Lo scoop della Walker

Proprio oggi cade l’ottantesimo compleanno della prima ascensione di Riccardo Cassin, Gino Esposito e Ugo Tizzoni allo Sperone Walker delle Grandes Jorasses. Per ricordare questa grande impresa abbiamo scelto un articolo di Scandere 1988 che uscì in occasione del cinquantesimo.

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Lo scoop della Walker
a cura di Pietro Crivellaro
(già pubblicato su Scandere 1988)

Al blitz alpinistico della conquista della Walker da parte della cordata Cassin, Esposito e Tizzoni, corrisponde uno scoop giornalistico senza precedenti nella storia dell’alpinismo: per cinque giorni La Stampa di Torino pubblica in esclusiva i servizi realizzati dal giornalista-alpinista Guido Tonella, inviato sul fronte delle Jorasses. Nel cinquantenario della Walker, Scandere ripropone la vicenda pubblicando parte di quegli articoli, fondamentali eppure ignorati dalla letteratura alpinistica. La storia dell’alpinismo dipende dalla storia della sua narrazione.

Si direbbe una pomposa sentenza a effetto degna del signor De Lapalisse: si capisce che la storia equivale alla storia! Eppure non è una battuta inconsistente. Oltretutto non è nemmeno nuova. Diceva più o meno la stessa cosa una famosa vignetta di Samivel, in due tempi: “come l’hanno fatta” e “come la raccontano”. La salita di una mansueta cima “à vache” si può trasformare nella scalata di una guglia inaccessibile. Dunque, la fortuna, il successo di un evento alpinistico dipendono dalla sua letteratura, secondo un elementare legame di reciprocità tuttora operante. Messner è oggi il più grande alpinista del mondo, con buona pace di Jerzy Kukuczka e di tutti noi, perché di ciò sono convinti i giornali e i giornalisti, che obbediscono all’aurea regola di scrivere e dare spazio a ciò che la gente vuol leggere. Si sa che il successo va a braccetto con la moda, così è vantaggioso divulgare le cose che ripetono tutti.

La Nord delle Grandes Jorasses in una celebre immagine dei fratelli Gugliermina

Se la storia dipende dalle sue fonti, quelle canoniche e privilegiate sono le riviste specializzate. Le scalate che vi vengono descritte e gli alpinisti che hanno il privilegio di firmare sulla stampa ufficiale vengono omologati e contano qualcosa. Tutto ciò che non viene descritto, come chi non è capace di tenere la penna in mano, non esiste. Giovanni Battista Vinatzer all’epoca delle sue realizzazioni negli anni Trenta era a malapena conosciuto. Ha dovuto arrivare Messner, quasi mezzo secolo dopo, per promuoverlo come il fenomeno più avanzato dell’epoca del sesto grado. Al contrario, lo strapiombo Tissi al Campanile di Brabante, un tratto di pochi metri scalato dal grande agordino con il re Alberto dei Belgi, il barone Carlo Franchetti, Giovanni Andrich e Domenico Rudatis nel 1933, ha goduto di una celebrità omerica. La ragione è che ha avuto la fortuna di venire descritto in lunghe trattazioni dall’aedo del sesto grado Rudatis, con corredo di fotografie e disegni, e di venire indicato come “il più difficile passaggio delle Dolomiti”. Di conseguenza è stato considerato per decenni banco di prova obbligato e ambito, anche se rispetto al resto del gruppo del Civetta è oggettivamente solo un “paracarro”, e per giunta tempestato di chiodi subito dopo Tissi.

Che tutto questo non sia molto giusto è evidente, ma nemmeno a me importa granché. Si dovrebbe già sapere che la storia dell’alpinismo è storia per modo di dire, perché fino ad oggi si è scritta la storia per gli alpinisti, una piccola storia privata, settaria ed epidermica.

Quel che qui mi preme – questa la ragione dei lunghi preliminari – è evidenziare il metodo base di fare storiografia impiegando fonti parziali (contrario di complete e imparziali) anche quando esistono comode e significative fonti fuori della bibliografia canonica. Il caso della prima della Walker da parte di Cassin, Esposito e Tizzoni, che risale proprio a cinquant’anni fa, è esemplare.

Sulla Rivista Mensile l’evento fu celebrato in modo vistoso e autorevole da un articolo di Guido Tonella, che lo sposava all’exploit dell’Eiger realizzato nello stesso periodo (Rivista Mensile 1938, pag. 521 -528): quattro pagine di testo più quattro pagine di foto, due per la Walker, due per l’Eiger. Un servizio paradigma per la bibliografia della materia. Le relazioni sono asciutte, limpide ed esaurienti. Le foto efficaci e straordinarie, tra le migliori tramandate sui due argomenti. C’è anche un’introduzione “ideologica” che gioverebbe rileggere oggi per inquadrare il clima culturale di allora. «Le imprese dell’Eiger e delle Jorasses – scrive Tonella – sono riuscite ai tedeschi e agli italiani perché c’è stato il Nazismo e c’è stato il Fascismo che hanno saputo dare una nuova tempra alla gioventù e infonderle il supremo afflato dell’eroismo». Basta questo cenno ad un capitolo tra i tanti dell’alpinismo per provare quanto sarebbe serio il problema di scriverne una storia decente. Da quell’articolo di Tonella in poi, la bibliografia alpinistica della Walker è sterminata, come non è difficile verificare, anche a colpo d’occhio, dall’estensione delle note che precedono la relazione nella Guida Vallot. Ma non ci si può fare un’idea adeguata dell’importanza e della popolarità della Walker se non si conosce anche come la scalata è stata trattata dalla stampa non specializzata. La Walker, scalata pochi giorni dopo l’Eiger, costituisce un caso giornalistico senza precedenti: “ideata” dall’inviato sportivo de La Stampa di Torino Vittorio Varale, viene seguita e commentata dal 5 al 9 agosto 1938 da cinque successivi servizi in crescendo di dimensione e di evidenza, realizzati in esclusiva da Guido Tonella (ancora lui) per La Stampa (ancora lei), di modo che anche i profani di alpinismo, l’uomo della strada dell’epoca, imparano che la scalata delle Jorasses è un’impresa non inferiore alla conquista della Coppa del Mondo di Meazza, Piola e compagni e della vittoria di Gino Bartali al Tour di una settimana prima. Un episodio alpinistico trasformato in un evento sportivo di rilievo storico e di massa: l’Italia che è già campione del mondo di calcio e ha fatto suo il massimo titolo di ciclismo, balza al primo posto anche nell’alpinismo, che viene presentato come una specie di “supersport”.

Da sinistra, Guido Tonella, Gino Esposito, Riccardo Cassin e Ugo Tizzoni scendono a Planpincieux

I servizi firmati da Tonella sulla vittoriosa scalata dell’Eiger dal 23 al 26 luglio sempre per La Stampa, per quanto vistosi, occupano circa metà dello spazio riservato qualche giorno dopo alla scalata della Walker. In entrambe le occasioni Tonella ha l’abilità di concludere il reportage con il racconto, naturalmente in esclusiva, firmato dai capicordata delle due imprese: Andreas Heckmair quello dell’Eiger su tre colonne, Riccardo Cassin quello delle Jorasses su sei colonne con ampie foto. Senza stare a discutere qui sul significato di questo battage giornalistico e sull’influenza che ha avuto nel determinare il valore e la fama della scalata, è evidente che questi articoli devono far parte integrante delle fonti che è necessario esaminare per fare la storia della Walker con un minimo di serietà.

Tanto più che per una volta non si verifica l’inconveniente abituale del giornalista profano di alpinismo che riferisce versioni inverosimili e spara dati sballati. Non a caso Tonella è lo stesso autore che scrive “ex cathedra” sulla Rivista Mensile avendo il raro merito di unire alla capacità del giornalista professionista una almeno equivalente capacità alpinistica. Ma vediamo di ricostruire com’è andata.

Quando nel giugno 1935 i tedeschi Rudolf Peters e Martin Meier scalano la Croz, seguiti dalle cordate Gervasutti-Chabod e Lambert-Loulou Boulaz, per tutti il problema della Nord delle Jorasses, quello della “corsa alle Jorasses” di un famoso racconto di Renato Chabod, è finalmente risolto. Si verifica che la soluzione non era poi così estrema come si credeva, ma quella partita è chiusa. Delle tre grandi Nord poste come gli ultimi problemi dell’alpinismo moderno al principio degli anni Trenta, resta solo da fare l’Eiger. E sull’Eiger si concentrano gli sforzi che procurano subito dopo, nella stessa estate, la morte di Karl Mehringer e Max Sedlmayr (al famoso bivacco della morte sul “ferro da stiro”), quella di Willy Angerer, Eduard Rainer, Andreas Hinterstoisser e Toni Kurz nell’estate 1936, nessuna nel 1937 per il pessimo tempo della stagione, quella ancora degli italiani Mario Menti e Bortolo Sandri a inizio stagione 1938. Fino alla vittoriosa scalata, drammatica fino all’ultimo, del quartetto Andreas Heckmair, Ludwig Vörg, Heinrich Harrer e Fritz Kasparek.

A quella partita cercarono di partecipare anche i migliori italiani. Tra gli altri, anche l’eterno secondo Giustto Gervasutti con Lucien Devies nel 1935, e i lecchesi Cassin, Esposto e Tizzoni nel 1938, che però giunsero a Grindelwald quando Heckmair e compagni erano già in alto ed era scoppiato il maltempo. L’idea della Walker, già tentata fin dal 1928, rispunta qui, come “superproblema” dopo la soluzione dei “tre ultimi problemi delle Alpi”. Il merito è di Vittorio Varale che, pur non praticandolo, nutre una passione smodata per l’alpinismo e ne scrive con accettabile competenza come giornalista sportivo. Sua moglie Mary è famosa da quando ha scalato lo Spigolo Giallo alla Piccola di Lavaredo, legata alla corda del grande Emilio Comici.

Varale racconterà la storia del suggerimento a Cassin per tutta la vita, ma la prima volta lo rievoca su Stampa Sera di venerdì 2 settembre 1938, a un mese dai fatti, nell’ultimo di quattro ampi articoli dedicati al primato dei lecchesi: «Ma Cassin tiene in tasca un foglietto – scrive Varale – e c’era segnato alla buona il profilo delle Grandi Jorasses (sic, NdR) come si vedono dal rifugio del Couvercle sotto l’Aiguille Verte come potete ammirarle nella bella fotografia di Cesare Giulio (che compare nel giornale, NdA). lo mi ero permesso di scrivergli: “il problema della parete nord non ha avuto una soluzione completa. La via Peters-Meier non arriva alla ‘vera’ vetta, ma su una punta secondaria. Quello è il punto di minor resistenza, intelligentemente scoperto da Gervasutti e Zanetti sei anni fa; ma c’è la ‘diretta’ da fare, la via più logica e forse più difficile sulla punta principale. Se vedessi com’è bella! Rimaniamo intesi pel giorno che tu mi indicherai, io sarò ad aspettarti alla capanna Leschaux, e verrò sotto lo sperone a vedervi salire”».

Ecco finalmente i connotati precisi della leggendaria cartolina citata da tutte le rievocazioni. Prosegue Varale: «Doveva questa scalata formare il doppietto con l’Eiger; ne divenne invece, la degna immediata risposta». Ecco anche la chiave interpretativa, ma continuiamo a seguirlo per vedere come entra in scena Tonella. «Nel pomeriggio di lunedì, mentre rifacevo per la trentesima volta in trenta giorni la valigia (è il primo di agosto e Varale è a Parigi al seguito del Tour de France, vinto trionfalmente il giorno prima da Bartali, NdA), mi portano un telegramma. Viene da Courmayeur, da dove è partito a mezzogiorno. Dice “Visto parete. Tempo buono. Intenzione attaccare giovedì. Domani arriva Esposito con equipaggiamento. Intesi per Leschaux-Cassin”. (Ecco altresì confermato che se Cassin è efficace in parete, non trascura le pubbliche relazioni, NdA).

Il viaggio di ritorno a Torino passa come un lampo. Vi arrivo, corro al giornale, e là mi aspetta una doccia fredda. Ordine della Direzione: “Varale andrà al Giro della Svizzera”. Pazienza. Ma io propongo un collega, e più bravo di me, a rappresentare La Stampa all’avvenimento che di lì a qualche giorno tutti commuoverà. Corrono parole sui fili che, sottoterra, valicano i monti e arrivano in lontanissime città: e Tonella parte di notte da Ginevra alla volta di Chamonix e del Montenvers, là allo sbocco della Mer de Glace che egli dovrà poi risalire e scendere tante volte per telefonare le emozionanti fasi della battaglia di Cassin contro la montagna e contro gli inseguitori. Ed anche Ortelli è pregato di appostarsi sul versante italiano per l’arrivo dei vincitori…».

L’inviato de La Stampa Guido Tonella viene presentato a Hitler all’aeroporto di Varsavia (12 ottobre 1939). La fotografia, rara e un po’ sensazionale, sottolinea la levatura di Tonella giornalista che — per intenderci — non si è occupato soltanto di «passatempi» come l’alpinismo. Assunto dal quotidiano torinese come corrispondente da Ginevra il 10 luglio 1928, per un decennio seguì con spiccata predilezione gare di sci, corse di ciclismo e vicende legate alla montagna e all’alpinismo, come appunto l’exploit di Cassin e compagni sulla Walker. Dal 1939 venne “promosso” corrispondente di guerra al seguito delle truppe tedesche: riferì dell’occupazione della Polonia, dell’Olanda, della Francia, seguì il fronte balcanico e la campagna di Russia, sino al crollo, vissuto dall’interno, della Germania nazista. Nel dopoguerra lavorò per il quotidiano di Ginevra La Tribune de Génève, fino alla morte avvenuta nel 1986.

Anche se Varale ebbe buon motivo per rimpiangere di non essere stato libero di seguire in diretta la scalata storica, oggi possiamo dire che fu meglio così. Guido Tonella, campione di sci e accademico del CAI, era in grado più di Varale di aggirarsi per i ghiacciai del Bianco. Per due volte fa la spola tra Montenvers e i piedi della parete per telefonare i suoi pezzi, e quando ritiene che Cassin e compagni sono abbastanza in alto, non ha difficoltà a raggiungere Courmayeur per non perdersi l’arrivo dei vincitori. Si aggrega alla cordata Gervasutti-Ottoz che rientra dal Colle del Gigante dopo un inutile inseguimento, legandosi in cordata con Gabriele Boccalatte, accorso anche lui troppo tardi, e fa in tempo a risalire alla capanna delle Jorasses per accogliere i lecchesi.

Il primo servizio di Tonella esce nelle ultime notizie di venerdì 5 agosto 1938: mentre la cordata lecchese affronta il secondo giorno di scalata, gli italiani in ferie possono leggere il resoconto della prima giornata! Il titolo è su due colonne: “Una cordata italiana all’assalto delle Grandi Jorasses“. Il giorno dopo, il pezzo passa nella pagina sportiva e ottiene tre colonne: “Tre uomini in lotta con le Grandi Jorasses” è il titolo; “La cordata di Cassin è a 500 metri dalla vetta. La veloce avanzata sulla terribile parete. Una seconda cordata formata da Gervasutti e Ottoz all’inseguimento della prima” è il sommario.

Domenica 7 agosto La Stampa pubblica con grande evidenza la notizia della presunta vittoria: nessuno può dirlo con certezza, ma Tonella ha fiuto ed è fortunato. L’occhiello recita: “L’audace scalata delle Jorasses“, il titolo è più cauto: “La vetta raggiunta tra l’imperversare della bufera?“; il sommario spiega: “Alle 15 di ieri la cordata Cassin-Esposito-Tizzoni avrebbe toccato i 4200 metri della punta Walker“. Finalmente notizie certe lunedì 8, con il titolo “La direttissima delle Grandi Jorasses è vinta” su cinque colonne, grande foto della parete con il tracciato della via e foto degli scalatori. Apre una colonna di cronaca firmata da Toni Ortelli intitolata “Incontro coi vittoriosi“. E segue l’intervista di Tonella “La scalata più difficile che abbiamo mai compiuto“; i titolini sono: “Le prodezze di Cassin“, “Un durissimo bivacco“, “Il pensiero alla mamma“.

Il culmine del clamore si raggiunge però con La Stampa del 9 agosto. In testa un occhiello cubitale a tutta pagina su otto colonne: “I nuovi trionfi dello sport fascista“, che fa anzitutto riferimento alla strepitosa vittoria di Bartali al Tour della settimana precedente. Sotto, su cinque colonne, il titolo “Dopo l’impresa delle Jorasses Riccardo Cassin rievoca l’epica scalata“. L’ampio servizio, che con tre grandi foto occupa buona parte della pagina, è firmato da Cassin; ma in apertura si spiega che il racconto è stato raccolto da Guido Tonella. C’è anche un riquadro che traccia un profilo dello stesso Cassin, definito «uno dei più grandi, se non il più completo degli arrampicatori del mondo», e si segnalano benemerenze politiche precisando che Cassin «fascista ardente, ci ha dichiarato che la vetta della Walker è stata conquistata al grido di “Viva il Duce”». Di spalla, una vittoria italiana alla terza tappa del Giro della Svizzera: il servizio è firmato da Vittorio Varale, che proprio quel giorno invia a Cassin una lettera di felicitazioni.

Non c’è spazio per pubblicare tutto il reportage di Tonella, per cui ci limiteremo a riportare il primo e l’ultimo servizio della serie. Il primo inquadra la scalata come grande avvenimento, con singolare proprietà di dati. L’ultimo è l’apoteosi del campione che riepiloga a caldo l’intera vicenda, rivolgendosi al largo pubblico dei non alpinisti con la prima, più autentica versione, che anticipa tutte le innumerevoli che seguiranno. Se non sono fonti per la storia dell’alpinismo queste!


di Guido Tonella

Montenvers, 4 agosto
Da stamani all’alba una cordata italiana è impegnata in un audace tentativo di scalata sul famoso sperone nord della punta Walker del gruppo delle Grandes Jorasses. Come è noto, l’impresa compiuta tre anni or sono sul versante nord delle Jorasses dai tedeschi Peters e Meier e ripetuta a due giorni di distanza dai nostri Chabod e Gervasuttì, s’è svolta sul settore di destra della grandiosa parete e più precisamente sul costolone che sale alla punta Croz (m. 4108), mentre intatto è rimasto il settore di sinistra, occupato tutto dall’immenso sperone di ben 1200 m. di altezza che sostiene la vetta più alta del massiccio, la punta Walker (m. 4206). Tutti gli appassionati della montagna i quali hanno avuto occasione di vedere l’immane muraglia nord delle Jorasses hanno soprattutto ammirato la spettacolosa stilizzatura geometrica che risulta dall’incontro della cresta delle Hirondelles e dello sperone della Walker.

L’attacco sull’immenso triangolo
Su questo immenso triangolo la soluzione alpinistica più elegante si impone immediatamente anche all’occhio meno ardito: scalare la perpendicolare che dalla Walker stessa si abbassa direttamente, lungo lo sperone, fino al ghiacciaio di Leschaux.

Dopo un assaggio svolto una diecina di anni fa una cordata italiana (Piero Zanetti, Leopoldo Gasparotto, Albert Rand-Herron con la guida Chenoz (in realtà è Evariste Croux, NdR) di Courmayeur e Armand Charlet di Argentières) i tentativi sul versante nord delle Jorasses venivano portati, però di preferenza sul costolone di destra, che effettivamente offre maggiori possibilità di scalata in confronto al disperatamente liscio e verticale sperone Walker. Ma il problema sussisteva in pieno. E benché si sia parlato “dell’ultimo grande problema alpinistico risolto” con la nord dell’Eiger, i migliori alpinisti europei stavano all’erta, nell’attesa del momento favorevole per sferrare l’attacco: fra gli altri i francesi Raymond Leininger e Pierre Allain, vincitori della Nord dei Dru, una delle più celebri cordate tedesche, ecc. E, quando oggi si è sparsa la voce di un tentativo sullo sperone Walker, tutti i competenti di Chamonix hanno manifestato il convincimento che si trattasse di un incontro tra Francia e Germania. Il merito di avere rotto gli indugi e di avere dato fuoco alle polveri è, invece, unicamente italiano. I più famosi rocciatori del gruppo di Lecco: Riccardo Cassin, medaglia d’oro al valore atletico, il suo compagno della Nord-est del Badile, Gino Esposito e Ugo Tizzoni, altro specialista formatosi sulle pareti di Val Bondasca, sono scesi improvvisamente ieri dal colle del Gigante e, dopo una breve fermata alla capanna Leschaux, si sono senz’altro lanciati all’attacco con la foga che caratterizza gli atleti fascisti. Avvertito di quanto si stava preparando, son salito nelle prime ore del pomeriggio a Leschaux, nella speranza di assistere domani alla partenza della cordata italiana. A metà strada, sulla Mer de Giace, un vecchio amico, la guida francese Tournier mi annuncia che una cordata è “sur la face”.
– Gli italiani? – chiedo ansioso.
– Ça doit être les allemandes.

La capanna Leschaux è vuota. Nel libro del rifugio, le ultime righe sono occupate da tre nomi, quelli dei nostri: Cassin, Esposito, Tizzoni. Dell’Accademico il primo, i due altri del CAI. Provenienza: Rifugio Torino al Colle del Gigante. Destinazione: Spigolo nord della punta Walker. La data è quella del 3 agosto, ma è da supporsi che la cordata abbia fatto la registrazione alla vigilia e che la partenza sia avvenuta questa mattina.

I tre protagonisti della prima salita della Walker: Tizzoni, Cassin, Esposito (da sinistra a destra).

Eccolo!, sul sommo del pulpito
Allora incomincia la lunga, minuziosa esplorazione della parete. Il sole batte di traverso sulla parete e crea dei giochi di ombre. Cento e più volte crediamo di vedere le sagome degli alpinisti, ma si tratta di illusioni. È da un’ora e mezzo che sto con gli occhi fissi al binocolo e comincio a disperare. Ma alle 16.25 esattamente, quando punto di nuovo il binocolo verso l’alto vedo improvvisamente la sagoma di un alpinista, il dorso gravato del sacco, stagliarsi al sommo di un pulpito roccioso, oltre il quale è il pendio di neve. La quota è presumibilmente di 3300 metri.

L’alpinista che mi appare, per il momento, solo, sembra esitare sulla via da seguire; poi, improvvisamente, parte deciso, e a gran colpi di picca intaglia lo scalino sul ghiaccio. Eccolo, dopo una decina di metri piegare sulla destra. Il passaggio è estremamente esposto e lo scalatore prosegue lentamente finché si ferma su una spina rocciosa. Un secondo esce dall’ombra e si avvia a sua volta verso il pulpito roccioso. Per oltre tre quarti d’ora non vedo che i due e comincio a temere che non si tratti della nostra cordata. Quando alle 17.30, arrivato anche il secondo in un posto sicuro, una terza figura si rivela improvvisamente e sta per sgusciare fuori da una fessura rocciosa e impegnarsi sul contrafforte di ghiaccio, non c’è dubbio: sono i nostri e a gran voce urlo tutta la mia gioia e il mio incitamento: Italia! Italia! Della cordata nessuno ha sentito, meno il primo (Cassin?) che si volge al basso per ascoltare. Poi il capo cordata riprende il suo lavoro per compiere la manovra di sicurezza. Lo spettacolo è impressionante e ci convince che per passare per questo muro l’itinerario della cordata deve essersi sviluppato tutto sulla sinistra, unico punto in cui vi è l’indizio di un passaggio discreto al limite delle possibilità umane.

Primo bivacco al gelo
Ora, esattamente le 18.30 i tre sono usciti su un ballatoio roccioso per un attimo, che la via è lunga ed occorre utilizzare le ultime ore di luce per portare più in alto possibile il bivacco. Alle 19.30, quando faccio la mia ultima osservazione prima di ridiscendere al Montenvers per telefonarvi, la cordata ha raggiunto ad un dipresso la quota di 3350 metri, dove sarà stabilito il bivacco. Questo primo bivacco si annuncia duro, dato che la temperatura è freddissima e un vento gelido sferza la parete. È troppo presto per emettere un giudizio sull’esito di questa grandiosa impresa che gli scalatori italiani hanno iniziato oggi. Dalle osservazioni fatte lungo la parete e dalla rapidità della cordata, calcolo che domani la comitiva potrà arrivare al massimo alla quota di 3600 metri, sempre che il muro che sta al di sopra della zona nevosa di cui già si è detto non presenti difficoltà insormontabili. Arrivati a questo punto, le possibilità appaiono migliori dato che, sia lungo lo spigolo, che da qui assume un atteggiamento più marcato, sia a sinistra lungo le grandi fessure che solcano longitudinalmente tutto il tratto finale della parete, si registrano delle possibilità di scalata. Il coraggio, lo sprezzo del pericolo, l’abilità tecnica, non fanno difetto ai tre scalatori. Auguriamo che il tempo si mantenga propizio e si abbia a registrare a gloria dell’alpinismo italiano una magnifica replica dell’impresa compiuta la settimana scorsa dai camerati tedeschi sul Nord dell’Eiger.


Guido Tonella, il solo giornalista che ha potuto assistere all’epica scalata dello spigolo nord della punta Walker da parte della carovana Cassin-Esposito-Tizzoni, ha raccolto dalla viva voce del capocordata Riccardo Cassin il racconto dettagliato della lunga eroica fatica culminata nel successo dei tre modesti quanto valorosi atleti fascisti.

Il nostro Tonella ha seguito l’impresa dei tre gagliardi scalatori dal rifugio Leschaux, informandone seralmente La Stampa. Per poter telefonare egli ha ripetuto più volte la traversata de la Mer de Giace, che divide il rifugio Leschaux da Montenvers, percorrendo ogni volta cinque ore di tragitto sul ghiacciaio. Sabato scorso, dopo aver avuto la precisa sensazione che gli scalatori l’avevano spuntata, lasciò il suo posto d’osservazione per trasferirsi, attraverso il Colle del Gigante a Courmayeur, aggregandosi alla cordata Gervasutti-Ottoz, la quale, a causa delle perturbazioni atmosferiche, aveva desistito dal tentativo di scalare, a sua volta, lo spigolo della Walker.

Salito alla capanna Jorasses — dove già si trovava l’altro nostro incaricato Toni Ortelli — dopo alcune ore di ansiosa attesa, il nostro Tonella aveva la gioia di abbracciare i trionfatori della Walker, che hanno dato, con la loro grande impresa, nuova gloria all’alpinismo italiano.
(Redazione de La Stampa).

La scalata
di Riccardo Cassin (Per gentile concessione de La Stampa)

Il versante nord delle Grandes Jorasses – e più particolarmente lo spigolo della Punta Walker che già avevamo imparato a conoscere sulle fotografie – ci si è rivelato per la prima volta in tutta la sua grandiosa realtà nella giornata di domenica 31 luglio. Con Ugo Tizzoni, che da un anno – da che Ratti è militare – è entrato a far parte con Gino Esposito della mia abituale cordata, siamo andati in ricognizione nel bacino del Leschaux. Lo spigolo ci è parso salato ma fattibile; la montagna in condizioni non ideali per la presenza di ghiaccio, ma in complesso abbordabile. Immediatamente siamo tornati attraverso il Colle del Gigante a Courmayeur, da dove abbiamo telegrafato a Esposito.
Mercoledì alle 12 eravamo di nuovo a Leschaux. La capanna era vuota; tuttavia – e questo l’abbiamo saputo poi dopo – una comitiva francese, quella degli assi Allain e Leininger, aveva fatto un tentativo nella giornata di lunedì salendo fino al termine della prima cengia nevosa (quota 3200 m circa). Nel pomeriggio io e Tizzoni ci siamo spinti fino alla base della parete per studiare l’attacco. Esposito è rimasto invece al rifugio per preparare i sacchi. L’equipaggiamento tecnico che portavamo con noi comprendeva due corde da 50 metri, un cordino di 6 millimetri pure di 50 metri, 30 chiodi da roccia, una mezza dozzina da ghiaccio (alcuni tubolari tipo Roseg e altri di nostra fabbricazione), tre piccozze normali, due martelli da roccia, un martello da ghiaccio. Tutti e tre calzavamo delle scarpe con suola di gomma, tipo Vibram.

Il famoso “diedro”
La partenza dalla Leschaux avveniva alle 3.30 di giovedì mattina. Alle 6 eravamo alla base. Attraversata la crepaccia, attaccavamo su per un colatoio roccioso sparso di detriti e con fondo a placche friabili. Raggiunto lo spuntone che corona la spina rocciosa della base e attaccato il pendio di ghiaccio abbiamo trovato delle tracce evidenti di gradini incisi da un paio di giorni, quelli del tentativo Leininger-Allain. Abbiamo attraversato il pendio di ghiaccio tirando sulla sinistra e tenendoci piuttosto vicini alle rocce. Questo tratto di media difficoltà ci ha consentito di avanzare abbastanza rapidamente, limitandoci a delle sicurezze stabilite con la picca o sugli spuntoni rocciosi. Raggiunta la base della prima muraglia abbiamo subito constatato che l’unica possibilità di passaggio stava nel superare il caratteristico diedro che già è stato osservato dalle due o tre carovane che si sono spinte fin quassù nel corso dei loro tentativi. Questo primo diedro è senz’altro da considerarsi come uno dei tratti più difficili dell’intera ascensione. Si sale prima in linea perpendicolare per una ventina di metri, poi si obliqua verso destra per due lunghezze di corda, cioè per 50 metri circa. La difficoltà di questo passaggio è dimostrata dal fatto che soltanto sugli ultimi 50 metri abbiamo dovuto piantare una dozzina di chiodi. Alla fine del diedro abbiamo trovato una specie di enorme paracarro inclinato lungo il quale si è dovuto avanzare a cavalcioni per aderenza per una lunghezza di 8-10 metri. Al culmine del paracarro vi è uno stacco netto dalla parete di due metri circa. Mi calo nella fessura; pianto un chiodo e, stabilita la sicurezza, ritorno indietro sul monolito, partendo deciso all’attacco sulla destra verso lo spigolo. Dopo una lunghezza di corda estremamente difficile pervengo a un comodo ballatoio dalla caratteristica forma a mezzaluna. Dalle placche di granito coperte di vetrato si ripassa al pendio di ghiaccio vivo. Il lavoro di scalinatura, che si prolunga per una lunghezza di due cordate, ci porta di nuovo sulla destra alla base di un secondo diedro, posto proprio al centro dello spigolo della Walker, in un punto dal quale possiamo dominare in pieno il grandioso colatoio centrale del versante nord delle Jorasses. Qui stabiliamo il nostro bivacco; il posto scelto è relativamente comodo e ci ficchiamo tutti in un unico sacco tenda, previa naturalmente l’opportuna assicurazione ai chiodi piantati in parete. La mattina di venerdì riprendiamo la scalata fin dalle ore sei. Do il buon giorno e l’addio a Ugo che, ficcato com’è al suo posto di ultimo della cordata, non vedrò si può dire più per tutto il restante della giornata, e via parto all’attacco del diedro. È un pezzo durissimo e straordinariamente lungo: 90 metri circa con una serie di strapiombi uno più aspro dell’altro. Sulla destra il diedro obliqua leggermente, mentre sulla sinistra assume un andamento assolutamente diritto, con roccia peraltro alquanto frastagliata che permette di ficcare agevolmente i chiodi.

Si economizzano i chiodi
Sono esattamente le nove quando vediamo sotto di noi, a circa 500 metri, due persone che avanzano sul ghiacciaio, in procinto di attaccare la parete. Pensiamo che siano degli amici e gridiamo loro il nostro saluto. Dalla mancanza di una loro risposta deduciamo che si tratti di stranieri: è un incitamento a proseguire senza sosta la nostra arrampicata. Si trattava, invece, come abbiamo saputo dopo, di Gervasutti e Ottoz, la cui risposta al nostro saluto non ci è pervenuta per la speciale conformazione della parete. Il superamento del “diedro” richiedeva l’impegno di 5 chiodi: una decina erano rimasti in parete fin dal giorno prima, due mi erano sfuggiti di mano al momento di piantarli e così ho dato ordine di fare la “massima economia”, nel senso che Tizzoni provvedesse a ricuperare tutta la preziosa ferraglia.

Usciti dal “diedro” siamo tornati leggermente sulla sinistra per una successione di placche e di nevati ricoperti da una crosta di vetrato. Una buona assicurazione con un chiodo da ghiaccio e poi su per un colatoio tra due massi caratteristici. La scalata è qui più agevole. Si sale per una quarantina di metri e poi fuori a destra lungo una cengia di 45 metri. Al termine della cengia occorre provvedere con una delicata manovra a pendolo: ci si abbassa di qualche metro, per poi pervenire una lunghezza di corda più in su, al di là dello spigolo, in pieno verso il canalone centrale.

La scalata, contrariamente a quanto si poteva giudicare dal basso, è relativamente facile. Si sale per 30 metri diritto, poi ci si sposta a sinistra, lungo una parete difficile e, quindi, per una successione di placche nerastre estremamente lisce, tocchiamo la cengia nevosa posta a metà circa della parete (quota 3600 m). Una spruzzatina ci capita fra capo e collo in questo punto, ma per oggi è poca cosa: il vero temporale sarà per domani. Siamo ormai sotto l’enorme torrione grigiastro che si vede dal basso. Giriamo a destra, una trentina di metri sotto il torrione, e in piena parete, al disopra del colatoio centrale, stabiliamo il nostro secondo bivacco. Il posto è limitato e bisogna adattarsi: due nel sacco-tenda su di un terrazzino, e sopra, a qualche metro, il terzo in un altro provvidenziale sacco da bivacco.

Cassin, Esposito e Tizzoni al ritomo dalla Walker, tra i gitanti di Planpincieux (Val Ferret)

Finalmente in vetta
L’agganciamento alla parete è anche qui di rigore. Durante tutta la notte assistiamo a un magnifico spettacolo pirotecnico; i lampi e le scariche elettriche serpeggiano nel cielo verso la valle di Chamonix. Il temporale non arriva, però, sino a noi ed è in perfetta tranquillità che possiamo far funzionare la nostra cucinetta per far fondere il ghiaccio e preparare un po’ di tè. È l’unico pasto della giornata e una buona porzione di lardo ci fornirà le calorie necessarie.

Sabato mattina ci rimettiamo in marcia prestissimo: i due unici orologi della cordata sono stati rotti al duro contatto delle rocce e in base al corso degli astri calcoliamo che saranno le 5. Si riparte in direzione di destra, seguendo l’andamento degli strati rocciosi. Prima per una cengia facile, che si protende sulla destra al disopra del grande imbuto centrale del versante nord delle Jorasses, poi a sinistra per una fessura obliqua, superiamo una cinquantina di metri. Proseguiamo direttamente lungo lo spigolo, facile in questo tratto, ma a roccia estremamente friabile. Man mano che avanziamo la scalata riassume un tono di più elevata difficoltà.

A zig-zag traversiamo in direzione di un campo di neve, portandoci sotto un enorme tetto roccioso, appariscente anche dal basso. Il tetto è sostenuto da una grande torre rossastra, alta più di 40 metri. A sinistra della torre si incide un camino-colatoio; sulla destra è un nuovo diedro. Attacchiamo su per il colatoio fino a raggiungere un’altezza di 10 metri alla base della torre; quindi, seguendo una cengia-fessura ad andamento diagonale, ritorniamo sulla destra, attraversando completamente la facciata della torre. Questo tratto, effettuato con la punta delle dita infilate nella fessura e il corpo a gatto aderente alla roccia, è uno dei più severi. Il temporale si sta frattanto addensando sopra le nostre teste: una prima grandinata, ci coglie quando siamo entro il colatoio in posizione quanto mai precaria per le scariche di materiale proveniente dalla cresta.

Ci caliamo di qualche metro lungo la sponda destra della torre e poi riprendiamo il diedro (20 metri estremamente difficili): ci arrampichiamo per lo spigolo fino alla vetta, raggiunta in un imperversare di bufera.

Tentiamo subito di scendere, ma è inutile: siamo arrestati da un crepaccio. Ci spostiamo verso le rocce della punta Whymper per aspettare la fine del temporale. Bisogna passare lassù ancora una notte. In piedi, con le mani che si intrecciano sulle spalle dei compagni, il sacco-tenda infilato al di sopra del corpo, i piedi che ne trattengono i lembi per impedire che l’uragano ce lo strappi di dosso, trascorriamo l’ultimo bivacco.

La notte è lunga, il freddo terribile; ma siamo felici, supremamente felici di aver conquistato all’Italia una grande vittoria.

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Lo scoop della Walker ultima modifica: 2018-08-06T05:10:00+02:00 da GognaBlog

17 pensieri su “Lo scoop della Walker”

  1. 17
    Lou says:

    Tonella bastardo di un fascista, peccato che non sia crepato nel fuoco dei partigiani

  2. 16
    paolo panzeri says:

    Giusto ha salito la est, per una via molto più difficile e che pochissime persone sono riuscite a ripercorrere senza errare. Bella è la storia dei primi ripetitori francesi che dopo la salita si diceva avessero abbandonato tutto per vivere a Parigi sotto un ponte. L’anno scorso un giovane “studente” l’ha ripetuta con un amico ad inizio stagione, non in condizioni, ma arrivando la sera al rifugio! Affascinato!

    Cassin e Gervasutti, insieme a Comici e a tanti altri: tutti come formazione  friulani e formidabili alpinisti!

  3. 15
    Alberto Benassi says:

    Giusto tentò sia lo Sperone Croz che lo Sperone Walker, ma in entrambi i casi fu battuto sul filo di lana (per usare un termine sportivo alla Cassarà). La ragione sta nella sua prudenza, come lui stesso ammise, il che me lo ha reso ancor piú simpatico.

    Come Gervasutti anche Allain fu preceduto, nonostante forse fosse il più accreditato per la Walker.

    Forse gli altri erano solamente più agguerriti e disposti a rischiare di più.

  4. 14
    Fabio Bertoncelli says:

    La parete nord delle Grandes Jorasses mi offre l’occasione di ricordare Giusto Gervasutti, alpinista fuoriclasse, checché ne abbia detto il grande Riccardo Cassin o ne abbia scritto il compianto Gian Piero Motti.

    Fu uno dei due miti della mia gioventú; l’altro è Emilio Comici. Ammiravo moltissimo questi due uomini – e tuttora li ammiro – non solo per le loro capacità alpinistiche e le loro imprese, ma anche per le qualità morali: modestia (virtú rara), altruismo, senso dell’amicizia, sincerità, buon senso, cameratismo (non nel significato che il fascismo ha attribuito a questa parola!), simpatia, generosità, ideale alpinistico e naturalmente anche forza d’animo.

    Giusto tentò sia lo Sperone Croz che lo Sperone Walker, ma in entrambi i casi fu battuto sul filo di lana (per usare un termine sportivo alla Cassarà). La ragione sta nella sua prudenza, come lui stesso ammise, il che me lo ha reso ancor piú simpatico.
    Consiglio a tutti di leggere il gustoso racconto che Renato Chabod fece della seconda salita dello Sperone Croz con l’amico Giusto. Si trova nella sua autobiografia “La Cima di Entrelor”. Andate al CAI, prendetela in prestito e leggetela subito!

  5. 13
    Fabio Bertoncelli says:

    Walter Bonatti al Dru ha fatto quel che ha fatto, senza ombra di dubbio, e ciò vale anche per tutte le altre sue imprese, dalla prima all’ultima. Le mie parole volevano essere soltanto un paragone per esprimere la mia perplessità – o incredulità – per Cesare Maestri al Cerro Torre.

  6. 12
    Albero Benassi says:

    Paolo a Bonatti si potrà contestare una certa dose (magari tanto)  di egoismo per esserci andato da solo al DRU. Dopo che l’aveva studiato e tentato con gli amici. Qualcun’ altro trova strana la storia dei pendoli e del famoso lancio di corda. Come se lui, forse in un momento di crisi, avesse cercato di uscire abbandondo la via. Insomma tanti discorsi.  Ma a differenza di Maestri non credo che gli si possa contestare di averlo fatto. La sua via al DRU c’è.

    O…no ?

  7. 11

    Libro: Cerro Torre di Kelly Cordes ed. Versante Sud.

    Dettagliato, affascinante, onesto, bello.

  8. 10
    paolo panzeri says:

    Per il grande alpinista Bonatti al Dru basta leggere il diario di Oggioni.

    Per il grande arrampicatore Maestri basta vedere come è sempre vissuto.

    Sempre mie opinioni nevvero e di sicuro modificabili… da ragazzo avevo letto un libro dal titolo dei e miti … l’uomo spesso preferisce restare cieco.

  9. 9
    Fabio Bertoncelli says:

    Caro Marcello, tuttora stento a credere che Cesare Maestri abbia raccontato quell’enorme frottola riguardo al Cerro Torre 1959. Mi chiedo: “Ma è mai possibile? Un alpinista di classe mondiale, che si è sempre professato di retti principi morali, come avrebbe potuto scendere a un simile livello? Siamo sicuri di non sbagliare noi nel nostro giudizio?”.

    È un enorme controsenso: da una parte un alpinista tra i migliori del mondo e di principi onesti, dall’altra parte una colossale menzogna.

    Eppure, i fatti parlano chiaro: nessuno ha mai trovato un solo chiodo a pressione dei tanti che Maestri scrive di aver piantato, sia in salita sia, lungo una linea differente, in discesa. Ormai sono passate di lí diverse cordate: il risultato vale zero. Non si è trovato nulla.

    Se Maestri ha mentito, mi crolla un mito, come se mi avessero detto che Walter Bonatti mentí a proposito del Dru.

    P.S. È appena uscito un nuovo libro sul Cerro Torre, di cui tu ci desti notizia qui qualche mese fa. Non vedo l’ora di leggerlo.

  10. 8

    per correggere la storia ci vuole tanto tempo, come per rimediare agli errori.

    Vedi Maestri e Egger nel ’59 sul Torre. C’è ancora chi crede alle favole, purtroppo.

  11. 7
    Alberto Benassi says:

    “Il mio non vuole essere un atteggiamento da politicante, ma un invito a raccontare: a me interessa l’uomo e poi l’alpinista.”

    Perfettamente d’accordo con te.

    Uno che sa come te e che conosce tanta gente , potrebbe fare da tramite pr coinvolgere e stimolare queste persone che sanno a raccontare. Non si tratta di fare polemica ma di raccontare la storia.

    Io non so tutti gli aspetti “umani” della salita della Walker, ne ho sentiti solo alcuni, mentre altre persone ancora vive li conoscono… ma non sono interessate… forse si dovrebbe riunirli (sono anziani più di me) e farli parlare prima che se ne vadano anche loro.

    questo infatti lo potresti fare te. Sarebbe una bellissima iniziativa.

  12. 6
    paolo panzeri says:

    Il mio non vuole essere un atteggiamento da politicante, ma un invito a raccontare: a me interessa l’uomo e poi l’alpinista.

    Non è assolutamente mia intenzione generare zizzania, vorrei soltanto che si raccontassero gli aspetti “umani” delle varie avventure, che si descrivessero oltre alle caratteristiche alpinistiche delle persone, anche quelle “umane”. Nell’alpinismo si potrebbe capire molto di più delle vie nuove, delle solitarie, delle “conquiste”, delle idee, delle amicizie…

    Io non so tutti gli aspetti “umani” della salita della Walker, ne ho sentiti solo alcuni, mentre altre persone ancora vive li conoscono… ma non sono interessate… forse si dovrebbe riunirli (sono anziani più di me) e farli parlare prima che se ne vadano anche loro.

    Per esempio, la bellissima storia dei Ragni di Lecco, del Vitali che cambia il simbolo di denari dei “senza soldi” aggiungendo una linea a quello di Cortina, grazie alla ricca moglie, e escludendo Cassin e altri per molto tempo, litigandoci per la sorella…. io non la so, me l’hanno raccontata grandi e vecchi alpinisti italiani una sera, ma sorridendo, era passata, erano altri tempi… loro non erano più interessati, non volevano più combattere, volevano solo sorridere dell’essere “uomo”. Forse hanno ragione, lasciamo che tutti fantastichino.

    Io non credo negli dei e nei miti, credo solo negli uomini, ma forse molti uomini hanno bisogno per vivere ed essere un po’ contenti di avere dei e miti… di fantasticare.

    Forse la storia dell’alpinismo deve solo raccontare la sequenza temporale delle scalate e non addentrarsi nella natura umana di chi le faceva… deve lasciare fantasticare.

  13. 5
    Alberto Benassi says:

    Tu dici che non spetta  a te. Ma se qualcuno sa cose che altri non sanno. Non credo che si possa continuare a buttare li qualcosina tanto per istigare il dubbio, gettare il sasso per poi nascondere la mano, giocare al gatto con il topolino. Insomma o si sta zitti oppure si fa chiarezza e si parla.

    Avere il coraggio di dirla tutta e chiara fino in fondo. Altrimenti si alimenta solo la nebbia e il dubbio.

  14. 4
    paolo panzeri says:

    Non spetta a me raccontare i fatti dei lecchesi e le loro storie.

    Cassin le raccontava sorridendo e gli altri non c’erano più.

    Però si dovrebbe dire che la via sulla Walker doveva chiamarsi Lecco e non Cassin.

    … per correggere la storia ci vuole tanto tempo, come per rimediare agli errori.

  15. 3
    Alberto Benassi says:

    Perché non dire il nome mai dato? Perché non citare il dialogo con il fortissimo? Perchè non parlare dei rapporti fra i tre? …

    Paolo, se sai. Parla .

    non lanciare il sasso e basta. Tanto  nel CAI, se non sbaglio  non ci sei più. Quindi fuori non ti ci buttano.

  16. 2
    paolo panzeri says:

    Bel resoconto, ma…

    Come al solito si raccontano tante cose senza mai compromettere nessuno, o meglio senza mai accennare ai difetti di ogni uomo, solo i pregi, e così si creano gli dei e i miti… un viziaccio ora omnipresente che genera tante falsità.

    Perché non dire il nome mai dato? Perché non citare il dialogo con il fortissimo? Perchè non parlare dei rapporti fra i tre? …

  17. 1
    Giancarlo Venturini says:

    Grande..! Storia Impresa fantastica…..!  di immensi  Uomini….!  grazie….! e C. Saluti.. G.C.

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