte e capisco che anche noi entro pochi giorni saremo fuori vista delle rocce e non avremo più alcun punto di riferimento.
Chissà se sarà efficiente il sistema di orientamento che abbiamo «inventato» e sperimentato sulle montagne di casa nostra? Certamente non mi aiuta molto pensare a tutte queste cose, devo riuscire a soffocare i miei pensieri, per vivere momento per momento, lavorando, sudando, camminando… I problemi vanno risolti giorno per giorno, nel momento che ti succedono.
Il sole è forte per cui in pochi minuti la neve si scioglie dentro la pentola, facciamo colazione e ripartiamo. La neve è crostosa, ventata, la slitta scivola bene; a nord ci accompagna il massiccio Dronning Luise. A un tratto, per una piccola disattenzione, scivolo e rimango appeso con il braccio sinistro all’orlo di un crepaccio, guardo meravigliato il vuoto apocalittico in cui sto penzolando: mi sembra una cattedrale cosparsa di migliaia di stalattiti esagonali tutte di ghiaccio oppure una composizione surreale di fiori. Subito i miei compagni mi aiutano a risalire.
Oggi, per la prima volta, piantiamo la tenda. Siamo in cammino da ormai 14 giorni e finora abbiamo dormito, nelle poche ore che ci siamo concessi, nel sacco a pelo buttato sulla slitta. In queste due settimane di cammino abbiamo percorso soltanto 22 km, però abbiamo superato, anche se con un po’ di difficoltà, la zona seraccata iniziale; in pratica abbiamo camminato per ben 300 km, raggiungendo, con tappe giornaliere di oltre diciotto ore di duro lavoro, il limite orientale del Plateau. Ormai abbiamo stabilito un piano di vita-lavoro giornaliero: sveglia, sciogliere la neve per la colazione, uscire dalla tenda, liberare le slitte dalla neve ventata, piegare la tenda, chiudere le slitte, allacciare l’imbragatura, stabilire la rotta esatta di salita. Si parte, ogni tre ore ci fermiamo dieci minuti per bere e mangiare qualcosa.
Alla fine dell’ultima tappa siamo quasi sempre allo stremo delle nostre forze, quando mi chino per slacciare i lacci dell’attacco allo sci, mi devo tenere aggrappato alla slitta, sono talmente stanco che per un attimo perdo conoscenza. Subito dopo fissiamo la tenda a cupola nella neve con dei tubi di un metro di lunghezza; mettiamo a sciogliere nella pentola della neve e il poco calore che sprigiona ci pare molto gradevole.
È l’ora della cena, accovacciati nei sacchi a pelo, attorno alla pentola, gustiamo un pasto caldo e saporito; e proprio l’alimentazione è stata un punto fondamentale della nostra impresa.
Per nostra scelta abbiamo deciso di essere soli, senza contatti con il mondo, e infatti con noi non abbiamo la radio rice-trasmittente. Dal momento in cui l’elicottero ci ha portati a destinazione, siamo rimasti soli, senza alcuna possibilità di ritornare indietro. Un ritorno impossibile e impossibilitato dai fiordi aperti, dai ghiacciai, dai crepacci, dalle pareti a strapiombo disseminati su un percorso di oltre 500 km. Le slitte dovevano contenere tutto l’equipaggiamento necessario per la traversata, per una distanza teorica di oltre mille chilometri passando attraverso l’altipiano sconosciuto della Groenlandia del nord. L’alimentazione classica non faceva al caso nostro, sia per la difficoltà di preparazione che di digestione; la nostra alimentazione è suddivisa in due parti, entrambe liquide. La prima è una dieta chimica chiamata «formula diet», una polvere che va sciolta nell’acqua e contiene tutte le parti nutritive, in forma molecolare, a lunghezza di catena non oltre C-12.
In pratica questa sostanza può entrare nel sistema sanguigno, senza alcun processo digestivo. La seconda parte della nostra alimentazione è una dieta formata da sostanze liofilizzate, a cottura e preparazione istantanea: una dieta ad alto livello nutritivo e facilmente digeribile, preparata con noi in Italia dalla ditta New Food Industry Bio Sidam. Il pasto riempie completamente lo stomaco, ma la voglia di mangiare non scompare mai. Con il sacco a pelo socchiuso cerco di concentrarmi un’ultima volta in questa lunga giornata: devo fare i calcoli sulla nostra posizione e le note tecniche della strada che percorreremo domani, ma il freddo mi gela le dita e per di più ho anche poca voglia di scrivere. Scrivo due o tre righe indispensabili e seguo i miei compagni che già stanno dormendo.
Il sole è tramontato, il vento soffia fortissimo, la neve che viene sollevata dal vento bombarda la tenda. La bufera non ci lascia dormire, sono già le due del mattino. Qualcuno si deve alzare per liberare la tenda dalla morsa della neve ventata, ma chi? Non c’è più speranza di poter prendere sonno: il vento ha raggiunto la velocità di oltre 90 km all’ora con punte fino ai 110. Con questo tempo non possiamo andare avanti, rimaniamo in tenda; ognuno di noi ha dei compiti ben precisi: fuori a spalare la neve, dormire, preparare l’acqua per i pasti. lo mi dedico con passione a controllare la nostra rotta, a fare calcoli e disegni sul Plotting sheet (una carta teorica in scala); i nostri calcoli iniziali si rivelano esatti. Avevamo calcolato 1.500 km da costa a costa, da percorrere in 120 giorni, 14 dei quali destinati all’attraversamento della zona seraccata iniziale, e altri 14 giorni per raggiungere la quota massima di circa 2.500 metri; mentre 50-60 giorni per arrivare alla fascia dei seracchi sulla costa occidentale. Due o tre settimane erano necessarie per raggiungere il mare e un villaggio vicino, e nel caso che questo villaggio si trovasse troppo distante, avremmo aspettato l’inverno e il Pack per raggiungerne un altro, via mare.
Continua a nevicare dolcemente, e appena siamo convinti che la violenza della bufera è diminuita, facciamo i preparativi per proseguire; il vento soffia ancora a 70 km/h da nord-ovest, nevica poco e anche se il sole è visibile siamo avvolti da una atmosfera stranissima. Intorno a noi tutto è bianco, sembra quasi irreale.
Da 32 giorni siamo sugli sci e in 14 abbiamo superato la zona seraccata; oggi è martedì 19 luglio e ci troviamo a quota 2.470 metri, dobbiamo coprire una distanza di 12.794 metri, il vento è stabile e soffia a 45-50 km all’ora da nord-ovest. Il cielo è aperto un po’ velato, nevischia e la temperatura è di -22°. Di giorno in giorno guadagniamo tra i 50 e i 100 metri di altitudine, il terreno è piatto e di conseguenza molta è la fatica. Trascorriamo una notte molto tranquilla, e dormiamo per sei-sette ore. Al risveglio troviamo la neve meno profonda, più facile da solcare: le coste ventate sono alte solo 30-40 centimetri e sono distanti l’una dall’altra almeno dieci metri. La vista è buona, peccato che ci sia il peso disumano delle slitte, 140 kg alla partenza e oggi pochi meno (diminuisce il cibo, ma aumenta la neve e il ghiaccio nella slitta). Ma in fondo è stato proprio questo che mi ha spinto a intraprendere questo folle viaggio: essere autonomo, fuori dalla vita sociale.
Giorno dopo giorno, passo dopo passo tracciamo l’altipiano che nessuno aveva toccato prima di noi. Non ci penso troppo perché un altro problema mi irrita: da almeno una o due settimane il terreno dovrebbe perdere di quota ma ci troviamo ancora quasi a tremila metri; la tensione nervosa dei miei compagni incomincia a contagiarmi. Chissà se il sistema dell’astronavigazione funziona? Sono giusti i nostri calcoli? O c’è sotto qualche cosa in tutte quelle frasi da parte dei geografi che ho sentito prima della partenza? Non sappiamo niente di sicuro sulle situazioni magnetico-terrestri della zona ma il vento e il sole velato non mi lasciano eseguire, da ormai ben due settimane, alcun calcolo con il sestante. Il tempo peggiora, da ore lottiamo metro dopo metro contro il vento e la nebbia che è fittissima. Barcollo: ci fermiamo perché ormai proseguire sarebbe solo più uno spreco insensato delle nostre forze, comunque già allo stremo. Il vento non perdona, soffia oltre i 100 km/h; appena la tenda è in piedi ci rifugiamo dentro. Il sonno è continuamente interrotto dalle raffiche, spaliamo neve, il vento non ci dà tregua. Continua a nevicare: ormai sono 28 ore di tormenta, ci sentiamo stanchi, molto stanchi; la neve fresca si aggira sul metro di altezza, e il vento ha fatto il proprio lavoro molto bene: dune di neve alte fino a due metri.
Senza scambiarci una parola prepariamo le slitte, nessuno guarda in faccia gli altri, siamo stanchi, senza speranza di uscire da questo mare di neve.
Entro pochi minuti il sole dovrebbe sorgere; preparo in fretta il sestante, mezzo minuto, attimi: la posizione è nostra. Questi pochi istanti di disattenzione mi hanno procurato un assideramento al naso, niente di grave: avrei dato ben di più per riuscire a determinare la posizione. Siamo tutti e tre molto tesi e non vediamo l’ora che arrivi la sera per rifugiarci nella tenda e fare i calcoli. Ci pare incredibile ma la supposizione era giusta, più che esatta: ci troviamo al 49° grado di longitudine. Prepariamo le vele, ci aspettiamo vento propizio nei prossimi giorni e forse le vele ci aiuteranno a guadagnare terreno.
Oggi siamo sicuri che stiamo perdendo quota, l’altimetro ci rassicura. Passiamo giorni d’ansia: dove e a quale latitudine troveremo il mare? Basteranno le provviste? Troveremo qualche foca da cacciare in caso di necessità? Come saranno i primi uomini che incontreremo?
In base al più recente calcolo con il sestante ci dovremmo trovare all’incirca a cento km dal mare e a circa 20 km a sud dal nostro punto teorico d’arrivo. Correggo il percorso stabilito.
Seduto sulla slitta preparo il mio pasto e bevendo mi accorgo che all’orizzonte ci sono nuvole a cumulo. «Ehi, Wolfi, guarda quelle nuvole, presto troveremo il mare, vedrai!» «No, sono delle montagne, vedo delle rocce!» Pepi lo dice quasi senza fiato. È vero. Terra!
Sono passati tre giorni e sono stati molto lunghi, sempre davanti a noi le rocce, il mare, il fiordo. È sicuro! Siamo arrivati al fiordo Nuussuaq.
Le slitte ci sorpassano, sul ghiaccio poco crepacciato, prendono velocità. Stabiliamo di lasciare le slitte in riva al mare e noi, con degli zaini poco pesanti, cerchiamo di raggiungere il paese attraverso la penisola montuosa, lunga circa 40 km. Ma la cartina segna una seconda penisola lunga appena 20 km, più facile da percorrere e dove si trova il paesino di Igdlulik. Ci incamminiamo, i viveri sono sufficienti, anzi abbondano di almeno due o tre giorni, i piedi sono quasi incapaci di muovere un passo sicuro sulle rocce: è grave, ma l’arrivo è vicinissimo. Solo tre giorni di roccia; non sentiamo più i piedi. Siamo arrivati! Ma subito torniamo indietro, scappiamo, non c’è paese. Increduli fissiamo con gli occhi sbarrati il piccolo fiordo, sulla cartina indica ci dovrebbe essere un paese. Niente! Due capanne rudimentali semidistrutte ci fanno beffa. E riattraversare a piedi la penisola per raggiungere il vero paese Nuussuaq? I viveri non basterebbero. Morire qui al mare? All’ultimo momento, dopo tutto quello che abbiamo superato? Costruiamo una zattera e via mare cerchiamo di raggiungere il paese Nuussuaq. Ci cibiamo di alghe prese dal mare, la zattera prende forma. Salpiamo ma la nebbia è fitta è ben presto ci perdiamo. Ma dopo 18 ore che remiamo, con a bordo una foca, si intravede fra la nebbia un isolotto. Ancora un giorno ai remi ma con lo stomaco ben pieno di carne di foca. E arriviamo al lato nord della penisola Nuussuaq. Lasciamo la zattera e attraversiamo in meno di 8 ore le montagne e non crediamo ai nostri sensi: siamo tornati a casa!
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Ho letto i primi due libri, Dove il vento urla più forte e I colori del ghiaccio, ora sto leggendo In quei giorni di tempesta. Grande ammirazione per Robert e grande voglia di andare in Groenlandia e passare un po’ di tempo nella Casa Rossa…ma temo che resterà un sogno nel cassetto. ❤️
Recentemente ho letto uno dietro l’altro i tre libri scritti da Robert Peroni. Un uomo intelligente, rispettoso della natura e degli uomini. Impossibile non innamorarsi di lui, degli Inuit e della Groenlandia dove ritornerò sperando di poterlo incontrare di persona.
Per fortuna che quelli bravi ci sono, pochi e silenziosi, ma ogni tanto appaiono!
Robert Peroni è una delle persone con cui ho passato alcuni degli istanti più intensi della mia esistenza. Ed è un genio di intelletto e modestia.