Le Otto Montagne

Le Otto Montagne
di Carlo Crovella

Chi più di me potrebbe esser incuriosito da un libro e dal corrispondente film incentrati sul tema dell’amicizia “virile”?

E’ un tema a me caro, perché lo vivo in prima persona dai mie anni giovanili, senza soluzione di continuità e praticamente con tutti quelli che io definisco i “miei amici”: pochi, anzi pochissimi, ma, appunto, estremamente selezionati secondo criteri molto particolari.

Tanto per sgomberare il campo dai malintesi, i miei rapporti di amicizia sono del tutto privi di quelle implicazioni pruriginose che oggi suscitano una certa curiosità mediatica. Si tratta invece di frequentazioni, magari diradatesi nel tempo, ma ancora intense sul piano emotivo, poiché intrise fin dall’inizio di un sano cameratismo, spartano e scabro, un elemento che, nato in età giovanile, normalmente si prolunga per tutta la vita.

Locandina del film

In queste amicizie non si hanno specifiche aspettative né doveri reciproci, si fa quello che la vita propone o richiede, giorno per giorno, e così ci si dà una mano nel bailamme generale. Sì è come commilitoni in trincea, sotto al fuoco nemico: non c’è tanto spazio per malinconia e rassegnazione.

Nelle mie amicizie virili, spesso, ma non obbligatoriamente, la montagna si è rivelata elemento di coesione esistenziale. Così si diventa “compagni di cordata”, a volte in senso stretto, ma a volte anche solo in termini figurati.

Copertina del libro

In questi rapporti si rintraccia un fil rouge di solidarietà, quanto meno emotiva, ma non è raro che vi sia anche una sottile e implicita competizione, una specie di rivalità che spinge ripetutamente a superarsi l’un con l’altro, come accade per conquistare il ruolo di capo voga negli equipaggi del canottaggio o quello di primo di cordata su roccia.

Il tema è da me così sentito che ho incentrato un romanzo (Chiamami Jack, se n’è parlato anche su GognaBlog) proprio sull’amicizia virile come la vedo io e soprattutto come la “sento” io.

Una visione differente dal quella di Cognetti, per cui il suo libro mi ha lasciato un retrogusto leggermente amaro, perché sa troppo di buonismo esagerato, esasperato, quasi irrealistico.

Paolo Cognetti. Foto: www.premiostrega.it

Proprio di recente ho appreso che nel settore editoriale si sta diffondendo la propensione a utilizzare il termine “cognettata” per identificare queste genere di testi, languidi e strascicati. In effetti il termine risulta assai azzeccato e pare che lo specifico mercato abbia un certo successo, perché le “cognettate” fanno presa.

Da analizzare meglio su “chi” facciano presa. Sui lettori maschi? Dubito, almeno in termini di grandi numeri. Oggi come oggi, i lettori maschi sono in assoluto rari, se non rarissimi, e quei pochi, se interessati a scandagliare l’amicizia “virile”, normalmente ricercano interpretazioni differenti rispetto alle descrizioni di Cognetti.

Piuttosto, mi tornano in mente recenti analisi sul settore della narrativa in generale (cioè non solo di montagna): pare che i relativi lettori, ai tempi nostri, siano sostanzialmente delle lettrici. La lettura, specie della narrativa, è propensione (quasi) esclusivamente femminile. Si potrebbe concludere che le “cognettate” fanno presa sul mercato perché piacciono alle lettrici, avide sì di conoscere i dettagli delle amicizie virili, ma nei termini che colpiscono l’emotività muliebre…

Il libro di Cognetti mi ha dato l’idea di soffrire di questo “difetto” strutturale, anche se (almeno fino a due terzi) acchiappa decisamente chi vi si avventura, maschi compresi. In ogni caso è una lettura che non può assolutamente mancare nel bagaglio culturale di chi “sente” di amare davvero la montagna.

Con tali presupposti non mi aspettavo molto dal film, anche perché le recensioni, uscite a ridosso della prima proiezione, sono complessivamente negative. Insomma, una “cognettata” trasferita sul grande schermo, tra l’altro appesantita da una lunghezza monstre (quasi due ore e mezza).

Fra le recensioni decisamente severe, molto numerose sul web, spicca quella di Adolfo Spezzaferro (nomen omen: come può essere “tenero” un critico che ci chiama così?), rintracciabile sul sito del quotidiano L’identità.

Video della recensione su L’identità del 2 gennaio 2023 a cura di Adolfo Spezzaferro

Per par condicio, è bene riportare la presentazione traboccante di entusiasmo, inserita nella trasmissione Che Tempo Che Fa (RAI 3) del 18 dicembre 2022. Il conduttore Fabio Fazio (noto frequentatore della Val d’Aosta, dove è ambientata la vicenda) ha fatto una “sviolinata” delle sue (quello è il suo costume abituale…): possiamo dire che Fazio ha fatto una “cognettata” sulla “cognettata”.

Tuttavia Fazio, pur nel suo mieloso “volemose tuti ben”, ha colto alcuni aspetti che il film ha forse saputo rendere meglio del libro: l’essenzialità della montagna, gli scarni dialoghi, i silenzi con i quali si dicono più cose che a parlare, il rapporto conflittuale dei due protagonisti con i rispettivi padri, l’analisi della contrapposizione fra chi resta (in montagna) e chi viaggia (per conoscere più montagne).

Video della trasmissione Che Tempo Che Fa (Fabio Fazio) del 18 dicembre 2022

Dunque, con queste recensioni alle spalle, mi sono spinto in centro e sono entrato in un cinema. Il film registra alcune discrepanze rispetto al libro: poca roba, ma il lettore attento le nota. La principale è che la contrapposizione “montagna-città” nel libro è incentrata su Milano (città di Cognetti), mentre nel film coinvolge Torino. La scelta del film (presumo dovuta a esigenze di produzione) è meno azzeccata. Milano, tentacolare e frenetica, è sempre in movimento e rende meglio l’idea dei ritmi metropolitani e dei rapporti umani spesso ridotti a scheletri asettici. Torino è più sonnacchiosa, circondata com’è dal semicerchio alpino, è un caldo salotto che rassicura i suoi assidui frequentatori, e poi in lei si annida un notevole “animus montagnino”, per cui il contrasto con le vallate è molto meno accentuato.

Paolo Cognetti nel 2010. Foto: wikipedia.

Dopo la visione del film, mentre uscivo dal cinema, ho incontrato un amico alpinista, che stava entrando per lo spettacolo successivo. Inevitabile che mi chiedesse l’opinione. Utilizzo qui le stesse rapide, “essenziali”, riflessioni che gli ho esposto.

Il film mi è piaciuto in assoluto e, in particolare, mi è piaciuto più del libro. Non l’ho trovato affatto una “cognettata” esasperata (mentre il libro sì, specie nel terzo finale). Certo, non è un film adatto a chi ama le pellicole americane tutte inseguimenti e sparatorie. Bisogna avere un notevole resistenza di fondo, come per affrontare una gita scialpinistica con lunghi falsopiani e molto spostamento: si suda, ma non si guadagna facilmente il terreno verso la cima.

Chi nel film cerca la montagna “alpinistica”, resta deluso. Solo una scena iniziale si svolge sul ghiacciaio e nei fotogrammi appare, la sera prima, la sagoma del rifugio Mezzalama, sotto al Castore.

Filippo Timi (il padre di Pietro) con Cristiano Sassella e Lupo Barbiero che interpretano i protagonisti Bruno e Pietro bambini. Foto: style/corriere.it/spettacoli.

Il resto (salvo qualche sgambata escursionistica del cittadino Pietro, sia da ragazzo con il padre, sia in età matura sulle orme del padre) non c’entra con l’alpinismo, ma fa invece riferimento a una montagna “concreta”: mucche, laghi, malghe, sentieri, pietraie, panorami (bellissimi: in ogni stagione dell’anno, con neve o senza), fatica, lavoro a testa bassa, ardue scelte di vita.

E’ una montagna alternativa al concetto di “alpinismo”, ma proprio per questo molto accattivante. Quindi il film è da vedere, se si ama la montagna, ma quella “particolare” montagna.

Alessandro Borghi (sinistra) e Luca Marinelli

Ciò che, invece, non mi va nell’impostazione della storia (ma è un difetto trasversale a tutta una “certa” intellighenzia, sia cinematografica che letteraria) è che per ribellarsi, per andare avanti, per “uccidere il padre”, insomma per trovare la propria strada nella vita, sia pressoché irrinunciabile indossare il cliché dell’homo barbuto, scarmigliato, ribelle, una specie di orso umano. Significativo (per antitesi) che Pietro, il cittadino, quando consolida un po’ di successo, perché ha pubblicato dei libri, torni ad essere pulito, ben pettinato, rasato alla perfezione. Io sono convinto che la capacità di ribellarsi al passato prescinda dal look e che la voglia di rompere gli schemi possa corroborarsi, paradossalmente, anche in giacca a cravatta. È questione di carattere individuale, di motivazioni, di visioni esistenziali, ma non di forma predefinita.

Luca Marinelli è Pietro, il cittadino: arrivato fino all’Himalaya, ripete poi le escursioni di quando era bambino, ricercando le tracce lasciate dal padre nei libri di vetta. Foto: style.corriere.it/spettacoli.

A questo concetto si aggancia la mia seconda perplessità. Nei dialoghi fra i protagonisti, è ben spiegato il significato del titolo (le “famose” otto montagne): deriva da una tradizione nepalese, che si chiede se impari di più l’uomo che ha scalato la vetta più alta circondata da otto montagne oppure quello che ha gironzolato per tutte le otto montagne.

Fin qui condivido: stanzialità, che approfondisce lo specifico contesto, contrapposta a sete di conoscenza, che esplora in estensione. Domanda vecchia come il mondo, ma destinata a rimanere senza una risposta assoluta, perché ogni individuo esprime una preferenza personale e soggettiva.

Il punto è un altro, leggermente collaterale. Fin dal libro di Cognetti, viene rigidamente contrapposta la stanzialità del montanaro alla curiosità del cittadino, dando per scontato che solo queste due siano le categorie in gioco.

Incrociando le variabili, emergono altre categorie. Fra queste, due sono oggi rilevanti: i montanari che viaggiano, magari grazie alle spedizioni alpinistiche, ma comunque viaggiano per il mondo, e dall’altra gli stanziali metropolitani. Parlo degli appassionati di montagna residenti in città: combinano la vita culturale e professionale del contesto urbano con capatine fra i monti, dove l’obiettivo tecnico-atletico non sempre è lo scopo dell’uscita, anzi.

Sarebbe interessante, quindi, elaborare una nuova versione delle Otto Montagne, a ruoli invertiti fra i due uomini: il montanaro, talentuoso alpinista che sbanca anche in Himalaya e per questo si allontana dalle vallate natie (forse addirittura rinnegandole), e all’opposto il cittadino, rigoroso impiegato in settimana e modesto alpinista/escursionista domenicale, però capace di riscoprire angoli dimenticati a pochi chilometri dalla caos della metropoli.

Un cambio di cavalli molto banale, ma al contempo rivoluzionario: la storia potrebbe evolversi in maniera completamente diversa, forse opposta, chissà…

Ma, prima di imbracciar carta e penna per avventurarsi in questo nuovo sentiero, occorre svelare l’incognita di fondo: piacerà davvero al pubblico femminile un’amicizia virile con queste “altre” caratteristiche? Ah, saperlo…

Alessandro Borghi (Bruno) e Luca Marinelli (Pietro) in una scena di Le otto montagne dei registi Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch: La storia di un’amicizia più vicino al cielo che alla terra. Un film che è come un sentiero di montagna. Impervio, struggente, affascinante… Foto: style.corriere.it/spettacoli/.
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Le Otto Montagne ultima modifica: 2023-02-01T05:14:00+01:00 da GognaBlog

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50 pensieri su “Le Otto Montagne”

  1. Concordo con Lei Sign. Andrea. Alla fine lo ho letto pur con qualche prevenzione. Anche a me è piaciuto la descrizione del rapporto di amicizia ed anche umani inteso tra uomini. Molto meno l’averlo ambientato in una montagna piena di luoghi comuni, costruita più da una azienda di soggiorno e turismo più che da un montanaro
     

  2. Volevo solo dire che a me, ventenne che si identifica nel genere maschile, il libro è piaciuto da morire. Non l’ho trovato assolutamente stucchevole, anzi. Ricalca molto bene rapporti di amicizia maschili che per fortuna sono sempre più comuni nella mia generazione. La competizione e lo spirito di cameratismo di cui si parla nell’articolo sono cose che personalmente ho provato poco. Oggi i miei coetanei sono sempre più liberi di esprimere la propria interiorità. Un ragazzo può mostrare senza troppi problemi la sua sensibilità, e intrattenere profonde relazioni amicali con altri maschi, senza gare di virilità. Essere sé stessi e mostrare i propri sentimenti ai propri amici è per molti ormai la normalità. Non importa di che genere sia l’amico in questione. La natura dei rapporti varia a seconda dei caratteri dei propri amic*, non in base agli stereotipi associati al loro genere.
    Piccola nota, Il libro è stato apprezzato da moltissimi altri miei conoscenti. Quelli che più lo hanno gradito sono quelli di genere maschile. Potrebbe essere che il genere dei protagonisti li abbia fatti immedesimare bene nella vicenda.

  3. Cadete costantemente in equivoci concettuali. Mai detto che le Otto Montagne sia stato costruito. E probabile che sia genuino, come altri primi Romanzi di un genere (Harry Potter ecc). Il successo innesca la cupidigia delle case editrici che cavalcano il modello e gli danno un nome (nel caso di specie cognettate, potrebbero esser scrie anche da altri,).
     
    Diverso è quando una casa in quel momento non ha sottomano un libro genuino e vuole impattare sul mercato: allora lo costruisce. Poiché i libri genuini sono rari,  purtroppo le scelte editoriali appartengono più  secondo gruppo.
     
    Coda c’entra tutto ciò con destra, sinistra ecc???
     
    Inoltre collaboro col GognaBlog dal 2015, strutturalmente dal 2018 (mi pare)  e tu ti accorgi adesso di me???

  4. Propongo di allargare il dibattito a “Il figliuol prodigo” di Luis Trenker (1934), con proficui paralleli e divergenze tra i due film.
     
    Con la speranza che a nessuno venga in mente di parlare di trenkerata. 😂😂😂

  5. E per fortuna che Torino sia la città di Norberto Bobbio, il teorico del dubbio.L’onnipresente Crovella sta facendo scivolare il GognaBlog a destra, e questo mi dispiace.

    Crovella dichiara:
    “VOREI PARLA’  BENE MA UNMMA RISCE”
    stessa cosa fa con la destra… UN GLI RISCE…

  6. Mah, mi sa che qui c’è qualche numero che non torna tanto.
    Le donne tra i 30 e i 60 anni in Italia sono circa 3.3 milioni, di cui nemmeno il 23% laureate.
    Il libro ha venduto 200000 copie, quindi se lo avessero comprato solo donne laureate tra i 30 e i 60 anni di età, l’astuta operazione avrebbe raggiunto il 5.5% del target; in realtà quindi la percentuale venduta a questo pubblico deve essere ben minore.
    Mica un grosso risultato per un prodotto custom cutted…

  7. Luca, il GognaBlog non deve scivolare né a destra né a sinistra né al centro. Deve scivolare verso il giusto.
     
    E ciò vale per ciascun essere umano. Anche per me. 
    Almeno, bisogna che ci sforziamo in quel senso.
     
    P.S. Bentornato.

  8. E per fortuna che Torino sia la città di Norberto Bobbio, il teorico del dubbio.
    L’onnipresente Crovella sta facendo scivolare il GognaBlog a destra, e questo mi dispiace.

  9. Sta di fatto che incrociando statisticamente le considerazioni esposte con i dati di vendite editoriali (spacchettati per sottoinsiemi, laddove la narrativa complessiva – cioè non solo di montagna –  vede quasi esclusivamente lettrici donne), la conclusione è che molto forte è la sovrapposizione statistica fra il sottoinsieme “lettrici donne” e il coacervo degli “appassionati del clima emotivo da volemose tutti bene”.  Questo dice la statistica.

  10. Il pubblico prettamente femminile che apprezza testi “languidi e strascicati” è solo uno stereotipo. Il pubblico che dice di apprezzare questi libri (un altro famoso è “La solitudine dei numeri primi”) e trasmissioni televisive come quella dello stucchevole Fazio è tanto femminile che maschile. Sono persone che temono di passare per incompetenti o ignoranti o insensibili se non mostrano entusiasmo per qualcosa che viene dai più esaltato. Non si chiedono che cosa piaccia loro veramente, non si formano opinioni, l’importante è sentirsi parte del gruppo del “vincitore”.

  11. PERT CHI LEGGE QUESTA SEQWUENZA DI INTERVENTI, RIPORTO IL COMMENTO 22 DELL’ARTICOLO DI QUALKCHE GIORNO SUCCESSIVO, SI COLLEGA ALLE RIFLESISONI SUL TIPO DI  “MONTAGNA” COINVOLTA IN QUESTO GENERE DI TESTI.
     
    Che poi, a rifletterci bene, la montagna in questo tipo di analisi psicologica di personaggi e sentimenti, non è così fondamentale, anzi non c’entra quasi nulla. Voglio dire, la trama (mutatis mutandis) potrebbe benissimo essere inserita in un contesto geografico completamente diverso. Esempio: un ‘isola, dove il cittadino va a passarci le vacanze estive e l’isolano “resta”, perché circondato (non solo fisicamente) dal mare, che lo separa dal resto del mondo. l’idea del cittadino che va in vacanza nell’isola non è nuova, mi torna in mente un libro di erri De Luca, anche se i temi erano leggermente diversi. Per questi motivi, mi incuriosisce (come ho scritto nell’altro articolo) capire come potrebbe funzionare la storia a parti invertite: il cittadino che “resta” nel suo cliché (giacca e cravatta, metafora di una vita “istituzionalizzata”) e il montanaro-isolano che gira il mondo. Se non avessi già pianificato tutto il lavoro 2023, metterei questa indagine nell’agenda. Chissà cosa potrebbe venirne fuori…
     

  12. Scusatemi ma qualcuno mi può spiegare perché il soccorritore calato dall’elicottero armato di motosega rovina gravemente il tetto della baita anziché dare qualche palata nella neve fresca ed entrare dalla porta ?

  13. Scusatemi ma qualcuno mi può spiegare perché il soccorritore calato dall’elicottero armato di motosega rovina gravemente il tetto della baita anziché dare qualche palata nella neve fresca ed entrare dalla porta ?

  14. Il mercato ha sempre condizionato il lavoro degli artisti. Per campare hanno dovuto tener conto dei desideri dei committenti. In alcuni casi addirittura regole ferree imposte. Se non ti attenevi ad un canone ben preciso le tue opere non potevano essere esposte nei luoghi sacri e non campavi. Questo non ha impedito la creazione di capolavori. Esistono poi le opere geniali che non seguono il mercato ma “fanno” il mercato intercettando cose che i markettari non avevano visto coi loro focus group e i loro numerelli. Harry Potter non è stato commissionato da un ufficio marketing ma è stato scritto in un pub da una sconosciuta geniale separata dal marito che cercava consolazione nella fantasia e non solo nella birra. Poi un editor ha capito che non c’erano prodotti moderni sul mercato destinati a quel pubblico e guarda cosa ne è venuto fuori in termini di business. Certo poi ci sono le seconde e le terze opere, spesso frutto di pressioni, ma lì dipende anche dall’autore e dalle sue ambizioni e dalla sua capacità ad un certo punto di dire basta e di svoltare, se ci riesce. Lasciamo a Cognetti il tempo necessario. Io penso abbia del potenziale per scrivere ancora bene di sentimenti e relazioni su sfondo montano. Chi cerca il richiamo dell’avventura o della natura come elementi chiave deve rivolgersi altrove. 

  15. “Così operano le case editrici, oggi: non esiste più (da decenni, purtroppo) l’editore puro che, ricevuto il manoscritto (magari di un autore sconosciuto), ne capisce il valore innovativo ed editoriale e lo pubblica con coraggio e, a seguire, incamera i profitti.”
     
    Ho capito: oggi Giacomo Leopardi sarebbe stato spacciato.
     

  16. Pasini. Ho riscontri ufficiosi (ma fondati), da parte di manager di case editrici e/o piccoli editori in proprio, che oggi i successi di vendite sono in genere costruiti da abili operazioni di marketing. Ecco perché i responsabili delle case editrici (manager se di case grandi o grandicelle, piccoli editori se imprenditori in proprio) sono così avidi di conoscere l’evoluzione periodica dello spacchettamento statistico delle vendite di libri.
     
    Cioè che attira l’attenzione di tali soggetti NON sono le statistiche in assoluto, ma il loro spacchettamento per sottoinsiemi, i cui principali sono: genere (m/f), classi di età (in genere per decenni), titolo di studio (sinteticamente rappresentativo del livello di cultura personale), regione di residenza, forse anche se si risiede in un centro cittadino (“metropolitano”) o no.
     
    Ebbene, sempre in modo ufficioso, come chiacchierate fra amici, detti manager editoriali affermano che le scelte dei libri da pubblicare si fanno (largo circa) in questo modo. La casa editrice dice: voglio fare profitti su un libro, devo quindi dare in pasto al mercato quello che esso chiede maggiormente. Per sapere cosa chiede il mercato, cerco di capire quali sono le principali classi di acquirenti di libri. Confeziono un libro che “piaccia” alla classe o alle classi statistiche dominanti, ed è fatta.
     
    Così operano le case editrici, oggi: non esiste più (da decenni, purtroppo) l’editore puro che, ricevuto il manoscritto (magari di un autore sconosciuto), ne capisce il valore innovativo ed editoriale e lo pubblica con coraggio e, a seguire, incamera i profitti. “Non esiste” significa che qualche eccezione ci sarà anche, ma sono rare se non rarissime. Oggi i libri pubblicati sono frutto di incarichi dati dagli editori agli autori, al seguito delle analisi di mercato e delle conseguenti scelte aziendali.
     
    Di conseguenza: pare (sempre da chiacchierate con amici del settore editoriale) che, nel campo della narrativa, la parte del leone dei lettori, oggi come oggi, abbia questo identikit: donna, età da 30 a 60 anni (in realtà con tre diversi sottoinsiemi che NON sempre collimano nelle preferenze), laureata (o di cultura equipollente), residente al Nord e in particolare in città o medie o grandi.
     
    Perfetto: identificato il target, si costruisce un libro che sia ideale per quel target e lo si affida ad un autore (scrivimi un libro così e così e così…). Oggi i best seller nascono fondamentalmente così. Pare (sempre da chiacchierate informali, ma da fonte competente in merito) che la famosa trilogia soft porno delle “50 sfumature colorate” sia stata confezionata proprio in questo modo. Domanda iniziale: quali sono, oggi, i desiderata erotici delle donne? Questi, questi e questi. Bene, facciamo un libro così e così e così e vedrete che andrà via come il pane. Difatti, così è accaduto. Poi il secondo, poi il terzo, finché si è capito che il mercato (cioè il sottoinsieme femminile acquirente di quei libri) si era saturato sul tema e hanno interrotto.
     
    Tutte queste mie considerazioni sono oggettive ed espresse in assoluto su come funziona (a grandi linee) il mercato editoriale, specie nella narrativa. Nessun riferimento specifico né a Cognetti né a Corona, che in quanto autori sono sicuramente “genuini”, ma lo sfruttamento del loro filone, da parte degli editori, è tutt’altro che genuino. Finché il genere tira, lo stampano, ma appena le statistiche daranno feed-back negativi, gli editori abbandoneranno il filone alla velocità della luce.
     
    Interessante lo spunto di un confronto fra la montagna di Cognetti e quella di Corona. Sono entrambe due montagne antagoniste alla montagna alpinistica (quella della corda spezzata), ma effettivamente diverse fra di loro. Il mondo di Corona il lo chiamo il “mondo del bosco”, i suoi libri sono quasi delle fiabe, mi ricorda Esopo o i Fratelli Grimm. Corona dà voce agli animali, in genere in modo metaforico, attraverso la descrizione dei loro gesti, che sono gesti istintuali, cioè voluti dalla Natura. Corona stesso è Natura allo stato brado (illuminante l’imitazione del comico Crozza). Invece Cognetti mi pare più focalizzato su personaggi umani, immersi (strutturalmente o saltuariamente) in contesti naturali. Spero di aver abbozzato una prima riflessione. Magari ripensandoci e confrontandoci ulteriirmente, miglioriamo e rendiamo più raffinata questa primissima analisi di base. Ciao!

  17. Certamente. Sic transit gloria mundi. Vale per tutti, a parte gli immortali. Ma qui non stiamo parlando di capolavori della letteratura mondiale. La cosa interessante è capire il successo di un autore e di un’opera, in questo caso di opere a sfondo montanaro, visto che non siamo su un blog di letteratura in generale.  Cosa intercetta nel pubblico generale?  Che idea di montagna e di andare per monti esprime e veicola fuori dal mondo ristretto degli alpinisti? È così anche per Corona, che non vende più come una volta ma è ancora performante. La montagna di Corona è sicuramente diversa da quella di Cognetti. Su questo sarebbe interessante esercitarsi. Sicuramente più interessante che azzuffarsi, come avviene ormai quotidianamente sul blog. A quanto pare con mucho gusto. 

  18. Pasini. Non ricordo a memoria i numeri di vendita del primo Mauro Corona, Il volo della Martora. Fu una vera sorpresa, proprio perché estraneo e alternativo alla letteratura leggendaria dell’alpinismo. Scoperto il gioco, i manager editoriali lo misero sotto a manetta: totoli uno dietro l’altro, praticamente dei copia e incolla, certo con trame diverse, animali diversi, finali diversi, ma il modello era “quello”. Il mercato lo ha assorbito finché… ne ha avuto “a basta”, come si dice qui da noi. Calate le vendite… ora il buon Corona passa le serate in tv con la Bianchina. Che fine faranno le cognettate? Intendo il genere letterario, non eventuali nuovi libri “diversi” dello stesso autore.

  19. Il libro di Cognetti ha venduto più di un milione di copie. È un libro che ha avuto successo anche in paesi dove non sanno neppure dove sta la VdA. Vediamo come va il film.  C’è da rifletterci, senza invidia e pregiudizio.  Certo non appartiene al filone eroico: la corda che si spezza, le mani sanguinanti, il freddo, la fame, la paura e il coraggio, le sofferenze, la valanga…l’invasione delle cavallette…E menomale. 

  20. Giorgio. E’ vero, hai buon occhio: le inquadrature effettive (cioè quelle davvero inserite nel film) sono poco torinesi. Se eccettuiamo una o due con la Mole, le altre NON sono di Torino (o non sono esplicitamente torinesi). Per esempio quando il padre esce a fumare su un terrazzo, dietro c’è un enorme struttura industriale bianca (sembra un silos o qualcosa del genere) che tendo a escludere al 99% che sia a Torino: mi ricorda strutture industriali più da piena Padania, tipo bresciano o cose del genere. Ma allora se fai le inquadrature in una “anonima” città industriale, perché nel film citare Torino, che non c’azzecca tanto nel contrasto ideologico città-montagna? A maggior ragione, considerato che nel libro la città originale (e più azzeccata) è Milano.
     
    Cmq, è un’inezia. Probabilmente i registi-sceneggiatori non se ne sono neppure accorti. Io credo che il coinvolgimento di Torino c’entri con le pretese della produzione. A To stanno facendo molti film da alcuni anni in qua, c’è denaro che gira e anche abili professionalità nei diversi ruoli. Probabilmente occorreva dare visibilità mediatica a tutto ciò. Ciao!

  21. Interessante analisi. Onestamente, ho un’opinione non troppo positiva del film (non ho letto il libro, diciamo che il passaparola non è arrivato fino a me). Innanzitutto condivido le critiche al formato 4:3 e alla colonna sonora, in più ho trovato pesante e stucchevole la voce fuori campo. Preciso di non essere uno spettatore da Transformers, il fatto che un film sia “lento e con pochi dialoghi” non mi disturba (ho adorato “The Whispering Star” e “Paterson”, per dire). I silenzi possono comunicare più delle parole.
    Qui però io non lo sento: altrove c’è un vuoto-pieno, qui il vuoto lo sento davvero vuoto. In una recensione si faceva un parallelo con “Into the Wild” con cui in effetti ha più di un punto di contatto, ma che risulta incommensurabilmente più efficace.
    Mi aspetto che un film sia lento perché indugia, si ferma a osservare, ad ascoltare. Qui troppo spesso lo vedo arrancare smarrito verso l’inevitabile conclusione.
    Per finire, un accenno alla diatriba Torino-Milano: conoscendo bene entrambe le città, condivido in pieno il commento di Crovella, ma qui credo che Torino sia un semplice sinonimo di “città industriale di pianura”. Se non sbaglio, le inquadrature della città evitano volutamente le montagne in lontananza.

  22. @26 non hai neppure capito che la frase, da te riportata con le virgolette, è esclusivamente diretta all’interlocutroce cui mi stavo rivolgendo in quel momento. Le tue valutazioni quindi sono del tutto provvedi fondamento. Ciao!

  23. Ma no Eugenio, non è un insulto.
    Sono sempre stato orgoglioso di essere la sabbia nelle mutande e il sasso nella scarpa per chi ha convinzioni apodittiche, il monopolio della verità unica e rivelata, le visioni assolute e indiscutibili. 
     
    E non porto la cravatta!

  24. Il Signor Crovella scrive: “L’esperienza di vita che ho accumulato in 61 anni mi ha fatto comprendere (da tempo) che è inopportuno infilarsi in una diatriba dove l’interlocutrice parte da schemi preconcetti. Non se ne esce.”  eppure ci sono almeno 5/6 post solo suoi nel blog, monopolizzato! X finire con l’ultimo sotto @22 che è un insulto … vada a respirare un po di valori in montagna. 

  25. Pitruzzella. Ti ho già detto che ho “colto” che sei tipa che si fissa su determinati schemi rigidi (opposti a quelli logico tradizionali): sarebbe inutile rifarti la stessa risposta. La vera rivoluzione, oggi, non è mollare tutto e andare a vivere “altrove”, ma restare in trincea, al proprio posto e nel cliché tradizionale (compreso l’outfit). Di più NON voglio dirti perché non ho piacere di addentrarmi in discussioni che so che non portano da nessuna parte. Tu sei fissata sul punto che la rottura degli schemi si faccia “abbandonando” il cliché tradizionale, io invece sono convinto che, al giorno d’oggi, la rivoluzione si faccia proprio stando fermi al proprio posto. Perdonami quindi se non interagirò più, ma il risvolto è troppo collaterale rispetto al tema dell’articolo e non ho interesse a perderci sopra ulteriore tempo.

  26. @13 Caro Carlo, la vita che hai descritto come « regolare” è un mero cliché.
    Sarà un caso, ma la maggior parte degli uomini che hanno lasciato vite regolari cittadine evita di radersi tutti i giorni, non ha bisogno di apparire in ordine, non ne ha neppure il tempo, si occupa d’altro.
    Nella tua lunga risposta non hai portato un esempio di rottura degli schemi in giacca e cravatta e rimango della mia idea che non sia possibile, se non per gesti di poco conto che, magari, fanno sentire l’attore “alternativo”, ma che non danno il via a mutamenti interiori.
     
    @15 Grazie, Fabio, per la risata che hai acceso!

  27. Pasini. Ovviamente sia nel libro che nel film ci sono diversi temi, ma non sono l’unico (cfr Spezzaferro) che vede l’epicentro sulla cosiddetta “amicizia virile”. Che tale sensazione sia fondata o meno, nulla toglie agli altri risvolti, anche se poi ciascuno ci “vede” quello che vuole lui, magari spinto dal suo inconscio.
     
    L’unica cosa certa è che la Montagna evocata tanto dal libro quanto dal film NON è la Montagna alpinistica. Ciao, nèh…
     
    PS: bene hai fatto a citare anche tu il termine “cognettate”, è vero che il suo uso nel settore editoriale appare un po’ cinico, ma è il settore che è particolarmente cinico. Raramente ho visto altri manager (di altri settori operativi) buttarsi avidamente sulle statistiche di vendita e, soprattutto, sulla loro scomposizione per sottoinsiemi (mashi/femmine, classi di età, livello di istruzione, regione di residenza ecc ecc ecc). Le scelte editoriali orami si fanno partendo da lì: cosa voglio vendere e a quale tipologia di lettore? E allora affidi un incarico. L’editore pure, alla Arnoldo Mondadori, non esiste più da decenni. per cui se si scrive un testo, magari anche oggettivamente valido, ma che non corrisponde al “ritratto” del lettore del momento (come emerge dalle statistiche), il teso non viene neppure preso in considerazione. Al contrario le scelte sono del tipo: cosa chiede ora il mercato? Le cognettate. Bene, allora incarichiamo qualcuno di farcene una. Quindici-venti anni fa era così con i libri di Mauro Corona, fra 10 anni al massimo le cognettate non se le filerà più nessuno. Amaro, ma realistico.

  28. Rispondevo per educazione a Pitruzzella, così come ora spiego – ma solo per educazione – a te
    Ti ringrazio dell’attenzione, ma questa non è una risposta.
    Provo spiegarmi meglio.
    Ti ho fatto notare che avrai anche risposto a Pitruzzella, ma:
    1) l’hai fatto per redarguirla per andare fuori tema, però il tema l’avevi inserito tu: ergo sei tu ad essere andato fuori tema
    2) l’hai fatto con l’intervento più lungo di questo post, tutto incentrato sul fuori tema medesimo: ergo sei anche quantitativamente più colpevole di “fuoritemismo”
     
    Perciò sono io a invitare te (conscio di non aver alcun titolo per redarguire): medice cura te ipsum. Prendila pure come ti pare.
     
    Non necessito di risposta…io per esempio non ho alcuna intenzione di ribattere alle tue amene divagazioni sulle tue convinzioni circa la torinesità, la milanesità o sul rompere gli schemi portando la cravatta.

  29. Non mi sembra che il libro sia centrato sull’amicizia virile. Io personalmente ho visto come centrali due altri temi. Da un lato, il tema del “doppio”. I due protagonisti sono uno il doppio dell’altro: città e montagna, viaggi e stanzialita’, cultura e natura……Dall’altro, il tema della famiglia, in particolare il rapporto edipico di amore/odio col padre. Identificazione e “uccisione”. Su questo tema ci sono pagine strazianti, come la descrizione della solitudine un po’ alcolica del padre in rifugio che cerca compagnia. Le montagne sono sullo sfondo. Il vero fulcro del libro è la vicenda personale di evoluzione del protagonista. Un classico romanzo di formazione attraverso l’amore e il dolore. In questo senso il termine “cognettata” che anch’io ho sentito usare con il tipico cinismo degli ambienti giornalistici non è dispregiativo: indica un genere letterario in cui la montagna fa da sfondo a storie emotivamente coinvolgenti di tipo personale, che non hanno a che fare con gli eroismi e i tormenti bonattiani ma con le dinamiche relazionali. In questa direzione possiamo anche collorare il libro di Albino Ferrari sulla madre e per certi versi anche i gialli valsostani di Camanni, almeno il primo. Si tratta di temi “fini” in questo senso “femminili” (termini che vanno inteso senza equivoci) che tradizionalmente hanno pico spazio nella letteratura di montagna. Per gli amanti della VdA interessanti le diverse rappresentazioni recenti dalla VdA scura e angosciante di Rocco Schiavone tipo nordic-crime a quella di Cognetti e Camanni.

  30. @17 Rispondevo per educazione a Pitruzzella, così come ora spiego – ma solo per educazione – a te

  31. Il libro, come il film, hanno attirato e comunque interessato un grandissimo pubblico che, normalmente, non va in montagna. O ci va da comune turista, senza velleità escursionistiche (nessuna alpinistica).Credo che il fenomeno interessante sia questo. E potrebbe essere illuminante parlarne. Segno che la vicenda raccontata è stata in grado di muovere corde più profonde.Oppure è solo un effetto di un buon marketing, senza nulla togliere al valore dell’opera?

    Nel  libro e di conseguenza il film, ce solo un pò di escusionismo di cui il padre appassionato, vorrebbe trasmettere questa passione al figlio. Una  montagna come svago, una montagna come gioco, una montagna come luogo di rifugio dalla durezza e dalla alienazione della vita di città, una montagna di sentimenti, una montagna emozionale anche solo a guardare i paesaggi, i laghetti come dice il freddo e distaccato critico cinematografico.
    Ma il figlio non assorbe questa passione. Ha bisogno di altro. O per lo meno, non se ne rende conto che qualcosa è entrato. Infatti è motivo di scontro con il padre.
    Ma, forse,  un piccolo tarlo, il padre, era riuscito a farlo entrare.
    Allora la montagna diventa il catalizzatore di unione anche se si e lontani,  fisicamente e mentalmente. Si ritrova il padre e si ritrova l’amico.
    Ma,  soprattutto,  ritrova se stesso e quello che veramente vuole.

  32. Carlo, se dopo aver scritto “Più volte ho redarguito i commentatori che si allontanavano dal tema cardine della giornata e quindi non mi dilungo nel discoro “natura di Torino” che qui è talmente marginale da non c’entrare quasi per nulla”
    poi scrivi 36 righe sul fuoritema in oggetto, direi proprio che, per un minimo di coerenza, dovresti più che altro redarguire te stesso…ammesso e non concesso che ti competa il ruolo di “redarguire”!
     
    Considerando poi che il detto fuoritema, è stato introdotto da te medesimo ed è fondato su tue personalissime percezioni e sensazioni, quindi eminentemente schemi preconcetti, mi pare anche piuttosto peculiare la tua posizione verso la povera Grazia, che in fondo proponeva solo un confronto di opinioni.
    A meno, ovviamente, di voler considerare le tue sensazioni/posizioni/interpretazioni come verità assolute e quelle discordanti da queste come frutto di schemi preconcetti che non meritano di essere prese in considerazione.
     
    Circa il tema principale -tanto per non venir cazziato! 🙂 – dirò che il libro a me ha detto poco o nulla e quindi non penso che andrò a vedere il film

  33. Il film in realtà non è male nella narrazione, la cosa veramente non calzante , tranne in alcuni passaggi e’ la colonna sonora….un bel film dotato di una colonna sonora che sia lei anche forte elemento di narrazione  soprattutto in un film che parla di storie di montagna ne amplia fortemente le qualità …se invece non e ‘ armonica con esso lo degrada e lo banalizza e questo, a mio avviso, è il caso

  34. Grazia, ritieniti fortunata. Tu, essendo donna, te la sei cavata a buon mercato: “[…] l’interlocutrice parte da schemi preconcetti”.
    Per noi maschi invece la musica è diversa: “Non capite mai un ca**o”.
     
    Trattasi di crovellata.

  35. Il libro, come il film, hanno attirato e comunque interessato un grandissimo pubblico che, normalmente, non va in montagna. O ci va da comune turista, senza velleità escursionistiche (nessuna alpinistica).
    Credo che il fenomeno interessante sia questo. E potrebbe essere illuminante parlarne. Segno che la vicenda raccontata è stata in grado di muovere corde più profonde.
    Oppure è solo un effetto di un buon marketing, senza nulla togliere al valore dell’opera?

  36. @11 L’esperienza di vita che ho accumulato in 61 anni mi ha fatto comprendere (da tempo) che è inopportuno infilarsi in una diatriba dove l’interlocutrice parte da schemi preconcetti. Non se ne esce. Potrei citarti migliaia di individui, alcuni molto noti altri perfetti sconosciuti, che hanno rotto gli schemi pur stando in giacca e cravatta e, dopo, non hanno affatto abbandonato quell’outfit. Il cliché del rivoluzionario barbuto alla Che Guevara è un retaggio del 68, come appunto annotò io. Anzi, oggi come oggi, forse forse la vera rivoluzione è esser capaci ad avere costantemente una vita “regolare”, un matrimonio 40-50ennale, tirar su dei figli e poi lavorare sodo, tutti i giorni alla scrivania. Questo standard è molto rivoluzionario e spesso collima con giacca e cravatta. Poiché anche questo è però un tema marginale all’argomento cardine non dedichero’ altro tempo.
     
    @13. Non comprendo come mai non sia chiaro una cosa che ho espresso in modo chiarissimo.  Non sono io che ho inventatoo il termine “cognettate”, ma lo stesso mercato editoriale. Racconto un episodio vero. Nel settembre scorso ero a pranzo con un gruppo sia di altri autori sia di piccoli editori autonomi e sia di rappresentanti di case editrice più grandicelle. Eravamo una decina circa: si parlava di lavoro, libri,  andamento del mercato e trend futuri. Uno dei rappresentati di una casa editrice ha detto davanti a tutti: “Oggi quelle che tirano sono solo le congnettate, van via come il pane. Finché dura, perché il mercato come si innamora, poi volta le spalle al modello di successo. Ogni 5-7 anni al massimo bisogna inventarne uno nuovo”. Relata refero.

  37. buonasera , la mia per una critica al sig crovella che parla di cognettate riguardo il libro “le otto montagne  “. è innegabile che  in italia si legge poco , lei sostiene che leggono di piu le donne rispetto agli uomini , ecco , considerando il libro poco virile , gli toglie ancor piu appetibilita per il pubblico maschile . Io in quanto lettore cerco di far scoprire il piacere della lettura a chi non ha questa fortuna (di leggere) .Bisogna incentivare a leggere anche testi cognettati , se questo porta anche a leggere libri che non lo sono   .    

  38. Ciao Carlo,
    non trovo risposta alla mia domanda, nonostante il tuo lungo commento.
     
    Se un tipo in giacca e cravatta osa rompere gli schemi, stai sicuro che subito dopo getterà quegli abiti dal balcone.
     
    Per quanto riguarda le considerazioni su Milano e Torino, credo sia fondamentale cogliere il confronto tra vita dentro e fuori dalla città, non tanto quale sia.
    Io, per esempio, non mi sono accorta che una parte del film sia stata girata a Torino, come neppure ho cercato di riconoscere quelle nepalesi. Sono stata rapita da altri particolari. 

  39. Più volte ho redarguito i commentatori che si allontanavano dal tema cardine della giornata e quindi non mi dilungo nel discoro “natura di Torino” che qui è talmente marginale da non c’entrare quasi per nulla, se non per un piccolo risvolto. Inoltre in passato sul Blog abbiamo disquisito fino alla noia sui sabaudi, sia di corte che di trincea, per cui il discorso, oltre che lunghissimo (perché non semplice, ma articolato), annoierebbe i lettori abituali. Le cose sono gli atti, come dicono i giuristi, lasciando alle controparti il compito di andare a scartabellar gli atti.  Mi limito solo a confermare che le mie valutazioni su Torino sono oggettivamente fondate, ovviamente valgono per i torinesi DOC (non i residenti, ma quelli che io chiamo i “sabaudi2: la definizione è agli atti), per i quali Torino è davvero, ancor oggi, un salotto avvolgente e comodoso, con un certo tasso di montagna trasversale ai vari gruppi (infatti in una “certa” Torino tutti fanno montagna, chi sull’8 grado chi a far escursioni placide, ma tutti “conoscono” la montagna e le sue atmosfere e le sue tematiche ideologiche) . Al contrario Torino è (o, meglio, “era”, ma in gran parte “è” ancora..) molto fredda e molto respingente verso i foresti, questo sì. Ancora oggi. Ma nel film si sottintende che il ragazzo cittadino e la sua famiglia siano torinesi, al posto dei milanesi del libro, per cui ritengo che le osservazioni siano adeguate. Infatti se si vuole esprimere un contrasto “città-montagna”, tale contrasto emerge più chiaramente se la città è Milano e non Torino, come appunto avviene nel libro. A Torino, ancor oggi, quasi nessuno è in contrasto con la montagna, abbiamo la stesa mentalità (o mentalità molto molto simile) dei nostri confratelli di vale. Milano è porto di mare, è cosmopolita, è più aperta ma per questo è vera metropoli con tutti i suoi pro e contro (per inciso conosco Milano e i milanesi, vi ho lavorato due anni consecutivi e ho poi mantenuto rapporti di lavoro intensi).
     
    Circa gli schemi, dipende da cosa si intende per “rompere gli schemi”. Io sono complessivamente un “istituzionale”, cioè sono molto piemontese (bougianen, non solo geograficamente ma anche ideologicamente, ecc), ma ho visto molti miei concittadini, torinesissimi d’animo, saper rompere gli schemi e magari lo fanno dalla sala direttiva di una società, dove appunto si recano tutti i giorni in giacca e cravatta. Molte delle invenzioni più rilevanti nella vita di tutti i giorni sono “torinesi” (cioè nate a Torino), anche se poi scippate da altri (spesso Milano). Lo stesso vale per molte idee e ideologie: non solo chi indossa l’eschimo sa rompere gli schemi. Ciao!

  40. L’ho amato quanto ho amato il film perché, al contrario di quanto scrive Carlo, non è “tutto sull’amicizia virile”, ma affronta numerosi temi a me cari quali la paternità, l’emigrazione, la ricerca incessante di un’identità, il concetto di natura per chi vive in città, i malesseri vissuti da chi cerca di conciliare doveri e sogni, la lentezza di vita a misura d’uomo, e tanto altro.

    Non ho letto il libro , ma condivido,  perchè nel film tutti questi temi ci sono.

  41. Ho letto il libro all’interno della giuria del Premio letterario Brancati, assegnato a Zafferana Etnea.
    L’ho amato quanto ho amato il film perché, al contrario di quanto scrive Carlo, non è “tutto sull’amicizia virile”, ma affronta numerosi temi a me cari quali la paternità, l’emigrazione, la ricerca incessante di un’identità, il concetto di natura per chi vive in città, i malesseri vissuti da chi cerca di conciliare doveri e sogni, la lentezza di vita a misura d’uomo, e tanto altro
     
    Non amo le etichette e trovo buffo il termine “cognettata”, che può essere stato coniato solo da chi non vive la natura e ritengo che non vada utilizzato, se si vuole mantenere un certo tenore culturale.
     
    Benché non comprenda il ruolo che interpreta in televisione, sono d’accordo con Fabio Fazio che non ho trovato per nulla esagerato o sdolcinato: dice poche frasi sottolineando la bellezza dei paesaggi, la semplicità di gesti e parole.
     
    Trovo Spezzaferro molto lontano da un’osservazione oggettiva, Dal modo in cui lascia andare le parole, come se gli sfuggissero, e dalla sua postura (che se fosse arrivato da me quando lavoravo in palestra, avrei cercato di arginare con addominali e vogatore), temo si capisca che non conosce la montagna.
     
    A proposito della scelta di Torino, in luogo di Milano, posso raccontare che mi sono rimaste impresse la scena del padre, che prende aria sul terrazzino di un palazzo di città durante un turno di lavoro, e quelle in cui il protagonista accosta mentre guida per apprendere gravi notizie. In pochi minuti, anche in altri momenti nel pub o nella cucina del ristorante, si rendono bene i ritmi urbani.
     
    Sorrido leggendo le frasi “Torino è un caldo salotto che rassicura i suoi assidui frequentatori” e “animus montagnino”, perché mi vengono in mente i miei zii, oggi ottantenni, che sono emigrati per andare a lavorare in Fiat e hanno patito il freddo in locali precari in cui veniva negata ai meridionali la legna per scaldarsi, o ancora ai viaggi in corriera o a piedi nell’oscurità di albe gelate. Vi racconterò i loro commenti, che immagino saranno molto coloriti.
     
    Chiedo a Carlo come si possano rompere gli schemi in giacca e cravatta, quando si accetta che una divisa si confonda con la sostanza di un essere. 

  42. Intervengo solo per precisare, a scanso di equivoci, che il termine “cognettata” non è stato inventato da me, ma gira nell’ambiente editoriale da un bel po’ di tempo (è evidente conseguenza del successo del libro). Lo possono confermare anche altri lettori (e commentatori) seriali del GognaBlog, che di loro iniziativa qualche tempo fa hanno citato lo stesso termine, molto prima di me. Quindi: ambasciator non porta pena. Confermo che il libro merita di esser letto e il film di esser visto (nonostante la “stroncatura” di Spezzaferro). Ottima l’accoppiata  “vedo il film e quindi rileggo di nuovo il libro”. L’ho fatto anche io. Ciao!

  43. Complimenti Paolo.
    Prima del libro, prima del film, prima di tutto ci deve essere uno spirito, una visione, una realtà. Esattamente quella detta utopica, da chi quello spirito non ha.

  44. Ho visto il film ma non ho letto il libro.
    Il film non mi ha lasciato indifferente. Non parlerei solo di amicizia ma anche di rapporto padre figlio.

  45. E come sempre, il fuoco amico. 
    Mi ricorda la prima recensione al romanzo, che apparve giusto sei anni fa su Montagne360. 
    Grazie Cai. 

  46. Interessante davvero il commento di Carlo Crovella, ma personalmente mi è piaciuto più il libro del film, che per me resta comunque molto bello e da vedere senza rincorrere apriori ansie di prestazione, aspettative precostituite, lieto fine per forza e “morale”. Il messaggio profondo di non soluzione alle domande arriva, ma tutto con calma, passo dopo passo. Le immagini parlano da sole, non accompagnano, dicono con precisione. Personalmente ho faticato a seguire i dialoghi in presa diretta, ma il film mi ha stimolata a riflettere ancora, a riallacciare dissonanze e “licenze” tra la sua fonte e la traduzione cinematografica (attori bravissimi, fotografia eccellente, musica giusta e nelle corde americane di terre selvagge, quelle che ama Cognetti). Ne ho parlato con amici che lo hanno visto e ho ripreso il libro per rileggere le pagine che avevano le “orecchiette”, evidenziate dalle pieghe all’angolo per ritrovare quella frase, o quel flash.
    Mi interessa qui riflettere sul termine e sul significato appena coniato di “cognettata”, una tendenza amata presumibilmente dal genere femminile. “Cognettata”: suono sgradevole che fa rima con minchiata, un epiteto che trovo un po’ infelice e un po’ invidioso, ma tant’è per i rosiconi che non hanno mai raggiunto il successo popolare di Paolo Cognetti che nel film fa anche un cameo in trattoria. Vorrei solo porre una domanda: è meno virile nel 2023 colui che di sentimenti e di slanci non ne parla mai? Ed è  più virile lo schematico rapporto muscolo-prestazione-competizione rispetto alla discesa nei nodi contraddittori del proprio Io, in cui uomini e donne si possono identificare? Possiamo superare anche il binarismo socialmente sentimentale maschio/femmina? Vi posso assicurare che non è questione di genere, molti uomini e molti alpinisti hanno apprezzato sia il libro sia il film.
    Una considerazione finale: lo scarto generazionale. Crovella è nato nel 1961 (come me), Cognetti nel 1978. Si tratta di uno scarto di sensibilità molto diverse che registro nelle nuove generazioni, formate su altre letture e altri principi: le “amicizie virili” dei giovani degli anni Ottanta e Novanta sono pregne di sentimento dell’altro, di desiderio dell’altro da sé, e nella diversità di ogni individualità vorrebbero anche essere l’altro, vivendo fino in fondo la “mancanza” di qualcosa. A questo punto, mi auguro un cambio di passo nella visione del mondo che ci circonda, senza troppi stereotipi nel futuro, riponendo speranza in questa nuova maggioranza generazionale.
    Buona lettura delle Otto Montagne di Cognetti, ma buona lettura anche delle sue storie precedenti che parlano con intensità psicologica dei nodi delle generazioni più giovani.

  47. Non condivido tutto dell’analisi di Crovella ma molte cose sì e apprezzo molto che siano state pubblicate qui.
    Dico soltanto che alcuni anni fa ho incontrato l’autore in una serata a Milano e gli ho detto “dal suo libro ho ricavato l’impressione che lei abbia vissuto di persona le esperienze descritte, non come altri che si documentano sltanto sul web”. “Se ha capito così ha capito bene” fu la risposta che mi diede.
    P.S. anch’io frequento la Val d’Ayas e in particolare Brusson da 50 anni (con qualche periodo di pausa) e mi sono divertito a riconoscere certi luoghi.   

  48. Ho letto con attenzione l’analisi di Crovella. Alla fine fa venire una gran voglia di ri-leggere il libro e di vedere il film. Di fatto una bella cognettata… Personalmente concordo sul fatto che mi è piaciuto più il film del libro e lo scrivo nel mio post su facebook di qualche giorno fa: https://www.facebook.com/media/set/?vanity=franco.grosso.75&set=a.10223625659052923
    Ma la mia analisi è viziata dal fatto che sono più di 50 anni che frequento la Val d’Ayas e quindi, per me, più che una cognettata si tratta di una… brussonata. Si vedano i cartelli all’entrata di Brusson…

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