L’agonia dei ghiacciai
(tra compassione e responsabilità)
di Luca Gibello
Da alpinista dilettante e appassionato di Quattromila, a fine maggio 2022 ho salito, nel gruppo del Monte Bianco, le Droites: 79° vetta della mia collezione. Un’ascensione che, fino a una ventina d’anni fa, si poteva affrontare senza particolari patemi da fine giugno a settembre, a seconda delle condizioni. Peccato che, in quest’anno massimamente nefasto per il clima, le condizioni di fine maggio corrispondessero già a quelle che, in passato, si sarebbero solitamente trovate a fine agosto…
Fin dalla partenza di Montenvers, luogo mitico dell’immaginario e della storia alpinistica, lo scenario si presentava oltremodo desolante: la Mer de glace ridotta a una mer de pierres e sprofondata sempre più in basso al centro del vallone, per via della riduzione della coltre glaciale. Dalla stazione del trenino, una teleferica conduce giù i turisti per ridur loro il dislivello da compiere in discesa onde raggiungere il ghiacciaio; sommo paradosso dell’infrastrutturazione della montagna in nome dell’accessibilità ad ogni costo: una funivia fatta principalmente per scendere invece che per salire! Ma ormai, anche la sua stazione di valle è troppo alta rispetto alla meta, e così è in costruzione un nuovo tronco, per agevolare il turista che deve comodamente raggiungere il simulacro del ghiaccio (ormai nero). Nel frattempo, la discesa a piedi lungo le scale metalliche reca l’inesorabile traccia del primato negativo dell’assottigliamento esponenziale del ghiacciaio, con le placche metalliche a indicarne la quota nel corso degli anni: più gli intervalli temporali si avvicinano al presente, più le targhe si allontanano tra loro…
Una volta oltrepassato il rifugio del Couvercle e raggiunto il Jardin de Talèfre, la situazione si delineava già chiaramente: il canale a 45° della via normale che permette, solitamente in neve dura, d’issarsi sul pendio terminale appena sopra la spalla che scende dalla vetta, era già trasformato, nel suo mezzo, in una scura rigola dall’aspetto sinistro. Nell’impossibilità di approcciarlo, abbiamo dovuto compiere un ampio periplo della spalla, perdendo sensibilmente quota, risalendo lungo il versante opposto e cercando il punto migliore per rimontare la dorsale. Un’operazione eseguita con non poca fatica e rischi, arrampicando su terreno misto, caratterizzato da enormi massi instabili. Avevamo previsto un bivacco in quota all’aperto (a circa 3600 metri), per poi continuare nella notte, raggiungere la vetta e percorrere la cresta delle Droites verso ovest, in direzione dell’Aiguille du Jardin. Scarsissimo il rigelo notturno, con condizioni di misto sempre difficili anche nella parte alta dell’ascensione, tra sezioni di neve molle, improvvisamente alternate ad altre di ghiaccio vivo, e a delicati passaggi su roccia. Solo dopo oltre 10 ore d’ingaggio, psicologicamente vessanti, eravamo fuori dai pericoli.
Da quel giorno ho deciso che, per quest’anno, avrei appeso i ramponi al chiodo, dedicandomi esclusivamente a scalate su roccia totalmente “a secco”, o a tranquille escursioni. Una scelta maturata a fine maggio, ovvero ben prima della tragedia della Marmolada. Scelta non solo dettata da ragioni di sicurezza ma, ancor prima, scaturita da uno stato d’animo, da un sentimento. Ho visto i ghiacciai troppo sofferenti e abbruttiti e, da loro “innamorato”, non mi sentivo in diritto d’infierire calpestandoli. Non avevo il cuore di straziarli a mia volta, né più provavo quel godimento estetico che deriva dalla loro contemplazione, con il candore e il bagliore del bianco unito ai riflessi cromatici dell’azzurro e del verde. Troppa tristezza mi suscitava il vederli ingrigiti e “smagriti”. Ho pensato così di starne lontano, come forma di rispetto, come simbolico omaggio alla loro lesa maestosità e grazia.
Anche se con poche illusioni, mi auguro che l’annus horribilis non si ripeta, e che quindi la prossima stagione si possa tornare, minimamente festanti, al loro capezzale. Ma, al momento, forse anche il marginale esercizio di una simile forma di autocoscienza e responsabilità può restituire un minimo di concretezza all’abusato concetto di sostenibilità. Ovvero, saper cogliere i segnali che il pianeta ci manda e… fare un passo indietro.
Luca Gibello è presidente dell’associazione culturale Cantieri d’alta quota e membro del Club 4000.
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