Riproponiamo, per il suo interesse d’attualità, questo articolo scritto 45 anni fa.
L’alpinismo come attività artistica
di Pierachille Barzaghi
(pubblicato su Lo Scarpone il 1 novembre 1979)
Rispetto a noi alpinisti, gli amici che si dedicano ad altri sport hanno almeno un non dubbio vantaggio: per loro è sempre assolutamente chiaro quale sia lo scopo della loro attività e quali siano le regole del gioco. Si tratterà di percorrere un certo numero di giri di un circuito alla massima velocità possibile con un’automobile conforme a certi regolamenti, o di saltare al di sopra di una asticella posta ad un certo livello dal suolo. Resta sempre aperto, per noi come per loro, il dibattito sul significato interiore di tutto ciò, la domanda «perché lo sport», ma questa è un’altra questione.
Per gli alpinisti le regole del gioco, cioè in cosa consista esattamente il fare dell’alpinismo, non è mai stato completamente chiaro, e le discussioni e le polemiche che hanno sempre appassionato l’ambiente lo dimostrano. Lo dimostra soprattutto la tendenza costante a trasformarsi nella discussione fra due diverse concezioni in dissenso fra due morali opposte: prima il «pregiudizio esplorativo» che si contrapponeva alla concezione sportiva, poi le dispute, per noi oggi assurde, fra occidentalisti e orientalisti, la discussione sulla liceità dell’uso dei chiodi e dei mezzi artificiali, sulla adozione della scala di difficoltà o sulla concezione agonistica dell’alpinismo. Fino alle ultime «eresie», l’arrampicata fine a se stessa dove addirittura non si raggiunge più nessuna cima, e la scala dei gradi «aperta verso l’alto».
In fondo, il punto centrale di discussione è sempre stato questo: se l’alpinismo fosse una attività che trova in se stessa il suo scopo e la sua giustificazione, oppure se fosse un mezzo per arrivare ad altri scopi e risultati, spirituali educativi, ecc.
Ma questo non è mai stato del tutto chiaro nei suoi termini. Anche perché gli alpinisti hanno sempre condiviso con i cattolici e i marxisti la difficile condizione di avere una grande tradizione di Padri e di Scritture, alle spalle, ed alla quale non è facile e non è apprezzato sottrarsi con eccessive spregiudicatezze.
La mia proposta, di considerare l’alpinismo una attività estetica, vuole essere una proposta per aiutare a trovare una risposta a quegli alpinisti che si pongono la famosa domanda «che cosa sto facendo? Ne vale la pena?», e soprattutto un tentativo di superare la contraddizione insolubile di una attività che si è quasi sempre detta non competitiva, ma che poi competitiva diviene molto spesso, senza che sia ben individuato qual è il traguardo. Insomma, un suggerimento che ci permetta di godere in modo più pieno le nostre piccole o grandi ascensioni, uscendo da certe secche moralistiche e da certi giudizi di valore che spesso finiscono col sovrapporsi al significato autentico che la montagna ha per noi.
Chi si trova già soddisfatto di altre spiegazioni non sarà probabilmente interessato alla mia proposta, ma il mio è (anche per me) solo uno dei possibili punti di vista. E non voglio certo fondare l’ultima setta eretica.
Tutti sappiamo quale trasformazione hanno subito in questo secolo le arti, soprattutto quelle figurative ma anche la letteratura e il teatro. Un tempo l’artista pareva (ma pareva soltanto) un interprete sensibile che presentasse ad un pubblico-osservatore, da lui ben distinto e separato, delle rappresentazioni della realtà piuttosto fedeli e comprensibili, ed ispirate ad un comune senso del bello.
Oggi tutto è cambiato. Certi nomi li conosciamo tutti: Christo (Vladimirov Javacheff, NdR) che impacchetta i monumenti o stende un velo lungo chilometri attraverso una valle, Alberto Burri che «dipinge» con sacchi stracciati e rattoppati.
L’artista non aspira più ad essere l’interprete di una bellezza astratta o di nobili e teoriche emozioni, ma ad essere un operatore che con tecniche spesso difficili da catalogare fra le arti tradizionali ci rende coscienti della vera natura della nostra condizione di uomini, delle contraddizioni della società, del significato delle ultime opinioni scientifiche e filosofiche. Addirittura in certi casi l’arte non è più costituita da una rappresentazione della realtà, ma della realtà stessa presentata in presa diretta dall’artista, e non sempre è distinguibile l’opera del suo autore e dello spettatore che osserva. Altre volte la vera opera non consiste nell’oggetto presentato dall’artista, ma in un significato che l’artista si propone di suscitare con quell’oggetto nella mente di chi lo osserva. Non ci si propone più di fissare una immagine esterna di ciò che è mutevole, ma tutto al contrario di acuire la coscienza del mutamento e di conservare tutto il senso delle labilità del reale.
Gli artisti della Land Art operano sul paesaggio, tracciano segni sul terreno, solchi nella neve o più semplicemente annotano con la fotografia le modificazioni che l’opera dell’uomo o degli elementi atmosferici ha prodotto.
I Concettuali, i seguaci della Body Art che agiscono soprattutto sul e col proprio corpo, eseguono «performances», azioni significative che di proposito stimolano la reazione e la partecipazione di chi assiste, e delle quali pure resta solo un documento fotografico.
Sono solo alcuni fra i molti esempi che si possono fare.
Il teatro moderno si propone il coinvolgimento non solo emotivo ma concreto del pubblico, gli attori scendono dal palcoscenico, a volte non esiste più palcoscenico e gli attori recitano per le strade, fra la gente: il teatro è realtà, o la realtà teatro?
E’ pure interessante osservare qual è, da sempre, il ruolo dell’interprete di un’opera musicale. L’esecutore non crea un’opera sua, ma si limita ad eseguirne una scritta da altri, e tutto il suo impegno artistico va nel realizzare una sua idea di fedeltà al testo, idea che sarà però inevitabilmente personale: e per noi Mozart è certamente più vivo nei suoni di chi lo esegue che nei segni da lui lasciati nello spartito.
Vediamo ora come agisce l’alpinista. La prima esperienza che fa chi va in montagna è quella di un radicale cambiamento di scena rispetto al proprio ambiente normale, anche se non si è spostato che di poche decine di chilometri da casa propria, e di una radicale rotazione del piano di riferimento che da orizzontale, chiaramente individuato quale è di solito, si fa inclinato, sfuggente verso lo spazio, a volte verticale. Una esperienza relativizzante.
Tutti sappiamo quanto vuoto circondi chi percorre pareti e creste anche di media difficoltà, e che la vertigine si rivela, più che paura di cadere, paura di una esperienza di spazio veramente a tre dimensioni. Oltre a questo, l’alpinista è costretto ad un contatto non mediato con una natura dura, grezza, spesso repulsiva. Ma sente che proprio solo se supererà questo senso di estraneità (l’illusione di esistere in quanto distinto, dicono gli orientali) avrà veramente vissuto l’avventura alpina.
E poi, a contrasto con questa esperienza così concreta e immediata, l’alpinista è costretto ad una astrazione: la via non esiste, come esiste invece una strada o una ferrovia. Sia che la percorra lui per primo, o che della via esista già un testo, uno spartito (opera del grande Paul Preuss o di un ignoto cacciatore di camosci), la via è solo un significato ed una relazione reciproca che il primo salitore attribuisce a fessure, sporgenze, screpolature delle rocce, a pendii di neve e spigoli di ghiaccio.
La via esiste solo nella mente di chi la segue-esegue. E l’alpinista concreta, ridefinisce questo tracciato col proprio passaggio, palmo a palmo, svolgendovi la propria corda colorata, agganciandosi a qualche chiodo che forse è già infisso come una punteggiatura.
Sul ghiaccio il segno del suo passaggio sarà più concreto e la fine della trama delle sue orme, dei fiori della piccozza, resterà qualche ora o qualche giorno finché il vento e la neve non le avranno cancellate. Ma il testo molto più che per la roccia sarà un’indicazione di massima, e la ripetizione una variazione o una interpretazione di una realtà che chi sale incontrerà sempre diversa da come l’ha trovata chi lo ha preceduto.
Dall’ascensione l’alpinista riporterà qualche foto, rappresentazione spesso poco più che simbolica di quello spazio immenso e di quel terreno indescrivibile dove è passato; indicazione che quell’altra rappresentazione simbolica, quei sottili tracciati a punti e linee sulla fotografia della guida, si sono ancora una volta concretate.
Anche il muoversi dell’alpinista, e tutto il suo comportarsi in montagna, ha un che di rituale: preciso ma misurato, istintivo ma privo di scatti, a volte lento, contiene forse meno spettacolo di quello di chi pratica altri sport, ma forse ha più carica espressiva propria dell’attore che è tenuto a vivere e unificare questa doppia esperienza, esteriore ed interiore.
Secondo questa concezione, fare una via non significa andare in vetta per quel certo spigolo, ma «essere» su quello spigolo, sfilare la corda dove generazioni di alpinisti le hanno sfilate, ritrovare il significato di quelle piccole spaccature, vedere le nuvole scivolare dietro gli stessi spuntoni dove le ha viste correre il primo salitore. Nell’opera-ascensione l’alpinista è attore, spettatore e regista, e l’opera è costituita da alpinista + montagna inscindibilmente legati. Il raggiungere la cima ha importanza non perché la cima è un traguardo, ma perché, e soltanto se, in questo la idea-ascensione trova una sua estetica completezza.
Il modo giusto di fare un’ascensione, e la ascensione giusta da fare, dovrebbero esser quelli che meglio ci permettono di vivere questa esperienza, e solo questa esperienza è misura di valore («ne vale la pena»?) che l’ascensione ha. Non esiste un «valore di mercato» attribuibile ad una ascensione, e che sia comunque guadagnato se si riesce a compierla.
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“Son già passati dodici anni dall’invernale del Pilone Centrale del Frêney. […] E, malgrado il tempo trascorso che mi separa da quegli istanti privilegiati, più che le parole, che vanno a cadere anonimamente su queste pagine, come piccoli punti di riferimento su una parete, ancora mi resta il ricordo di sensazioni incomparabili.
È il ricordo di gioie e di sofferenze per la conquista dell’inutile, della pienezza fisica che scaturisce dalla pace dello spirito e, forse, di un assoluto eterno intuito non foss’altro che per qualche secondo…”
(Robert Flematti)
https://gognablog.sherpa-gate.com/mes-plus-belles-hivernales/
Caro riky, non dirmi che Robert Flematti, a venticinque anni, scalò d’inverno il Pilone Centrale del Frêney soltanto per avere due carte in piú con la ragazza carina del bar.
E neppure che tu hai salito – chessò – l’Aiguille Verte dal Nant Blanc, magari in solitaria, per la stessa ragione.
Non ci crederebbe nessuno.
l’alpinismo serve ad avere due carte in più da giocarsi con quella più carina del bar. Il resto sono artifici letterari per nascondere questa semplice verità.
A parte la solita pedantissima verbosita di tanti scritti di robe alpine, l’articolo pone un problema interessante: quello dell’irripetibilita di una salita, soprattutto quando è una prima salita, come irripetibile e un’opera d’arte.
Questo detto contro tutti quei cialtroni che pensano che tutte le condizioni emotive psichiche fisiche che rendono possibile una impresa siano riproducibili, banalizzando l’eccezionale dell’umano, pensando che tutti possano riprodurlo o rivivendo tale e quale.
Nessuno pensa a quale demone personale ha animato quello scalatore a fare 50 metri senza mettere un chiodo mentre altri diversi da lui dopo hanno messo 1 2 3 4 5 chiodi.
Così è per la divina commedia: sarebbe ridicolo pensare che per leggerla bisognerebbe saperla riscrivere
Effettivamente, a questo punto, servirebbe un parere autorevole sui corretti criteri di determinazione della direzione del vento al fine di uno sputacchiamento senza pericoli in alta quota.
Carlo, orsú, che si dice in quel di Torino?
Cari Fabio, mica viviamo nei fumosi bar torinesi del Crovella.
…e non mi hai visto dal vivo…
🙂
Voi tre – il Benassi, il Cominetti e il Matteo – state distruggendo la poesia dei monti. Vergognatevi!
P.S. Ma piú di tutti mi sconcerta Gogna, che stimavo faro di retti princípi morali, ma che si guarda bene dallo stroncare le vostre goliardie blasfeme.
In GognaBlog mala tempora currunt.
😀 😀 😀
“Dipende dal vento che tira.”
Bé, uno dei corollari dell’alpinismo è imparare a conoscere la natura, il tempo, il terreno e se’ stessi, scoprendosi parte, cosciente ma infinitesima di un tutto.
Per girarsi dalla parte giusta quando si sputa.
Dipende dal vento che tira.
C’è sempre una prima volta.
Alpinisti,o Alpinauti?
L’alpinismo serve per arrivare in alto e la vetta è il posto dove si può sputare più distante.
🙂
Stai a vedere che scopriremo il perché dell’alpinismo oggi Venerdì 17 Maggio 2024.
alpinismo è competizione con gli altri
alpinismo è competizione con se stessi
alpinismo è sport
alpinismo è incontro e scontro con se stessi
alpinismo è incontro e scontro con la natura
alpinismo è arte
alpinismo è contemplazione
alpinismo è tecnica
alpinismo è salire una montagna per la via più facile
alpinismo è salire una parete per la via più facile
alpinismo è salire la parete più difficile per la linea più facile
alpinismo è bivaccare in parete
alpinismo è avventura
alpinismo è anarchia
alpinismo è mettersi in gioco
alpinismo è trovare la soluzione più semplice ad una situazione difficile
alpinismo è…?
Ci sono tanti alpinismi quanto sono gli alpinisti.
Alpinismo al vertice? Ma chi se ne importa!
Alpinismo competitivo? Ma chi se ne importa!
Alpinismo mediatico? Orrore!
Alpinismo di massa? Orrore!
Il mio alpinismo è sempre stato solo mio, sin dai diciotto anni: un’avventura dello spirito.
E ora, che sono passati tanti anni, rimpiango di averne fatto troppo poco, perché di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il suo sapore, che è il sapore di essere liberi e forti. Liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino (Primo Levi).
Tutto ciò si interseca con un altro piano di riflessioni quello del peso antropico e dello stille di approccio alle montagne, cioè del numero di cannibali e sull’opportunità di una frequentazione “sana” e rispettosa. Si tratta di due diversi pentoloni concettuali: mescolarli è un errore metodologico, anche se vi sono degli indubbi collegamenti fra i due piani di analisi. Ad esempio spesso (non sempre, ma spesso) chi, fra gli alpinisti medi, ha un approccio “tecnico-sportivo” è anche un cannibale, mentre chi ha un approccio spiritual-artistico-culturale, difficilmente è un cannibale. L’obiettivo di tutti gli appassionati di montagna dovrebbe essere “s-cannibalizzare” i cannibali, ma non necessariamente elevarli ad alpinisti di vertice. Per questo secondo target intervengono troppe variabili soggettive (talento, motivazioni, stile complessivo di vita) che non sono standardizzabili. In ogni caso: meglio avere un alpinista medio in più, ma s-cannibalizzato, che un alpinista di vertice in più ma con immutata mentalità cannibalesca.
Fra le tanti tanti misteri dell’alpinismo (“andare in montagna”) vi è la sua indeterminatezza, che si presta a infinite interpretazioni. Se interrogate 10.000 alpinisti, avrete 10.000 risposte diverse. Bisogna partire da questo assioma, altrimenti si fa un grande minestrone, da cui deriva una babele terminologica e concettuale. Il principale errore è considerare “Alpinismo” il solo “alpinismo di vertice” (o cmq “impegnato e impegnativo”). Questa attività è circoscritta ad un limitato numero di individui, sia storicamente che guardando all’attualità. Invece l’alpinismo di massa è ampiamente diffuso: applicare a questo i canoni dell’A. di vertice è come estendere la F1 ai miliardi normali automobilisti. Se l’A. di vertice è l’area dell’evoluzione (e in quanto tale merita analisi storica anche da parte di chi NON è alpinista di vertice), da un punto di vista numerico l’A. di massa è statisticamente rappresentativo del concetto di alpinismo (da cui deriva che il CAI guarda più a questo). Ognuno trova il “suo” alpinismo, chi più sportivo (a mio parere “arido”), chi più spirituale (alla Spiro Dalla Porta Xydias), chi più artistico (come l’autore dell’articolo), chi più cultural-formativo degli individui (come il sottoscritto).
Articolo vibrante nei contenuti, la componente artistica, o meglio creativa, che si asserisce forse si addice più all’arrampicata free solo piuttosto che all’alpinismo. Secondo me, la creatività sta nel merito della linea e della danza dei movimenti (Manolo docet), non nell’esperienza che è condivisibile solo nel racconto (magari infiocchettato). L’Arte è arte se parla e dice cose nuove a una comunità ampia (e non solo di esperti), altrimenti è gesto personale. Tuttavia si sente che l’interessante apporto di Barzaghi ha la sua età storica (e la sua forza propulsiva, o nobilitante) degli anni 70 del secolo scorso. Un po’ datato oggi. L’alpinismo attualmente è anche significativo impatto sul sistema ecologico, altro che arte…non demonizzo, ma ricordiamocelo con consapevolezza.
Preferisco pensare che l’alpinismo non sia uno sport né un’opera d’arte perché in entrambi i casi l’ossessione della prestazione prevale sull’espressione della bellezza naturale. Certo sull’essenza dell’alpinismo si possono avere opinioni differenti come dimostra l’ultimo numero della «Rivista del Club Alpino Italiano» (n.8 maggio 2024), ma sarebbe meglio evitare una conclusione apparentemente democratica e conciliante «perché alla fine esistono tanti alpinisti e ognuno può trovare la sua via» (Andrea Greci). Anche in questo campo le sfide del nostro tempo esigono scelte dirimenti. Come suggerisce lo stesso Alessandro Gogna sullo stesso numero della rivista la domanda non può essere comodamente elusa senza prendere posizione: esiste il vero alpinismo? C’è un futuro per l’alpinismo? qual è il fascino dell’alpinismo?
È incredibile come l’umano medio abbia bisogno di fare riferimento a ciò che è codificato.
Nel 1979 Kurt Albert saliva vie (eretiche????????) di VIII+ mentre il Cai sosteneva che più del VI superiore non era umanamente superabile. Oltre a dire che se cadevi con l ‘imbrago basso ti spezzava la schiena…
Che barzellette!
Non c’è come il vedere il proprio limite come limite assoluto per affermare la propria inferiorità di fronte a chi ragiona, a chi è aperto e non chiuso, a chi non sopporta il controllo. Fondamentalmente a chi fa evolvere la razza umana.