La vita delle rocce
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Un grande capo indiano Seattle diceva: “La terra non appartiene all’uomo; è l’uomo che appartiene alla terra”.
Il brano di lettura riaffiora a Marco Milani, che con Guido Daniele è partito da La Visaille e salito nel tardo pomeriggio sul Mont Fortin 2758 m, all’estremità della Val Veny e al cospetto dell’altra faccia del Monte Bianco, quella che non si vede mai.
La via di salita al Monte Bianco dal versante italiano percorre l’himalayano bacino glaciale del Miage e dal rifugio Gonella sale poi per le creste di Bionassay e delle Bosses. L’itinerario era stato percorso in discesa il 7 agosto 1865 da Edward North Buxton, Florence Crauford Grove e Reginald J. Somerled Macdonald con le guide Jacob Anderegg, Peter Taugwalder figlio e Jean Pierre Cachat; risalito per la prima volta tre anni dopo (25 luglio 1868) da Frederick Augustus Yeats Brown con Julien Grange, Daniel Chabod e Joseph-Ferdinand Lalle, fu perfezionato negli anni successivi da altri pionieri. Fra questi, Giovanni Bonin, Luigi Grasselli con Achille Ratti (il futuro Papa Pio XI) e le guide Joseph Gradin e Alexis Proment salirono il 1° agosto 1890 in vetta al Monte Bianco per la via dei Rochers in una splendida giornata corroborata da “dell’Asti spumante lassù veramente impagabile“; poi scesero per la via che oggi è la normale dal versante italiano.
Il versante Miage del Monte Bianco
Ai due, così illuminato, il Monte Bianco sembra eterno: siamo di un giorno più vicini alla nostra fine e colmi di ammirazione per ciò che supera il nostro comprendere. Ma a questo era già arrivato San Francesco.
La scienza non dovrebbe più limitarsi ad analizzare il creato come si fa ad una lezione di anatomia. Oggi la scienza, e quindi divulgazione, liceo, elementari e perfino scuola materna dovrebbero aiutarci a capire che rocce, terra, fossili, minerali hanno una vita propria che vive a ritmi enormemente dilatati rispetto ai nostri. Noi viviamo troppo velocemente per accorgerci della vita minerale, zanzare che disturbano per una notte soltanto.
La Natura deve essere conservata perché utile e buona per noi; dopo ogni disastrosa alluvione si grida di smantellare gli alvei artificiali dei corsi d’acqua per ripristinarne la primitiva azione frenante e vitale. Poi vittime e danni si dimenticano in fretta, si preferisce investire in altro cemento con opportuni condoni edilizi sperperando altro danaro pubblico, in attesa della prossima tragedia e dando la colpa ai governi precedenti.
Alla base di questo modo di agire è il fatto che la civiltà occidentale non attribuisce alcuna dignità alla terra: nei Paesi alpini solo qualche gruppo etnico è legato alla propria terra (e là i risultati si vedono).
Se vogliamo superare vecchie concezioni utilitaristiche della protezione del territorio, occorre accettare che la roccia e la terra abbiano una vita, cioè accettare l’inanimato come degno della nostra considerazione morale. Chi sente questo dentro di sé crede di vivere sull’altra faccia della luna, accusato di fare oscure e tragiche profezie…
Ma chi ama il minerale non è un pazzo. Sa che l’uomo da sempre si serve della roccia per i suoi scopi e non ne ha mai potuto fare a meno. Assesta colpi mortali ai fianchi delle montagne, ledendone l’estetica, la stabilità e la loro intima struttura, modificandone in definitiva il linguaggio.
Ne viola i diritti quando cava la roccia, la squadra in blocchi, ne fa muri, quando modella una statua? Vendendone quantità industriali e abusive a paesi più rispettosi del proprio territorio, certamente li viola. Carni e verdure si possono riprodurre in tempi brevi, mentre la rinascita della roccia è rinviata alla prossima rivoluzione geologica.
Ma al di là di inevitabili e giustificate aggressioni che l’uomo compie nei confronti dell’inanimato, ci sono le piccole aggressioni di ogni giorno, gli inutili divertimenti, le superficiali indifferenze ad una vita diversa dalla nostra.
Leggerezza e insensibilità ci inducono ad asportare pezzi di roccia, meglio se con un certo valore economico come i minerali, i cristalli o i fossili. I cercatori accaniti e appassionati rifiutano l’etichetta di danneggiatori perché ciò che fanno lo fanno per amore. Che amore c’è nel privatizzare un bene comune e degradarlo a bottino? Anche se, dopo aver martellato e distrutto la roccia custode, si regala la gemma ad un museo, si esercita comunque una violenza inutile.
Come inutile è scrivere banalità sulla roccia o tracciare graffiti insulsi. Staccare concrezioni millenarie è distruggere irrimediabilmente una meraviglia creata con tanta pazienza, ed eliminare per sempre una compartecipazione altrui a quella bellezza.
Perché grandi e piccini gettano i sassi in un lago alpino oppure giù per un pendio? Perché modificare un ordine, perché alterare delle energie potenziali? È così necessario zappare un fosso attorno alla nostra tenda per proteggerla dall’acqua piovana?
Tanti sacrosanti diritti, dal conquistarci i piccoli piaceri personali, al poter distruggere inconsapevolmente, potrebbero esserci superflui. Se anche solo per un istante, in un alito di vento o a una svolta del sentiero, sentiamo una pace e una serenità nuova, coltiviamo questo sentimento appena nato: per esprimerci, osserviamo e ascoltiamoci.
Mentre Marco armeggia con le macchine fotografiche, misura la luce e bascula le inquadrature, Guido osserva i gesti semplici del compagno. Semplici, ma con un grosso bagaglio di tecnica e passione.
Anche ciò che è di fronte a loro è semplice ma profondo, una visione di grande montagna, proprio come quelle che Guido ha quando dipinge. Sulle grandi pareti del suo loft fissa tele immense e le ricopre di un fondo sul quale, a poco a poco e con tutte le tecniche, appariranno i grandi spazi della sua mente.
Montagne famose appaiono come sogno sopra a grandi nuvole che a loro volta fluttuano leggere su un orizzonte azzurro alla fine di ghiacci eterni e lisci, solcati appena dalle tracce di una slitta. In quel quadro c’è l’intera vita di Reinhold Messner, l’uomo che passeggia sul limite e ha capito che tra verticale e orizzontale in una certa dimensione non c’è più alcuna differenza.
Marco De Gasperi, 16 luglio 2015
Oppure montagne meno conosciute emergono da valli scure e più abissali degli oceani, con colori che a ogni pennellata schizzano tutto il selvaggio di un mondo che non è umano: sono i quadri creati per Mountain Wilderness, immagini dove la vita delle rocce impressiona a tal punto da far chiedere “Perché non parli?” proprio come chiese Michelangelo al suo Mosè di pietra.
Questo è il cosiddetto “panorama” dal Mont Fortin. Ma la parola e il concetto di panorama sono riduttivi, ho cercato di dimostrarlo poco sopra. Il versante del Miage vive una vita propria, sempre più distante dai giorni nostri e lontano dal popolo plaudente. Del resto a teatro si è sempre applaudito agli attori e mai alla scena. E oggi il botteghino ci passa la velocità.
Cent’anni dopo, quella stessa via di Achille Ratti è sede di gare di velocità: chissà cosa ne penserebbe lui! Una salita fra le più belle per la grandiosità dei luoghi e per l’assoluto isolamento, è trattata come una pista di atletica. I tempi cambiano: la velocità è diventata una componente importante dell’alpinismo, e alle gare in alta quota partecipano veri atleti che non bevono Asti spumante ma che in cima si spogliano. I tempi di salita Courmayeur-vetta e ritorno sono sbalorditivi: il 4 agosto 1990 Marino Giacometti e Paolo Fornoni impiegarono 12 h e 23’, ma già l’anno successivo il fortissimo Adriano Greco in sole 8 h e 48’ compì l’intero percorso, record poi ulteriormente abbassato nel 1995 dal suo amico Fabio Meraldi 6 h 45’ 24”. E a vent’anni di distanza, il 16 luglio 2015 un altro valtellinese, Marco De Gasperi, centra il nuovo fantastico primato salendo in 6 h 43’ 52’’, sempre con partenza e arrivo da Courmayeur.
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In attesa del Cervino, l’ing-geologo Felice Giordano esegue la salita del Monte Bianco dal versante italiano dal 4 al 8 agosto 1864, festeggiato al ritorno in Courmayeur dal Duca d’Aosta (lettera di FG a Quintino Sella (10.08.1864).
Le rocce hanno certamente anche molta memoria. Nell’alto bacino del Miage, oltre al magnifico granito di età permo-carbonifera e ai più antichi scisti scuri che costituiscono resti del coperchio del plutone, vi sono caratteristiche lastre di rocce nerastre (arenarie metamorfiche) di età tardo-carbonifera, contenenti felci e piccoli pesci rinvenuti da Secondo Franchi (1901) del Servizio Geologico Italiano e descritti dal paleontologo P. Peola (1903).
“Dio dorme nella pietra”. Grazie per questo scritto.
Marco , non mi interessa aggiornarmi. Io vivo nel passato.
Mica sono mister Bonino !!
ma come! non sai che non si può più dire pellirossa! aggiornati. si dice pelle 5 (1 bianca, 2 nera, 3 gialla, 4 verde, 5 rossa).
caro Marco il ROSSO mi piace. Anche i calzettoni che uso in montagna sono rigorosamente ROSSI !!
Poi il rosso scaccia il malocchio…
Benassi… madonne rosse, pelli rosse, lambrette rosse… vedi tutto rosso?
Gli indiani pellirosse avevano un marcia in più.
“… portatemi un giorno sulla collina del Sinis e mettetemi sotto la nuca una conchiglia verde, perché la voce del mare mi canti ancora all’orecchio. Ch’io dorma là, tra lentischi, cisti ed asfodeli, … sotto l’ala dei falchi e il volo ampio e molle dei gabbiani. Ch’io dorma sulla petraia del Sinis…”.
Tornare… tornare nel grembo di nostra madre… che sia mare, campagna o monte, purché finisca questo nostro esilio, nella terra degli idioti.