Le Dolomiti del primo Novecento – 1

Le Dolomiti nel primo Novecento – 1
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-17)

Alpinisti tedeschi e austriaci e guide italiane
Generalmente si crede che l’evoluzione dell’alpinismo dolomitico sia merito esclusivo degli alpinisti austriaci e tedeschi, che trasportarono la loro tecnica d’arrampicata dai monti calcarei del Kaiser alle Dolomiti. Ciò è vero solo in parte.

Effettivamente in un primo periodo l’esplorazione delle Dolomiti fu condotta da alpinisti stranieri (inglesi, tedeschi e anche ungheresi), ma al loro fianco agivano sempre (o quasi sempre) guide italiane. Bisogna ricordare che il merito di una salita e il nome della via aperta su una montagna andavano sempre al cliente e la guida, che invece il più delle volte si era assunta il compito maggiore sia nella progettazione sia nella realizzazione, ne restava un po’ adombrata. Il vero e grandissimo merito di queste guide fu riconosciuto solo dopo studi condotti sull’alpinismo dolomitico, che in verità era un po’ snobbato dagli ambienti occidentali e dalle riviste di alpinismo italiane. Anche in seguito, quando i senza guida realizzeranno imprese di eccezionale valore, dando inizio all’epoca del sesto grado, gli ambienti occidentali e la Rivista Mensile del CAI non daranno il giusto valore a queste imprese, rivendicando una presunta superiorità dell’alpinismo sulle Alpi Occidentali. Ciò genererà una polemica lunga ed inutile tra occidentalisti ed orientalisti, che sarà placata dapprima dagli studi di Domenico Rudatis sull’alpinismo dolomitico sul Gruppo del Civetta (studi che però per certi versi, come vedremo, non faranno che irritare ancor più gli ambienti occidentali) e poi dalla venuta di alpinisti dolomitici (Giusto Gervasutti, Riccardo Cassin e Vittorio Ratti) sulle Alpi Occidentali e con la dimostrazione con i fatti della loro superiorità tecnica.

Angelo Dibona. Archivio Carlo Gandini

Comunque, fino alla Prima guerra mondiale, l’iniziativa tedesca ed austriaca sulle Dolomiti sarà notevolissima, raggiungendo risultati eccezionali: ben poche saranno le guide italiane che sapranno far fronte a questo assalto. Invece, dopo la guerra, gli stati dell’Impero Austro-Ungarico si verranno a trovare in situazioni sociali ed economiche assai difficili. Anche in Italia la guerra lascerà una situazione di generale insoddisfazione e di rivendicazione, producendo una situazione in cui potrà nascere il fascismo. La diffusione dell’alpinismo agli strati sociali inferiori sarà rapidissima e proprio l’alpinismo sarà accolto con enorme favore dalle classi sociali meno abbienti, le quali vi troveranno un mezzo di affermazione e di riscatto. Comunque, per austriaci e tedeschi, data la complicata situazione economica, raggiungere le Dolomiti diverrà molto difficile (essi erano ormai in maggioranza studenti ed operai): non per nulla tra le due guerre l’iniziativa sarà soprattutto italiana.

Abbiamo visto precedentemente che il Campanile Basso di Brenta praticamente fu l’ultima vetta ad essere conquistata e la sua salita chiuse un ciclo pionieristico in cui non si mirava certo alla via difficile, ma piuttosto si cercava di salire in vetta ad una torre dolomitica lungo la via più facile. Abbiamo anche visto che la più grande guida di quel periodo fu Michele Innerkofler. Ma la nuova concezione dell’alpinismo non poteva tardare a trovare favore anche negli ambienti italiani, che forse ancora non riuscivano ad imitare le imprese un po’ temerarie degli Zsigmondy, di Ludwig Purtscheller o di un Georg Winkler.

Tra i primi protagonisti del Novecento dobbiamo ricordare i nomi di Michele Bettega e Bortolo Zagonel, le cui imprese sono quasi sconosciute per i motivi che già prima abbiamo espresso. Importantissima fu nel 1901 la prima salita della parete sud della Marmolada (effettuata con l’alpinista inglese Beatrice Thomasson), lungo un itinerario di estrema logicità e di notevole difficoltà, più volte tentato invano da altri alpinisti. Lo studioso di alpinismo dolomitico Piero Rossi scrive: «L’alpinismo italiano è in una condizione di inferiorità, ma spesso è anche il silenzio che avvolge nobilissime imprese, sia con guide che senza guide. Il grande alpinismo italiano pecca di provincialismo e le Dolomiti non sono conosciute. Sarà, d’altronde, necessaria una ventata di nuove concezioni, perché gli alpinisti italiani sappiano affrontare senza complessi imprese che, per i cultori delle ascensioni classiche sulle “grandi Alpi”, appaiono ancora inconcepibili, ammesso che se ne siano mai posto il problema. Per ora, è ancora agli inizi una preziosa produzione letteraria, che rivelerà le Dolomiti agli alpinisti italiani, grazie soprattutto alle monografie di Arturo Andreoletti sulle Dolomiti Agordine ed alla monumentale opera di Antonio Berti, il Poeta delle Dolomiti. Per questo debbono essere maggiormente ammirati oscuri pionieri la cui arditezza di concezioni appare, ancora oggi, troppo elevata per riuscire pienamente comprensibile» (Piero Rossi, in I cento anni del Club Alpino Italiano).

In questo periodo tutto il mondo alpinistico straniero gravita intorno a Cortina d’Ampezzo, che tra l’altro era anche il centro montano più facilmente raggiungibile all’epoca. Gruppi montuosi assai importanti, come il Civetta, erano ancora un po’ negletti, forse anche per le notevoli difficoltà che le pareti offrivano agli alpinisti. Ed è proprio un cortinese, Antonio Dimai, una delle più grandi guide di questo periodo. Va detto che quella dei Dimai fu una vera e propria dinastia di guide, legata a tutta la storia dell’alpinismo dolomitico. Di lui, ancora Piero Rossi dice: “Con Antonio Dimai si apre, nelle Dolomiti, una serie di ascensioni che resteranno ‘classiche’. Sono le vie di elevata difficoltà, superabili in arrampicata libera, per i versanti più arditi e più logici ad un tempo. Quelle che ogni alpinista di capacità media ambisce di percorrere. Sono le vie dove, in genere, le difficoltà si aggirano sul IV grado, anche se talvolta lo superano. Sono ascensioni di concezione nuova, che caratterizzano l’alpinismo dolomitico e gli attribuiscono una sua fisionomia inconfondibile. Sono le ascensioni dove ci si libra nell’ebbrezza del vuoto. Alla ricerca di queste vie Antonio Dimai mette a profitto il suo fiuto infallibile e il suo occhio sicuro nella ricerca del passaggio. Agostino Verzi mette, spesso, la sua eccezionale maestria a disposizione per il superamento di un passaggio chiave. Sono maestri indiscussi e i pur illustri clienti non possono certo vantare un primato neppure di concezione nell’ascensione, anche se, nei resoconti, convenzionalmente, sarà dato ad essi il primo posto. In cambio, i libretti delle guide ospiteranno i loro elogi, sempre ben meritati. Non siamo ancora alla guida nel senso più moderno, ma è certo che con Dimai, la figura della guida acquista prestigio e signorilità” (art. cit.).

Gli «illustri clienti» sono i Phillimore, i Raynor, gli Eötvös e i Witzenmann, al cui nome saranno dedicate torri, guglie inscalate e nomi di vie aperte su pareti vergini. Dimai, al fianco dei suoi clienti, conduce un’esplorazione intensissima della montagna dolomitica, con un particolare favore, com’è naturale, per i monti cortinesi: le Tofane, il Pomagagnon, il Popena, i Cadini, le Tre Cime di Lavaredo lo vedono protagonista di magnifiche imprese, dove l’uso di qualsiasi mezzo artificiale è ancora sconosciuto. È bene comunque ancora insistere sul carattere «classico» dell’alpinismo di Dimai: le sue vie scelgono ancora e soprattutto la via più facile, non disdegnando gli andirivieni sulle cenge per evitare i tratti più difficili. Più che la linearità e l’eleganza del tracciato nelle vie di Dimai bisogna ricercare invece l’arditezza della concezione, nell’affrontare pareti dall’aspetto veramente impressionante, in arrampicata puramente libera, dove la sicurezza e la capacità del capocordata dovevano unirsi ad un “fiuto” eccezionale nello scoprire il percorso più facile in una parete difficile. Non siamo ancora quindi alla ricerca del difficile, ma vi giungeremo presto con due grandissimi, Tita Piaz ed Angelo Dibona.

Un fuoriclasse dell’arrampicata: la guida cortinese Angelo Dibona
Durante il periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, gli austriaci non erano certo rimasti inattivi. Le loro cordate di senza guida davano un assalto sistematico alle pareti calcaree del Tirolo e della Baviera, con un’escalation delle difficoltà che procedeva a passi molto rapidi. Fu così che essi cominciarono ad aiutarsi nelle loro salite con qualche chiodo, per altro assai rudimentale, usato spesso più per rendere sicuri i punti di fermata, molto esposti ed aerei sulle pareti calcaree, che per l’assicurazione o la progressione vera e propria. D’altronde solo l’invenzione del moschettone potrà permettere più tardi lo sviluppo di una tecnica molto più raffinata. Ma prima dell’avvento del moschettone e del chiodo, vi è un periodo fulgido, dove forse l’arrampicata puramente libera tocca il vertice assoluto, con le imprese realizzate in questo stile da Preuss, Dibona, Piaz e Jori.

Naturalmente gli austriaci nelle loro puntate in Dolomiti coglievano successi di prestigio, creando anche uno stimolo per gli alpinisti italiani che ancora agivano un po’ in sordina.

Accanto alle vie aperte sui massicci come il Dachstein, il Kaisergebirge, il Wetterstein, bisogna ricordare le imprese più significative compiute dagli austriaci e dai tedeschi in questi primi anni del Novecento sulle Dolomiti. Come la magnifica impresa compiuta da Rudolf Fehrmann che con Oliver Perry-Smith, nel 1908, superò lo splendido diedro che si eleva sulla parete sud-ovest del Campanile Basso di Brenta fino al cosiddetto «Spallone». Ancora oggi, chi ripete questa via resta ammirato dalla sua essenziale linearità e dall’eleganza del tracciato che, senza deviazione alcuna, si eleva dalla base fino alla vetta sul fondo del diedro, con difficoltà costanti e continue di IV e IV grado superiore e con un paio di passaggi che probabilmente raggiungono o sfiorano anche il V grado. L’eleganza e lo stile “pulito” di queste realizzazioni destano veramente ammirazione e fanno molto riflettere di fronte all’abuso che si fa oggi dei mezzi artificiali di progressione.

Lo stesso Fehrmann, l’anno seguente, sulla parete nord della Cima Piccola di Lavaredo, traccerà un’altra via con caratteristiche assai simili a quella precedente.

A poco a poco, dunque, ci si portava verso livelli, in arrampicata libera, di ardimento eccezionale. E colui che veramente seppe alzare ancor di più questi livelli fino a portarli alla soglia del limite della libera arrampicata senza mezzi artificiali, fu Angelo Dibona, unanimemente riconosciuto come uno dei più grandi alpinisti che siano mai esistiti, il primo che seppe dar dimostrazione di completezza assoluta, realizzando imprese di prim’ordine sia sulle Dolomiti che nelle Alpi Occidentali.

Dibona era un vero e proprio fuoriclasse, un artista dell’arrampicata su roccia. Un giorno gli fu chiesto quanti chiodi aveva adoperato ed egli rispose: “Oh, pressappoco quindici!”. L’interlocutore gli chiese allora se quei pochi chiodi fossero stati usati durante una sola ascensione, ma Dibona candidamente rispose: “Oh, no, in tutto!”.

Dunque Dibona è sinonimo di arrampicata libera. Ed egli è anche una delle prime e pochissime guide ad assumere (come anche Piaz) iniziative personali, realizzando imprese per proprio conto, anche se in quasi tutte le sue ascensioni fu fedele guida dei fratelli Guido e Max Mayer, con i quali tuttavia aveva rapporti più di amicizia che di “lavoro”. Il quarto uomo del gruppo è la guida Luigi Rizzi della Val di Fassa, anch’egli arrampicatore di rara bravura. Ma cosa sorprende in Dibona è il coraggio nell’affrontare pareti di aspetto decisamente insuperabile, dove nessuna via ancora era stata tracciata e dove più tardi si salirà solo con largo impiego di mezzi artificiali. È il caso della Parete Rossa della Roda di Vael (Catinaccio): anche se l’itinerario di Dibona è un po’ laterale rispetto al centro della parete, la sua salita del 1908 con Edward Alfred Broome, Hanson Kelly Corning e Agostino Verzi resta un evento di importanza storica. È il caso della parete nord di Cima Una, alta 800 metri, dove Dibona realizzò un’impresa quasi leggendaria, superando difficoltà di V grado senza mezzi artificiali. O ancora la parete altissima ed impressionante del Croz dell’Altissimo (Brenta) dove Dibona, sempre senza ausilio artificiale, superò addirittura tratti di V grado superiore! Su questa parete, alta 1000 metri, Dibona realizzò veramente il capolavoro: peccato che la sua via non verrà ripetuta con la stessa purezza di stile (se si esclude la prima ripetizione del grandissimo Preuss), ma si ricorrerà a molti chiodi dove il cortinese era passato esclusivamente in libera.

Per altri il suo capolavoro è invece la salita della parete nord del Laliderer (Karwendel), alta 900 metri e di roccia friabile, la prima via aperta su questa immensa parete, sulla quale in seguito solo i più grandi fuoriclasse austriaci dell’arrampicata libera, come Ernst Krebs, Mathias Rebitsch ed Hermann Buhl, sapranno esprimersi realizzando imprese che forse nel loro genere non saranno eguagliate. Comunque la sua via anche oggi è giudicata con il più grande rispetto dagli alpinisti ed egli resta uno dei pochissimi italiani ad avere aperto vie sui monti austriaci in quel periodo.

Interessante è anche la sua via aperta sullo spigolo che si affaccia sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo, non tanto per le difficoltà superate, probabilmente inferiori a quelle realizzate in altre imprese, ma perché costituisce il primo avvicinamento e la prima «presa di contatto» con la parete nord di questa montagna, il cui aspetto e le cui difficoltà all’epoca erano insormontabili.

Ancora prima di Giusto Gervasutti e di Riccardo Cassin, Dibona fu il primo dolomitista a trasferire la sua azione nelle Alpi Occidentali, con risultati di grandissimo valore. Risultati che furono certamente apprezzati, ma che destarono anche critiche dagli ambienti occidentali e soprattutto inglesi, i quali si mostrarono preoccupati per il timore che questo genere di scalate degenerasse in “una specie di funambolismo!”.

Tra le realizzazioni più significative, spiccano la salita della parete sud della Meije, dove era caduto il grande Emil Zsigmondy, alcune magnifiche ascensioni nel Gruppo degli Écrins, la cresta nord dell’Ailefroide, montagna severa, poderosa e complessa, e la prima salita di una guglia granitica e vertiginosa, detta ora Aiguille Dibona, per quanto concerne il massiccio del Delfinato.

Incisiva fu anche l’attività svolta nel Gruppo del Bianco, dove soprattutto spiccano due salite di rilievo: l’Aiguille du Pian da sud-est e la cresta est-nord-est della Dent du Requin, una magnifica arrampicata su roccia, divenuta oggi una classica del massiccio. Certo l’attività alpinistica di Dibona non si arresta all’elenco di queste poche imprese più significative, anche perché il cortinese praticò l’alpinismo fino a tarda età, avviando i figli alla stessa passione e dimostrando di essere un «uomo della montagna» nel senso più compiuto della parola. Più che altro, in quest’analisi breve e sintetica si è cercato di mettere a fuoco l’importanza di Dibona e ciò che egli seppe esprimere nella storia dell’alpinismo: purezza di stile nella realizzazione, completezza su ogni terreno alpino, coraggio di affrontare pareti al tempo giudicate insuperabili. Basta citare ancora una volta come esempio la famosa via aperta sulla parete del Laliderer, giudicata anche dagli austriaci come la più grande e difficile scalata su roccia realizzata in quell’epoca. Ma anche sul terreno delle Alpi Occidentali, la dimostrazione del suo valore e della sua bravura era stata palese: la via del 1913 aperta lungo il grande couloir della parete nord-ovest del Dôme de Neige des Écrins parve a Mayer ancora più difficile delle altre imprese realizzate prima. Va detto però che la salita fu compiuta con pessime condizioni di tempo, ma malgrado ciò non fu utilizzato nemmeno un chiodo. Il commento della guida francese, redatto da Lucien Devies, dice: «Fu l’ultimo ed allo stesso tempo il più importante dei tre exploit realizzati dalla cordata Dibona-Mayer nel Delfinato… È una grande salita a carattere misto in un ambiente molto severo. La parte nevosa, costituita dal grande couloir della parete, è sotto la minaccia costante di scariche di sassi… Nella parte superiore rocciosa, la scalata è esposta e la roccia è molto friabile» (Lucien Devies, Le massifdes Écrins, Arthaud, 1969).

Ma anche la salita compiuta sulla cresta della Côte Rouge all’Ailefroide fu impresa magnifica e di polso, la prima realizzata su quel versante estremamente selvaggio e tipicamente occidentale. Lo stesso discorso vale per la parete sud della Meije, il terzo grande successo di Dibona e Mayer in Delfinato. Questo è ancora il commento di Devies: “Raggiungere la cresta sommitale della Meije per il versante sud era un problema che gli alpinisti si erano posti ben prima della guerra del 1914. Basti pensare che proprio tentando questa via, il 6 agosto 1885, con Otto Zsigmondy e Karl Schulz, Emil Zsigmondy cadde e si uccise. In un tentativo solitario, nel 1911, Jean de Rufz de Lavison si uccise più o meno nello stesso punto. Così il successo del 1912 nella zona fece l’effetto di un colpo di tuono.

Già celebre per le sue realizzazioni nelle Alpi Calcaree del nord e nelle Dolomiti, la cordata austriaca riuscì in una delle più grandi imprese compiute prima del 1914: non si dimentichi, oggi, che pur avendo esperienza dei primi chiodi moderni, la cordata in questa salita non ne usò alcuno» (op. cit.).

Tita Piaz: il “Diavolo delle Dolomiti”
In quest’analisi parlando di Dibona si è sempre detto “italiano”, ma è necessaria una precisazione, più che altro necessaria in un discorso con pretese storiche e non certo per ridicoli motivi nazionalistici: Dibona nacque austriaco e solo dopo la Prima guerra mondiale divenne italiano. La specificazione è necessaria, in quanto molti scrittori di montagna, parlando del periodo prima della Grande Guerra, citano tra le guide italiane unicamente personaggi come Piaz, Andreoletti e Jori e non Dibona, in quanto, anche se il discorso pare ozioso, ancora… non era italiano, bensì austriaco. Ed è per questo che su molti testi si legge che Tita Piaz fu la più grande guida italiana di quel periodo e l’unica che aprì vie nuove in numero notevole sulle Dolomiti.

«Tita Piaz è, prima di tutto, un montanaro intelligente, istruito, aperto a tutti i problemi del suo tempo, sacrilegamente ribelle, patriota, geniale, pazzamente innamorato delle sue montagne, insofferente di gerarchie sociali, aspro e indisponente a volte, generoso fino all’eroismo. Con una simile guida, che si ribella a considerare il rapporto professionale in termini di servilismo, i “signori” si sentono ridimensionati. In realtà le vie di Piaz sono “vie Piaz” e basta. Il livello tecnico delle sue imprese è all’altezza dei massimi del tempo; egli è il maggior rivale di Dibona e ciò è tutto dire. In più, la sua carriera proseguirà anche in età avanzata, quando le nuove tecniche e l’inesorabile trascorrere degli anni vorrebbero, secondo la logica, confinarlo nel museo” (Piero Rossi, in I cento anni del Club Alpino Italiano).

Questo il ritratto che Piero Rossi fa di Tita Piaz. Certamente era un uomo straordinario, con un magnifico senso di insofferenza per ogni imposizione che venisse dall’alto. Il suo genuino e simpatico spirito anarchico si rivelava in ogni suo atteggiamento e creò una lunga serie di aneddoti che poi, come sempre, contribuirono a creare la “leggenda” Piaz. Si dice che obbligasse i clienti a fare le corde doppie dalle finestre del rifugio, oppure si racconta che un giorno Piaz portò un sacerdote in vetta ad una delle sue amatissime cime del Catinaccio; giunti in vetta, il tempo volgeva al brutto, tanto che Piaz disse: “Se vuol scendere di qui è meglio che si raccomandi l’anima non a Dio ma a Tita Piaz!”. Evidentemente il sacerdote non ne fu molto entusiasta e si venne ad un diverbio. Piaz allora abbandonò quel poveretto sulla cima per almeno un quarto d’ora, dicendogli che sarebbe andato a riprenderlo solo quando avesse raccomandato la sua anima a Tita Piaz…! Non si sa esattamente quanto vi sia di vero in questi aneddoti, ma si sa che le donne della Val di Fassa si facevano il segno della Croce quando vedevano il Tita e si sa anche che i gendarmi di ogni regime sotto il quale Piaz visse, lo tenevano costantemente d’occhio. Non per nulla Piaz diceva sempre di aver conosciuto le galere di ben tre regimi. Comunque, la sua carica umana era eccezionale e chiunque lo avesse conosciuto, al di là del suo aspetto ruvido e piuttosto brusco, ne scopriva una sensibilità e un calore umano che rendevano indelebile il ricordo di quell’incontro.

L’importanza di Piaz dal punto di vista alpinistico è fondamentale in questo periodo di inizio Novecento: accanto alla notevole attività svolta con i clienti, Piaz fu una delle poche guide a condurre per proprio conto un’attività alpinistica assai sostenuta, dimostrando che la passione e la sete d’avventura erano certamente superiori agli interessi di lavoro. Dopo di lui, sulle Dolomiti come nelle Alpi Occidentali, il suo esempio avrà sempre più seguito e non saranno poche le guide che svolgeranno un’attività di primissimo piano disgiunta dalla loro professione. Va a merito di Piaz l’aver elaborato anche alcune manovre per la discesa in corda doppia (che però molti attribuiscono a Dülfer).

Il regno di Piaz è il Catinaccio e soprattutto le Torri di Vajolet: le salì da ogni versante, in ogni stagione, di giorno e nelle notti di luna piena. Magnifica fu nel 1900 la salita solitaria della parete nord-est della Punta Emma (una cima che si erge di fronte al rifugio Vajolet a cui Piaz diede il nome della cameriera del rifugio stesso), tutta di IV grado (la via Piaz alla Punta Emma ha una lunghezza di corda di V grado inferiore, NdR), un’impresa degna di un Winkler, anche se la modestia di Piaz la mise sempre in secondo piano rispetto all’epica scalata del giovane bavarese. Come Dibona anche Piaz andò a “giocare fuori casa” ed aprì una via nuova sulla temibile parete ovest del Totenkirchl (Kaisergebirge), oggi una classica arrampicata sui livelli del IV grado (superiore, NdR). Del 1911 è la salita dell’elegante ed affilato spigolo sud-ovest della Torre Delago, scalato con Irma Glaser e Francesco Jori, certamente la via più conosciuta e ripetuta di Piaz. Malgrado l’aspetto vertiginoso, l’arrampicata, elegante ed espostissima, si mantiene nel terzo e quarto grado. Di difficoltà ben diversa è la via scoperta invece sul Campanile Toro, dove Piaz si portò verso i limiti dell’arrampicata libera, superando certamente il V grado ed il V grado superiore. Comunque le vie aperte da Piaz sulle Dolomiti sono numerosissime e spaziano su diversi gruppi, dal Catinaccio, al Brenta, al Sella, alle Tre Cime di Lavaredo.

Tipica manifestazione del suo carattere, insofferente di ogni regola e di ogni costrizione, fu la salita della Guglia De Amicis, realizzata nel 1906 ricorrendo ad ingegnosi lanci di corda, che gli permisero di compiere poi una traversata aerea, sospeso ad una corda tesa tra la vetta della guglia stessa ed un’altra torre che le sta di fronte. Naturalmente la salita fece scandalo negli ambienti puristi.

Piaz arrampicò fino a cinquant’anni ed anche in età matura realizzò imprese di tutto rispetto, affinandosi anche nella tecnica dei chiodi e dei moschettoni che gli austriaci avevano portato nelle Dolomiti. Memorabili furono le polemiche e le discussioni su questi temi, soprattutto con l’alpinista Hans Steger, che in quel periodo aveva svolto una grande attività nelle Dolomiti, ma che, pare, avesse il “martello un po’ facile”; ossia, ripetendo itinerari aperti dai primi salitori senza alcun chiodo, si aiutava invece con diversi e svariati aggeggi di quel genere, suscitando naturalmente le ire di coloro che erano passati in arrampicata libera. Per ironia della sorte, Piaz morì a causa di un banale incidente cadendo da una bicicletta senza freni.

Le Dolomiti del primo Novecento – 1 ultima modifica: 2023-07-13T05:30:00+02:00 da GognaBlog

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1 commento su “Le Dolomiti del primo Novecento – 1”

  1. Voilà des hommes qui ne seront jamais oubliés.
    C’est une juste reconnaissance de leur talent.

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