L’alpinismo invernale

Si ricorda che Motti scrisse Storia dell’Alpinismo nel lontano 1977: qui necessariamente le imprese invernali si fermano a quell’anno.

L’alpinismo invernale
di Gian Piero Motti
(pubblicato in Storia dell’Alpinismo) (GPM-SdA-38)

Il cammino della sofferenza
Che si sia giunti a salire le montagne d’inverno non deve sorprendere affatto. D’altronde il fascino ambientale della montagna invernale rappresenta un invito a cui è difficile resistere. Ma vi è modo e modo di salire le montagne in inverno: si può salirle con gli sci, si può scegliere una meta facile, si può raggiungere una bella vetta senza pagare un grande tributo di fatica e sofferenza. Ma generalmente non si intende questo per alpinismo invernale. Che l’uomo abbia necessità di autopunirsi in determinate condizioni, questo ci pare scontato ed accettato da tutti. Che attraverso il dolore si giunga alla conoscenza, anche questo può ancora essere accettato da molti. Che le privazioni fisiche prolungate, che il freddo, la sete, l’isolamento, la fame, l’angoscia, portino ad una condizione visionaria, anche questo è accettabile e per informazioni bisognerebbe rivolgersi ai molti santi del Medioevo e agli altrettanti santoni orientali. Dunque nessuno si sognerebbe di dire che l’alpinismo invernale è una cosa che non va. È un’esperienza come tante altre e chi l’affronta sa benissimo il prezzo che deve pagare.

La parete nord dell’Ailefroide

Che poi nelle pieghe dell’alpinismo invernale vi sia un sacco di ambizione, una speranza di gloria, un desiderio di affermarsi e di dimostrarsi dei «duri», questo è un altro discorso. Le due cose probabilmente si mescolano insieme ed è difficile poterle distinguere. Perché anche in certe imprese che sono state accuratamente scelte ed effettuate per «colpire» il pubblico e per averne fama, ci sarà pur stato il momento in cui l’ambiente naturale ha giocato la sua parte. Ed anche in altre imprese dove l’alpinista apposta cercava quel mondo di solitudine, di freddo e di gelo, ci sarà pur stata una componente di ambizione e di competizione.

Comunque si cominciò a salire le montagne d’inverno soltanto per il desiderio di salirle d’inverno e questo è abbastanza simpatico. Forse vi sono ancora molti che le salgono così. Altri, come Cassin, in inverno hanno sempre preferito guardarle.

D’altronde sul cammino del «karma» individuale il masochismo è un incontro inevitabile e quindi per molti giunge il momento di prendere la propria croce e di partire. Naturalmente il messaggio inconscio non giunge mai in chiarezza, altrimenti quasi certamente, salvo casi eccezionali, non sarebbe accettato. Invece i meccanismi di sublimazione e di trasformazione fanno sì che la proposta inconscia sia persine invitante ed infatti lo è per chi vive quella determinata situazione. Ecco che si genera insoddisfazione, ecco che tutto appare monotono e scontato, ecco che il pensiero della lotta durissima combattuta nel crudo dell’ambiente invernale riluce di una grandezza mai vista. Ecco che a poco a poco le privazioni, il freddo, la fatica bestiale, l’isolamento e l’abbrutimento fisico assumono un aspetto quasi piacevole. Non solo questi aspetti vengono accettati, ma anzi quasi li si ricerca, altrimenti non vi sarebbe avventura e piacere della lotta.

Solo quando poi si è superata la fase dell’alpinismo invernale, ammesso che si riesca a procedere in avanti e non si giri in cerchio, allora lo si vede in differente luce e si sorride all’immagine di se stessi sulla via del Calvario. Ma allo stesso tempo ci si sorprende nello scoprire che anche in quello vi era qualcosa di bello e di particolare, anche se tutto ne risulta avvolto da una grande tristezza. Oggi si dice che si è giunti all’alpinismo invernale perché per molti non è possibile raggiungere i monti lontani dell’Asia e dell’America e che in inverno le Alpi presentano lo stesso ambiente e gli stessi problemi. Può darsi che per molti sia così. Altri dicono che il progressivo esaurimento di problemi alpinistici da risolvere in estate ha portato a cimentarsi con le pareti in inverno, fino a giungere ad un punto in cui vengono realizzate prime ascensioni proprio in inverno. Può darsi anche questa volta che sia così. Altri ancora dicono che l’uomo non si arresta mai su ciò che ha conquistato e sempre si lancia verso l’ignoto in nuove avventure che naturalmente richiedono un caro prezzo da pagare. E anche questi indubbiamente hanno ragione.

Altri ancora dicono che l’inverno trasforma le Alpi (e tutte le montagne) in un mondo che in estate non esiste e che riporta le stesse Alpi al tempo degli inizi dell’alpinismo, in cui ancora tutto era da fare. Dice Dougal Haston che in inverno tutto ritorna come allora, che non si incontrano cordate a destra e a sinistra, che sulla vetta non ci sono lattine di birra, scatolette, rifiuti di ogni genere, in quanto la neve pietosamente li ricopre. I rifugi sono deserti e chiusi, nessuno sulla via ti incalza di dietro, cercando di sorpassarti per dire poi agli amici del gruppo che ha fatto la tal via in sole tre ore! Ma lo stesso Haston, che purtroppo è perito nell’inverno del 1977 a causa di una slavina che lo ha travolto, conclude dicendo che il prezzo che si paga è molto alto. E anche lui certamente ha ragione.

Ma quali sono i problemi dell’alpinismo invernale? Innanzi tutto il freddo, com’è facile intuire, ma che poi non è il peggiore nemico. Con un’attrezzatura adeguata il freddo diventa tollerabile, ammesso che si sia armati di pazienza infinita e già fin dalla partenza si sia ben consci di ciò che ci attende durante i bivacchi lunghissimi, che durano a volte più di 14 ore! È chiaro che le parti più esposte sono le estremità: i piedi e le mani. Frequenti sono i casi di congelamento riportati agli arti durante le salite invernali e notevoli sono gli sforzi dei costruttori di materiali per cercare di ridurre questo grave pericolo. Ma vi sono situazioni in cui l’arrampicata con i guanti è impossibile e si deve procedere a mani nude con temperature di parecchi gradi sottozero. Con il risultato di dover poi riattivare la circolazione con massaggi vigorosi e patendo le pene dell’inferno per l’inevitabile «bollita».

Il vento piuttosto è un nemico temibilissimo, che rende il freddo insopportabile, che fa penetrare il gelo fin nelle ossa, che solleva turbini accecanti di neve, che con il suo frastuono di notte fa sbatacchiare la tendina e rende impossibile il sonno, che rende nervosi e che priva del senso dell’equilibrio. La neve può essere amica o nemica. A seconda dei casi, può facilitare una salita o renderla enormemente più difficile. Generalmente la neve trasforma le marce d’approccio in penose «via crucis»: infatti non sono pochi i fieri propositi di salita invernale che si sono spenti durante le marce d’approccio. A volte per raggiungere la base della parete si cammina uno, due, anche tre giorni sprofondando ad ogni passo nella neve, gravati da zaini che pesano intorno ai 30 chili; camminando a piedi, infatti il più delle volte su certi terreni l’uso degli sci e delle racchette si rivela impossibile. Eppure chi si è cimentato con questo genere di imprese sa fino a che punto possa giungere la volontà di salire, la tenacia di andare sempre avanti, chinando la testa e facendo un passo dietro l’altro come bestie da soma con le cinghie del sacco che segnano dolorosamente le spalle; sa fino a che punto si sia capaci di soffrire, fino a che punto si possa resistere prima di accettare la sconfitta.

Dunque, ammesso anche che in queste imprese agisca la molla dell’ambizione, esse si pagano assai care. Eppure… eppure proprio in quei giorni di privazione assoluta, proprio in quell’ambiente siderale dove non vi è più nulla di vitale, proprio in un regno dove dominano incontrastati la pietra, il ghiaccio, la neve, il vento, dove più non esiste l’acqua, la terra fertile, il verde, gli animali, si dice che proprio qui le cose più insignificanti in pianura acquistino un valore enorme e perduto.

Il calore di una fiamma, il sorso bollente del tè, la luce di un fiammifero, il piacere di una sigaretta, la sicurezza protettiva dell’esile telo della tendina…

Ritornati in pianura ormai ci si scopre diversi, mutati, divisi ormai da molti altri da un ponte invisibile. Si vorrebbe cercare di far capire, di comunicare, ma questo è impossibile.

Quasi con un senso di pena infinita, si scorgono mille aspetti che un tempo non si riuscivano a vedere e si vorrebbe fare qualcosa, ma in realtà non si può fare niente. Si è varcato il ponte e non si può più tornare indietro (o forse si può, ma non tutti sono capaci ed hanno il coraggio di farlo): al di là del ponte ci si ritrova soli più che mai e solo dopo molto cammino lungo la pianura si incontreranno poi i compagni di gioco.

Così è dunque l’alpinismo invernale. Un’esperienza che si incontra sul cammino, un’esperienza che lascerà il suo segno per sempre. A volte ci si rivede seduti su di un misero terrazzino intagliato nel ghiaccio ad aspettare pazientemente che il disco di fuoco compaia all’orizzonte. Ancora si sentono i brividi che mordono la carne, ancora si aspira l’aria secca e bruciante, che profuma quasi di ammoniaca. Ancora si vive quella sensazione strana di nulla e di vuoto, quell’assenza di vita, quel silenzio siderale, ancora vengono alla mente i pensieri che correvano al caldo letto, alla dolcezza della compagna lasciata laggiù, al tepore del suo corpo, alla bellezza dei lunghi discorsi fatti sdraiati nei campi nelle notti di vento d’estate, all’acqua, soprattutto all’acqua, all’acqua che sgorga pura e cristallina, all’acqua che scorre sul viso accaldato, alla «grande acqua», al mare, al mare dove ci si tuffa caldi e sudati dopo aver arrampicato sulle bianche scogliere di calcare. E se ci si guarda là, non ci si vede poi tanto male. Quasi, se fosse possibile, si correrebbe sullo stesso terrazzino per fare una carezza a noi stessi, con un sacco di tenerezza. Perché questa in fin dei conti è anche la vita, dove il dolore è una parte importante, tanto quanto il piacere. E lo stesso discorso vale per l’alpinismo solitario e per quello himalayano.

Le tappe dell’alpinismo invernale
Abbiamo dunque detto che all’inizio si cominciò a salire in inverno sulle vette dei monti che già in estate erano state salite. Già abbiamo parlato del professor Hugi e delle sue salite invernali, dell’impresa di Martelli, Vaccarone e Castagneri sull’Uia di Mondrone, delle tante salite dei Sella realizzate sul Monte Bianco e sul Monte Rosa. Ma per giungere al punto in cui iniziò l’attacco alle «grandi pareti» in inverno, bisogna portarsi agli anni della Seconda guerra mondiale. Infatti, nel 1938 gli austriaci Fritz Kasparek e Sepp Brunhuber vincono in inverno la via Comici sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo. A questo punto si rende necessaria una precisazione: in inverno, per ovvi motivi di innevamento, risultano assai più difficili le pareti caratterizzate da placche inclinate, da fessure, da camini, piuttosto che le pareti strapiombanti, dove la neve non si ferma e dove l’unico ostacolo è rappresentato dal freddo. Anche le creste e gli spigoli non offrono generalmente grosse difficoltà, in quanto la costante attività del vento le «ripulisce» dalla neve che vi si accumula. Vedremo infatti come le realizzazioni invernali più difficili e rischiose siano state quelle effettuate su pareti caratterizzate da camini (la Solleder al Civetta, la Vinatzer alla Marmolada) oppure da placche inclinate (la Nord-est del Pizzo Badile).

Nel nostro esame saremo molto veloci e parleremo soltanto di quelle poche imprese che hanno determinato l’evoluzione in una certa direzione.

Del 1950 (19-20 marzo) è la prima invernale della via Soldà sulla Marmolada, compiuta da Hermann Buhl e Kuno Rainer, sicuramente più difficile e problematica della via Comici alla Lavaredo, in quanto l’arrampicata si svolge lungo camini molto incassati e profondi, intasati di neve e ricolmi di ghiaccio traslucido.

La prima grande impresa sulle Alpi Occidentali è del 1957, anno in cui i fortissimi Jean Couzy e René Desmaison vincono la parete ovest del Petit Dru lungo la via Magnone. Impresa dunque eccezionale, anche se la parete è abbastanza ben esposta ai raggi solari e, se in buone condizioni, si presenta spesso asciutta e spoglia di neve. Non per nulla la parete nord dello stesso Petit Dru sarà vinta solo nel 1964 dai francesi Georges Payot, Gérard Devouassoux e Yvon Masino (8-9 gennaio 1964). Il versante nord infatti offre problemi molto più seri, a causa del ghiaccio che incrosta ogni fessura e della neve che rende estremamente difficili dei tratti di parete che in estate sono di III e IV grado.

Un’impresa che fece epoca e che veramente determinò un nuovo orientamento (ed anche la possibilità di cimentarsi su pareti analoghe che ancora non si aveva il coraggio di affrontare) fu l’invernale della parete nord dell’Eiger, compiuta nel 1961 (dal 6 al 12 marzo) da Toni Hiebeler, Anderl Mannhardt, Toni Kinshofer e Walter Almberger. Fu il capolavoro di Toni Kinshofer e fu anche la prima impresa invernale in cui il problema dei viveri e dell’attrezzatura venne affrontato e risolto con rigore quasi scientifico. Vi è da dire però che la Nord dell’Eiger in inverno praticamente non presenta i pericoli dati dalle cadute dei sassi, in quanto il gelo li trattiene. Piuttosto in caso di cambiamento del tempo essa può divenire una trappola mortale, in quanto le cadute di valanghe rendono pressoché impossibile sia la ritirata come l’uscita verso l’alto.

Del 1962 è l’invernale della parete nord del Cervino, compiuta da Hilti von Allmen e Paul Etter il 3 e 4 febbraio, impresa notevolissima, ma superata dal punto di vista della concezione e della difficoltà dall’invernale di Bonatti e Zappelli (25-30 gennaio 1963) della via Cassin sulla parete nord delle Grandes Jorasses, realizzata in stile elegantissimo, in un solo tratto dalla base alla vetta, senza installazione di corde fisse e senza alcuna «preparazione» precedente. Va anche detto che l’impresa fu conclusa in condizioni ambientali durissime (bufera di neve e temperatura a -35° C!). Essa resta certamente come una delle realizzazioni più significative di tutta la storia dell’alpinismo.

Di importanza determinante è la salita invernale compiuta da Bonatti sulla Nord del Cervino nell’inverno 1965, di cui già si è detto. In questa sede preme sottolineare il fatto che Bonatti in quell’occasione riuscì a dar corso ad una nuova era aprendo da solo ed in inverno una nuova via. Ciò non era mai stato fatto e in seguito potrà soltanto essere imitato, almeno sulle Alpi. Si potrà dire qualcosa di nuovo il giorno in cui qualcosa del genere sarà fatto in Himalaya, ma per ora Bonatti (dal punto di vista della concezione, sia chiaro) resta insuperato.

Da mettere sul piano della Nord delle Jorasses, anzi probabilmente più ardua dal punto di vista tecnico e più problematica per l’innevamento, è l’invernale della via Solleder al Civetta, compiuta nel 1963 (dal 4 al 7 marzo) da Ignazio Piussi, Giorgio Redaelli e Toni Hiebeler. Se la Nord dell’Eiger fu il capolavoro di Kinshofer, si può asserire con certezza che l’invernale della Solleder fu il capolavoro di Ignazio Piussi, il quale condusse da primo di cordata tutta la salita.

La via Solleder è caratterizzata da tutta una serie di enormi camini, che già in estate si presentano assai problematici per le cascate d’acqua. In inverno la neve vi si accumula, in quanto l’attività del vento sulla parete è pressoché assente. Inoltre il ghiaccio ricopre la roccia e le fessure, rendendo la progressione assai problematica. Certamente, dal punto di vista tecnico, l’invernale della Solleder può essere considerata come una delle massime realizzazioni, mentre invece dal punto di vista della difficoltà psicologica essa è superata da imprese come il Pilone del Frêney e come la parete est del Grand Pilier d’Angle, dove le difficoltà d’approccio e di isolamento sono più considerevoli.

E giungiamo alle tecniche di progressione americane, cui si fece ricorso per risolvere alcuni problemi che probabilmente all’epoca erano risolvibili solo in questo modo. Toccherà alle generazioni future dimostrare che queste pareti possono anche essere vinte in stile alpino. In sostanza vi sono due modi di affrontare la parete con tecnica americana: nel primo modo generalmente procedono due cordate di due elementi, dove la prima cordata si innalza senza carichi e il più rapidamente possibile fissa tutta una serie di corde in parete. Lungo queste corde fisse si innalza la seconda cordata, che ha il compito gravoso di issare i sacchi con tutto il materiale. I bivacchi vengono compiuti in modo strategico, ossia si utilizzano sulla parete dei punti di bivacco comodi e sicuri, ai quali si ritorna (lasciando le corde fisse per la risalita) fin quando non si raggiunge un altro punto adatto più in alto. In questo stile, ancora molto elegante e corretto, in quanto la salita viene compiuta tutta in un sol tratto e mai si ritorna alla base, venne realizzata dalle guide di Chamonix Michel Feuillarade, Yannick Seigneur, Claude Jager e Jean-Paul Paris una via nuova in pieno inverno (1967) sulla parete nord del Petit Dru.

La parete nord del Petit Dru d’inverno

Il secondo modo, meno elegante e corretto, consiste nell’affrontare la parete con una serie di assalti successivi, ritornando ogni volta alla base ed alternando gli uomini al comando della cordata di punta. Le risalite vengono garantite dalle corde fisse lasciate in parete. Sulla stessa parete si installano poi alcuni campi-bivacchi perfettamente attrezzati (viveri di riserva, bombolette di gas liquido, materiale da bivacco, radio ricetrasmittenti ecc.) in modo da non dovere ridiscendere ogni volta alla base. In tal modo fu realizzata una via diretta sulla parete nord dell’Eiger nell’inverno del 1966, da due gruppi di alpinisti: uno tedesco e l’altro anglo-americano. Il gruppo tedesco era guidato da Peter Haag affiancato da alpinisti di eccezionale bravura come Jörg Lehne, Günther Strobel, Sigi Hupfauer e Roland Votteler. Il gruppo anglo-americano invece era guidato da John Harlin, il quale aveva concepito la salita ed aveva preparato tutto il piano tattico e organizzativo. Al suo fianco vi era un alpinista come Dougal Haston, certamente uno dei migliori del dopoguerra, degno di stare al fianco di un Bonatti, di un Desmaison o di un Messner. L’inglese Haston non solo ha praticamente ripetuto tutti i grandi itinerari della catena alpina, ma va ricordato per un gran numero di vie nuove aperte e per numerose imprese invernali di eccezionale valore. Ma soprattutto il suo apporto sarà determinante alle spedizioni inglesi che hanno vinto la parete sud dell’Annapurna e la Sud-ovest dell’Everest. Haston è sempre stato l’uomo del ghiaccio e del misto ed è proprio su questi terreni che ha saputo esprimersi al meglio. Con John Harlin aveva fondato a Leysin, in Svizzera, una scuola di alpinismo internazionale assai reputata.

Ritornando alla direttissima dell’Eiger, dapprima i due gruppi agirono in concorrenza, ma poi, viste le difficoltà enormi da superare, si unirono negli sforzi. Molto si disse o forse troppo si scrisse su questa salita. Si disse che gli alpinisti dopo il loro turno di permanenza in parete ridiscendevano alla Scheidegg o a Grindelwald e qui si davano a festini dove non mancavano cibo, vino e donne.

Vi furono critiche feroci da parte di molti ambienti alpinistici a riguardo dei metodi usati. In realtà la salita probabilmente poteva essere realizzata solo in quel modo e toccherebbe agli alpinisti di oggi e di domani dimostrare il contrario. Comunque le difficoltà superate furono enormi e gli ostacoli dati dal freddo e dal maltempo resero durissima la salita. Purtroppo durante una risalita delle corde fisse, l’americano Harlin perse la vita a causa di una corda spezzatasi. Anche la conclusione della salita fu veramente drammatica: un altro settore di corde fisse si era spezzato e così alcuni alpinisti furono costretti ad uscire rapidamente verso la vetta, in condizioni ambientali durissime, essendo ormai impossibile ogni ritirata verso il basso. In vetta giunsero infatti Haston, Lehne, Strobel, Hupfauer e Votteler, ma non va dimenticato l’apporto che il fortissimo arrampicatore americano Layton Kor seppe dare nella parte centrale della parete, certamente la più ardua dal punto di vista tecnico. E neppure va dimenticato l’apporto che alpinisti come l’inglese Don Whillans ed il tedesco Karl Golikow dettero nei durissimi tratti di misto. Naturalmente l’esperienza dell’Eiger aprì la strada a molte altre imprese del genere. In teoria (ma solo in teoria) ogni parete può essere vinta con questo metodo, a patto che si trovino il tempo, la voglia ed i mezzi per farlo.

Bisogna invece ricordare che lo stesso anno (qui è un errore: si tratta del 13 febbraio 1967, NdR) René Desmaison e Robert Flematty avevano compiuto l’invernale del Pilone Centrale del Frêney, di cui già si è detto e che dal punto di vista dell’impegno psicologico può forse essere considerata come la più grande impresa invernale realizzata fino ad oggi, escludendo naturalmente la solitaria di Bonatti al Cervino (1).

Nella scia della direttissima dell’Eiger, giungono infatti l’invernale della parete nord-est del Pizzo Badile (anche in questo caso le critiche furono molte, ma non è ancora stato dimostrato che la parete si possa vincere in stile alpino) (2); l’invernale della parete nord delle Droites (che invece in seguito è stata vinta in stile alpino); le salite dei giapponesi sempre sulla parete nord dell’Eiger; l’impresa di Desmaison, Bertone e Claret sulla Nord delle Jorasses e tutta una serie di realizzazioni invernali compiute dai fratelli Rusconi di Valmadrera, coadiuvati da alcuni alpinisti di Lecco. Anche se vi è da discutere sui sistemi usati, bisogna riconoscere ai fratelli Rusconi ed ai loro compagni una tenacia, una determinazione ed una resistenza psicofisica che hanno dell’eccezionale.

Essi iniziano con la prima invernale della via Piussi sulla parete sud della Torre Trieste (1968), poi nel 1969 ripetono ancora in prima invernale la via delle Guide al Crozzon di Brenta (con Gian Luigi Lanfranchi e Roberto Chiappa), impresa di estrema durezza ambientale, certamente una delle più notevoli realizzazioni invernali delle Dolomiti. Poi dal 14 al 19 marzo 1970 aprono la via del Fratello, una nuova via sulla parete nord-est del Pizzo Badile, a prezzo di ripetuti assalti. Nel 1971 sono ancora in Val Bondasca e con gli alpinisti Giuliano Fabbrica, Giorgio Tessari ed Heinz Steinkötter aprono una nuova via dal 4 al 15 febbraio sulla parete nord del Pizzo Cengalo. Comunque le loro imprese più prestigiose vanno collegate alla parete nord-ovest del Civetta, dove nell’inverno del 1972 essi aprirono una direttissima compresa tra la Solleder e il diedro Philipp-Flamm e soprattutto dove nel febbraio 1973 Giovanni Rusconi con i giovani Tessari, Fabbrica e Gian Battista Crimella, effettuò la prima invernale, ambitissima dai migliori scalatori d’Europa, del famoso diedro Philipp-Flamm. Durante quest’impresa le corde fisse furono usate solo in un tratto della parete iniziale; dunque essa va inserita tra le massime realizzazioni dell’alpinismo invernale e testimonia il valore alpinistico dei lecchesi.

Se invece ci portiamo nelle realizzazioni compiute in stile alpino, troviamo l’invernale della via Vinatzer sulla parete sud della Marmolada, compiuta nel 1967 da Walter Spitzenstatter e da Otto Wiedmann, impresa rimarchevolissima, forse superiore alla stessa invernale della Solleder, e resa ancor più dura dalle pessime condizioni ambientali incontrate dai due salitori.

Magnifica anche l’impresa compiuta dai fratelli Messner nell’inverno del 1967, quando essi vinsero in stile elegante e veloce la difficile parete nord della Furchetta (via Solleder).

Se ci portiamo sulle Alpi Occidentali, spicca la prima invernale della via Bonatti-Gobbi al Grand Pilier d’Angle, realizzata da un gruppo di alpinisti polacchi guidati dal fortissimo Andrzej Mróz nel marzo 1971. Secondo alcuni, quest’impresa è la più notevole che mai sia stata compiuta fino ai giorni nostri, non solo per la somma di difficoltà superate su ogni terreno, ma soprattutto per le dure condizioni ambientali incontrate dai primi salitori e per lo stile elegante con cui l’impresa fu condotta a termine.

Ancora sulle Alpi Occidentali dobbiamo ricordare per l’eleganza e la rapidità con cui fu realizzata, la prima invernale della lunga cresta integrale di Peutérey, tremenda maratona compiuta nell’inverno 1973 dai francesi Seigneur, Louis Audoubert, Michel Feuillarade, Marc Galy e dai due fratelli valdostani Oreste e Arturo Squinobal. Della storia di oggi è la prima salita del vertiginoso Couloir nord del Dru, vinto in inverno da Walter Cecchinel, magnifico arrampicatore e specialista del ghiaccio puro, e da Claude Jager.

Ci preme, ancora una volta, riportare l’autorevole giudizio di Lucien Devies, a commento di quest’impresa compiuta dal 28 al 31 dicembre 1973: «La riuscita di questo itinerario, che costituiva una fantastica sfida, è uno dei più grandi exploits che mai siano stati compiuti, per l’estrema difficoltà e per l’impegno totale che richiede, caratterizzato da un’enorme tensione psichica e morale».

Ma sicuramente la più dura impresa realizzata sulle Alpi Occidentali in questi ultimi anni (ed una delle più significative di tutti i tempi) è la prima invernale della grande muraglia nord-ovest dell’Ailefroide superata lungo la via Gervasutti-Devies dal 19 al 23 febbraio 1975 dai francesi Pierre Béghin, Pierre Caubet, Olivier Challéat e Pierre Guillet.

L’isolamento, le difficoltà d’approccio notevolissime, la discesa lunga ed estenuante, l’esposizione sfavorevole della parete che si presenta zeppa di ghiaccio colato e di neve, la lunghezza del tracciato e le fortissime difficoltà tecniche fanno di questa impresa un vero capolavoro di tenacia e di ardimento.

A giudizio di quest’impresa, Lucien Devies ha scritto: «Si trattava del più grande problema invernale di tutto il massiccio. L’impresa era stata preparata con grande accuratezza e fu realizzata in stile alpino con la ferma volontà di affrontare un ambiente selvaggio e severo, che forse nel massiccio del Monte Bianco non esiste più… Questa prima invernale, che si inserisce di diritto ai primi posti tra le realizzazioni di questo genere, è esemplare per la capacità che gli alpinisti hanno dimostrato e per lo spirito che ha animato la sua concezione e la sua realizzazione».

Note
(1) Il giudizio, come in tutti gli altri casi, è riferito al 1977.
(2) La parete nord-est del Pizzo Badile verrà salita in stile alpino nell’inverno 1980-81 dagli svizzeri Marco Pedrini, Michel Piola e Danilo Gianinazzi.

L’alpinismo invernale ultima modifica: 2025-03-16T05:36:00+01:00 da GognaBlog

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10 pensieri su “L’alpinismo invernale”

  1. Non è sicuro e nemmeno provato ma che “dentro” certe imprese invernali vi sia una traccia di monastica autoflagellazione ,una ricerca quasi di espiazione di chissà che e quali mali è visibile quasi quanto un impronta nella neve.
    Un invisibile mistica ragione che non è chiara nemmeno mentre scali,dove se anche tiri moccoli impronunciabili nessuno ti sente e tutto attorno ti perdona.

  2. Insomma, non si capisce molto quale via consideri Motti come la più impegnativa perché lo sono un po’ tutte. Specie se descritte così.
    Sulla storia dell’alpinismo in generale ha prodotto capitoli nei quali era più in forma.

  3. Uno dei più begli scritti che abbia mai letto di Motti, che dà voce a tutte le emozioni vissute da chi vive la montagna intensamente.

  4. Nel 1968 Ercole Martina scrisse ‘Alpinismo Invernale’ con i resoconti di moltissime salite su tutte le Alpi. Si trova in molte biblioteche di sezioni CAI.
    Saluti.
    Ms

  5. Non c’e solo l’alpinismo invernale delle celebrate e famose cime e pareti delle Alpi e Dolomiti. Nell’inverno del 1969 due giovani alpinisti di Pisa, Marco De Bertoldi e Francesco Cantini, con un bivacco improvvisato, aprirono una via nuova sulla parete nord del Pizzo d’Uccello, a sinistra della via Oppio, in Apuane. Nella parte terminale, dopo il bivacco, Marco DeBertoldi si fece dare la piccozza del compagno per superare, con due picche, una verticale colata di ghiaccio. Una grande salita di misto d’avanguardia passato in sordina dove fu usata una sorta di piolet tration improvvisata.

  6. Ma si può ancora chiamare alpinismo invernale quello attuale? Certo dialetticamente si, ma il fatto di potere e sapere scalare qualunque parete con 2 ganci (le 2 moderne picche) non pone qualche domanda? Potrei benissimo salire la Solleder d’estate con le picche. Chi me lo vieta? quale etica? Il calendario? E poi, ci scandalizziamo se faccio dry sulle falesie per l’arrampicata su roccia perché spacco gli appigli ecc ecc, però sul Dru lo posso fare perché ogni tanto trovo un po’ di ghiaccio? Molti dubbi…

  7. Contro l’eroismo dei santi e dei santoni vale l’esempio di Gesù. Anche lui ebbe la tentazione della vita eremitica, ma dopo quaranta giorni passati nel deserto a mangiare lombrichi preferì tornare a casa e riunire gli amici alle nozze di Cana.

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