La valle sublime
(scritto nel 1996)
Il notevole complesso architettonico del Palazzo Crotta-De Manzoni, dominato dalle grandiose Pale di San Lucano, è una delle più singolari attrattive per il visitatore di Àgordo. La costruzione della grandiosa villa sembra risalire al XV o XVI secolo, ad opera delle facoltose famiglie dei Pietriboni e Paragatta. In seguito, Francesco Crotta, figlio di mercanti lombardi, acquistò dalle famiglie suddette anche i diritti di sfruttamento delle miniere di Val Imperina, diventando ben presto ricco e potente. I suoi figli, Giuseppe e Giovanni Antonio, furono ammessi al Consiglio dei Nobili. Giuseppe Crotta era un signorotto feroce e temuto e fece assassinare il fratello da sicari. Questo episodio non fermò l’ascesa dei Crotta che, proprio a metà del XVII secolo, fecero cospicui lavori di ampliamento e abbellimento del parco del palazzo, con statue in pietra di Cencenighe. Del XVIII secolo sono invece l’ultima ala della villa, verso la piazza di Àgordo, ornata con statue di personaggi mitologici, chiamati familiarmente i “Pop” oppure i “Mut del Crota” (“muti del Crotta”). Nel 1813 un’altra ricca famiglia acquistò il palazzo: i De Manzoni apportarono altri abbellimenti e tra questi fu costruita l’elegante loggetta in fondo al parco-giardino, chiamata popolarmente la “Pica”, perché proprio là gli austriaci avevano eretto la forca per spegnere nel sangue i moti indipendentisti, cominciati già nel 1797 e proseguiti fino al 1866. Ora, impassibili, i “Pop” guardano il traffico quotidiano della piazza.
Ma lo sguardo, prima del cielo, incontra i giganti della Pale di San Lucano.
Camminare a piedi da Taibòn a Col di Pra lungo la Valle di San Lucano è una passeggiata ai piedi di quei giganti. La gente dice che è “romantico” farla con la propria ragazza oppure in solitaria meditazione. E in effetti sono proprio stati gli artisti e gli scrittori del Romanticismo a valorizzare questo tipo di attività fisica, prima riservato alla vita quotidiana dei contadini e dei montanari. Eppure, nel silenzio e nella solitudine dei boschi, i romantici cercavano ben altro. Per i romantici queste lunghe e faticose camminate erano preparatorie: in de Saussure possiamo ancora vedere l’uomo del ‘700, illuminista, classicista. Un esploratore del pittoresco che si preparava, senza saperlo, a vivere l’esperienza della sua vita, quella del sublime.
Quando il 2 agosto 1787 raggiunse finalmente la vetta del Monte Bianco, egli finalmente comprese, “come in un sogno”, le strutture, i rapporti, le pieghe d’un paesaggio che anni di lavoro non erano riusciti a capire in profondità. Il paesaggio dalla vetta del Monte Bianco non aveva più nulla da spartire con quello di Albrecht von Haller; e quando de Saussure fu costretto a bivaccare sul ghiacciaio, scosso dal terrore, gli sembrò “d’essere l’unico sopravvissuto all’universo che in quel momento, come un cadavere, gli era steso ai piedi”. Lo sconvolgimento illuminante di quella visione gli fece in seguito riconoscere che “per tristi che siano idee di quel genere esercitano su di noi un’attrazione alla quale con fatica si resiste”. Fu lui dunque il primo alpinista romantico: fu lui che trovò, nella grandiosità della montagna e nel sublime di certe esperienze, una propria coscienza dilaniata tra la dispersione nell’infinito e l’autoaffermazione ostinata.
“Godevo di una tale salute che mi sentivo disposto ad intraprendere con successo qualunque cosa io volessi o dovessi fare; solo mi era rimasta una certa irritabilità nervosa che disturbava quest’armonia di funzioni… Salii da solo fin sopra la più alta torre della cattedrale e mi fermai sotto la corona dell’ultima cupola, e là stetti circa un quarto d’ora prima ch’io avessi il coraggio di uscir fuori sulla piattaforma che è larga poco più di una tesa, e dove aggrappandomi potevo contemplare il paese sterminato che mi si stendeva dinanzi. Pareva di trovarsi in un pallone volante. L’emozione e l’oppressione dolorosa che provavo stando a quell’altezza la vinsi ritornando spesso in quel luogo fino a che divenne per me affatto indifferente. Questo poi mi giovò, e molto, nei viaggi sulle montagne, negli studi di geologia, e nelle visite dei monumenti di Roma, dove spesso, per vedere da vicino le cose, gareggiai con i più intrepidi muratori” (Aus meinem Leben, IX). Questo passo di Johann Wolfgang Goethe racchiude in sé l’essenza del Romanticismo, dall’abbandono del classico e del pittoresco alla tensione al sublime, con lacerazione interiore tra la sensazione d’essere piccoli e miseri e l’esaltazione di una vittoria su se stessi e sul mondo.
È lo Spirito che crea la realtà, è l’Io che da solo dà legge al mondo: con l’idealismo (la parte filosofica del romanticismo), l’Io abbandona l’illusione di una vita naturale, tra la ragione dei “lumi” e il mistero in provetta dei primi chimici. L’Io cresce e soffre al cospetto della natura. La domina e ne è dominato. L’uomo che oggi si avvia a diventare il padrone dell’universo è il primo a soffrire di quel distacco dalla natura che questi due ultimi secoli gli hanno riservato. Così la calpesta e la protegge. A volte, decadenti, intuiamo che solo con la morte potremo ricomporre il dissidio tra la nostra coscienza di esistere e madre natura.
Solo Goethe era così grande da riuscire a contraddirsi senza pagarne il prezzo: solo lui, uomo anche classico, poteva ricomporre il proprio dissidio e il proprio “esilio”: “Come poi vien la sera, e nella brezza tranquilla le rade nubi si posano sulle cime dei monti librandosi nel cielo quasi immote e, dopo il tramonto, comincia a farsi distinto lo stridio delle locuste, allora ci sentiamo a nostro agio in questo mondo; e non più a pigione o in esilio”.
E nel Faust disse chiaramente: “Da lungo tempo è preparato un accordo tra le forze primitive dell’uomo e quelle delle montagne; felice chi seppe congiungerle”.
Nietzsche sentiva ancora più forti questo contrasto e questa doppiezza: “Non l’altitudine, è il pendio che è terribile! Il pendio lungo il quale lo sguardo precipita in basso, mentre la mano brancica verso l’alto. E intanto il cuore, preso tra questo doppio impulso, ha la vertigine” (Così parlò Zarathustra). E ancora, lo stesso Nietzsche, a proposito di esaltazione: “Guardate in alto se volete esaltarvi. Chi di voi conosce insieme l’esaltazione e il riso? Colui che sale i monti più alti ride di tutte le tragedie rappresentate e vissute”. Ed ecco Goethe, sulla miseria dei propri tentativi: “Oh povero mio cuore! / Per andare lassù sopra quel monte, / oh celeste Possanza, / dammi ancora soltanto un po’ d’ardore… (Sturm und Drang)”.
Con l’avvento e lo sviluppo dell’alpinismo, con il quale l’uomo ha raggiunto tutte le più alte vette per i versanti più difficili, con l’esplorazione ormai quasi totale delle nostre Alpi, con l’introduzione della tecnica di sfruttamento del potenziale turistico alpino, chiunque voglia oggi esprimere la montagna o per iscritto o per immagini rischia la retorica. La retorica, come oggi comunemente s’intende il significato di questa parola, è esprimersi vuoto di senso. Ci si richiama cioè continuamente a ideali che intimamente rifiutiamo. E più il dubbio interiore su questi ideali è forte, più il discorso è retorico, cioè vuoto. Gli ideali oggi sono forme senili di miti che si evolvono, in quanto approssimazioni variabili da epoca a epoca di ciò che vive dentro di noi. Diventa difficile per l’arte infrangere il compatto muro della retorica: non c’è stata finora espressione artistica o letteraria che si sia servita dell’esperienza alpinistica per significare la grandezza di un mito. Dopo l’orgia industriale e nel pieno dominio della comunicazione virtuale e globale, nasce il sospetto che lo scopo di questo muro così alto e compatto sia di far riacquistare alla montagna (e quindi un po’ anche al mondo) tutto il suo vigore e il suo mistero. Dentro noi alpinisti moderni c’è come una censura spontanea che c’impedisce l’ingresso nell’arte e nella letteratura maggiori. Tanto più la montagna è tecnicamente conosciuta, descritta, sfruttata, tanto più coercitiva è l’autocensura. Tanto più l’alpinismo diventa tecnico e mediatizzato, tanto più s’avvicina ad un prodotto della civiltà industriale, in piena opposizione ad una vera esperienza umana. Ed appare chiaro che questa contraddizione non può che rivelarsi soltanto nel nostro intimo, un nuovo tabù. La separazione tra Io e Natura è più viva che mai, il Romanticismo perciò è ben lungi dall’essere concluso e il mistero, in questo secolo più piccolo e lontano, sempre più appare come le Sirene di Ulisse, al tempo stesso un nemico acerrimo e un suadente tentatore.
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Purtroppo la villa Crotta ha dei punti deboli, non restaurati.
Digitando”agordo villa crotta de manzoni crolli” si trova una notizia del 7 novembre 2020..”Crolla una parte del tetto della Torresella, “luogo del cuore del Fai”. Ieri pomeriggio, attorno alle 15. 15, chi abita nei pressi del monumento ai Caduti di Agordo ha sentito un rumore. «Come di qualcosa che viene giù», rfacconta Gla— Ri—. Era la copertura di uno degli edifici simbolo del patrimonio storico-culturale di Agordo: la Torresella.” Andando all’articolo completo di “Corriere delle alpi” si vede pure foto.Una delle finestre a bifora , nel 1992, aveva una colonna sostituita da un tronchetto…incastrato con zeppe di legno.
https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g1201175-d7364145-Reviews-Villa_veneta_Crotta_De_Manzoni-Agordo_Province_of_Belluno_Veneto.html
Entrando in un androne dal portone aperto , ..si sente un’aria inquietante, che non sia stata ispirazione di Buzzati del racconto “Il crollo della Baliverna”?
@Albert: ci conto 😉
Gita di noi coniugi venerdì 21 febbraio 2020: Treviso, Falcade invasa da giovani altleti per gare nazionali sci fondo in programma per i 2 giorni seguenti.Poi valle di Gares..immersa nll’ombra, con splendide piste sci fondo semideserte, poi VALLE SAN LUCANO..SENZA NEVE , CON PAESAGGIO IN OMBRA GELIDA E SCHIANTI DI ALBERI ANCORA GIACENTI.non raccolti o forse mai raccolti causa pendi irraggiungibili.. foto alle pareti con il collo parecchio inclinato indietro.Poi sosta a Taibon a rimirare recenenti opere d’arte in graffito monocolore e poi..La Valle Agordina a fotografare tipici intagli nei fienili.Al ritorno in autoradiogiornale si diffondevano le prime notizie inquietanti, di una influenza che si credeva riguardasse solo la lontana China,ancora si doveva coniare il temine covid . Ci ripromettemmo dieffettuare dopo due giorni sciata a Peronaz ai piedi del Pelmo..invece ..sabato 23 gare sprint a Falcade, domenica 24 interrotto il programma gare e tutti a casa, a prepararsi da sè le prime mascherine di tela, a far scorte di candeggina e gel alcoolico… in supermercato domenicale che presto rimase privo di articoli disinfettanti..Le gite considerate alle porte di casa, divennero irraggiungibii miraggi. Forse ora si potra’ ritornare e quelle che erano scappatelle di routine alle “porte di casa”andata e riorno in giornata, ridiventeranno leccornie da leccarsi i baffi…e che le scoprano per la prima volta anche quanti le avevano solo messe in”prima o poi”
Se la follia non è che una impedenza ad essere se stessi secondo la propria natura, se rende inetti a riconoscere la natura dell’altro, si puó conludere anche a mezzo de La valle sublime che siamo dentro un sortilegio radicale che ci tiene lontani da noi stessi, dalla creatività necessaria a seguire il filo che ci condurrebbe all’armonia.
La valle di San Lucano mi ha sempre affascinato, pur non essendoci mai andato.. Prima o poi…
Bellissimo articolo comunque!!
Alessandro Gogna, ma sei tu l’autore?
Si scoprono sempre lati nuovi… Bellissimo articolo!
RIMANE UN MISTERO il decadimento della localita’di Frassene’Agordino,gettonatissima meta turistica anni’50 e 6o, con pareti meridionali Agner.ecc, visibili in sfilza dalla pianura e da Venezia. Sembra che pure dalla Valle di san Lucano se la svignino…tenendosi le case come opzione estiva.Non si sa mai, un revival e’sempre possibile.