Lo specchio e la montagna

Lo specchio e la montagna
di Chiara Baù
(già pubblicato su https://www.imperialbulldog.com/2018/10/12/lo-specchio-e-la-montagna/ il 12 ottobre 2018
Titte le foto, a parte la prima, sono dell’Autrice

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)

Ogni mattina la montagna si specchia nell’acqua come una regina. Scolpisce il cielo con la sua bellezza, Lei è per molti, ma non per tutti.

Rimango sempre estasiata quando la mattina il sole la sfiora e quando la sera pian piano l’abbandona. Ogni volta che tocco la roccia provo riverenza e il rispetto che le devo è infinito, perché so che altrimenti Lei diventa spietata.

Lavoro saltuariamente in un rifugio alpino tra le Dolomiti, e queste sono le parole scritte dopo che una ragazza è precipitata improvvisamente per cinquanta metri durante una scalata, a un centinaio di metri dal mio sguardo.

Le Tre Torri del Vajolet e il rifugio Re Alberto I

Il laghetto prospiciente il rifugio sembra voler duplicare le montagne che si specchiano fin dal primo mattino quasi a voler proiettare nelle acque trasparenti la loro anima, mentre le pareti lì impresse diventano accessibili per tutti gli scalatori che nel corso della giornata vorranno sfidare le sue pareti.

Lavorare in rifugio significa anche servire la sera un piatto di polenta a rocciatori che l’indomani, desiderosi di avventurarsi sulle pareti scoscese, potrebbero anche non tornare: una fatalità, un malore, un’imprudenza. Le vie di salita sono sentieri verticali su cui si arrampica assicurati alla corda per tratti più o meno lunghi (da pochi a trenta-quaranta metri) denominati tiri.

Ho imparato che scegliere di non assicurarsi con l’imbragatura e la corda nei tratti apparentemente più facili può essere fatale e non perché la montagna nasconda delle insidie. La montagna parla chiaramente, non necessità di traduttori, applicazioni o complicati dispositivi. La montagna va ascoltata con umile attenzione.

Non captarne i segnali, non rispettarne le difficoltà significa mancarle di rispetto. Come sfregiare un’opera d’arte. Ricordo quella volta quando una placca della parete su cui stavo arrampicando si staccò improvvisamente a pochi metri di distanza.

Il solco chiaro lasciato sulla roccia sembrava una ferita. Forse la montagna mi stava parlando, non era il caso di continuare.

In quel momento decisi di abbandonare l’arrampicata. Un avvertimento? Non so. Ma la montagna quel giorno voleva rimanere da sola. Altri continuarono a percorrere la via, ma io non li seguii: sensazioni di paura e rispetto avevano bloccato ogni mia intenzione.

Scesi dalla parete consapevole di aver instaurato un dialogo con la montagna, sia pur dispiaciuta per la rinuncia alla via.

In altra occasione, a pochi metri da una cima himalaiana, all’altitudine di 6000 metri le forze mi abbandonarono. La mancanza di ossigeno premeva il cervello per un fenomeno di depressione d’alta quota, provocando una sensazione di totale impotenza.

Avrei potuto continuare, ma la montagna non lo permetteva. Mi fermai in sosta in un anfratto del ghiaccio rinunciando a proseguire anche se la cima distava solo pochi metri, ma dando un nuovo significato alla parola cima che non corrispondeva alla meta da raggiungere, ma al luogo in cui ero arrivata, un luogo immaginario sulla cartina geografica, ma reale per me. Una rinuncia che di certo contemplava una buona dose di paura, ma soprattutto il riconoscimento dei propri limiti e il rispetto dovuto alla montagna. Così mi è stato insegnato ed io ascolto la sua voce.

Lavorare in rifugio significa rimanere incantati dalle pareti di roccia che ogni giorno mi circondano e sfilano da tutti i lati. Ore di lavoro numerose e impegnative, ma capita anche, ed è ciò che è avvenuto la scorsa estate, di avere alcune ore di pausa a disposizione e, grazie a una finestra di tempo sicuro e alla complicità di una guida alpina, perché non tentare di scalare una delle cime che tutti i giorni mi guarda dall’alto?

In altra occasione di lavoro, presso un Centro Velico, dove tengo lezioni di biologia marina ai ragazzini, uno degli esempi che più mi piace riportare è quello della stella marina. Nell’ambiente di un parco naturale marino, la prima regola da insegnare è quella di non toccare né spostare esseri viventi come le stelle marine. Queste sono animali la cui pelle non si è evoluta per resistere alle nostre mani ruvide, calde e portatrici di microbi.

La loro architettura particolare le ha portate a evolvere una sorta di filtro, il madreporico, che serve a far fluire acqua all’interno del corpo, poi all’esterno, il che consente di far funzionare il loro sistema di locomozione come un vero e proprio sistema idraulico.
Il contatto con le mani può quindi rimuovere il muco che le ricopre, utile a proteggerne la pelle, e l’esposizione all’aria può bloccare il sistema idraulico, intasandolo con le bolle d’aria e provocandone la morte, anche se rituffate in acqua dopo pochi secondi.

Toccare la roccia suscita in me la stessa sensazione di delicatezza che provo nei confronti della stella marina. È tale la venerazione che dopo aver superato ogni salto di roccia mi sorge spontaneo rivolgere un ringraziamento alla montagna che mi permette di salirla e toccarla.

Le variazioni climatiche degli ultimi anni hanno profondamente mutato le condizioni delle rocce soprattutto a causa delle forti escursioni termiche e dei violenti temporali. Sono più frequenti le cadute di sassi e nello stesso tempo l’acqua e il ghiaccio che penetrano nelle minuscole fessure tra le rocce indeboliscono la solidità della parete.

Dato questo fenomeno occorre maggiore prudenza e il rispetto per l’ascensione. Sempre essere assicurati, sempre indossare il casco. È l’uomo che ha provocato il cambiamento climatico, è l’uomo che deve calcolare i nuovi pericoli che ultimamente incombono soprattutto in montagne come le Dolomiti dove la roccia costituita prevalentemente da calcare si stacca più facilmente e rovina a valle sbriciolandosi paurosamente.

Scalare una montagna significa instaurare un profondo rapporto con la parete ad ogni minimo passaggio. Ogni volta che termino una via, l’istinto di ripetere il medesimo percorso verticale è fortissimo. Questo per un semplice motivo: più volte arrampichi su quella parete, più la conosci e più l’apprezzi. Lo stesso avveniva al noto impressionista Claude Monet che ha dipinto oltre duecento ninfee ispirandosi al medesimo stagno. A riprova di quanto possa essere interessante e diversa la stessa esperienza ogni giorno, se vissuta e rivissuta con passione.

Ogni singolo appiglio che afferri è una difficoltà da superare, e questo ti porta a una tale conoscenza di te stesso che nessuna analisi può darti.

Per questo penso che andare in montagna e soprattutto scalare una parete sia uno specchio rivelatore di ciò che siamo: significa conoscere e affrontare le paure che la roccia fa emergere in tutte le sue sfaccettature, mettendoti alla prova e facendoti superare problemi difficili da risolvere anche per uno psicologo esperto.

Si scala solitamente in due, perché uno è la sicurezza dell’altro. Si è sempre legati. La propria vita è continuamente nelle mani del compagno di cordata. Il primo sale con le necessarie attrezzature, messo in sicurezza dal secondo che man mano sfila la corda durante la salita così da assicurare il primo in cordata.

La montagna osserva e pretende sicurezza. Senza assicurazione si può morire in un istante: la vita e la montagna esigono molta più attenzione e rispetto di quanto si possa immaginare.

Così durante la pausa al rifugio salgo con prudenza la parete della Torre Stabeler, una delle torri del Vajolet in Alto Adige, per la via Fehrmann.

La paura non mi abbandona mai, ma è la mia sicurezza. Ogni passo è ponderato, se non trovo l’appiglio, lo cerco, tasto la roccia col timore di perdere le forze, ma ecco che la montagna me lo offre. Raggiungere la cima dopo aver gustato la salita passo dopo passo, tiro dopo tiro, è una soddisfazione indescrivibile. La stanchezza sembra svanire e ciò che prevale è un prepotente senso di libertà e di appartenenza alla natura.

Sulla montagna sentiamo la gioia di vivere, la commozione di sentirsi buoni e il sollievo di dimenticare le miserie terrene. Tutto questo perché siamo vicini al cielo”. Così scriveva il famoso alpinista italiano Emilio Comici (1901-1940).

Pochi giorni dopo sulla stessa via Fehrmann una giovane ragazza è precipitata avendo scelto di non assicurarsi nel primo tratto apparentemente più facile.

Non sta a me giudicare le scelte e le modalità su come affrontare una via di salita. Non posso però dimenticare la disperazione del compagno che recuperato dall’elicottero del Soccorso Alpino ha incontrato prima fra tutte la cameriera del rifugio che la sera prima si era affrettata a servirgli la cena. Quella cameriera ero io.

Abbracciarci in quel momento è stata una delle sensazioni più terribili e forti mai provate. Il suo dolore straziante mi ha percorso e penetrato nel profondo; un inconsolabile e irrefrenabile pianto tra parole mormorate a tratti che sembravano un’implorazione “Perché non legarsi, perché?”.

L’indomani ho riguardato quella parete, avvertendo un’aria sinistra. Qualcosa era cambiato. La parete era diventata fredda e intoccabile proprio come la stella marina presa tra le mani. La montagna piangeva con me la tragica scomparsa della giovane alpinista, cui aveva procurato la morte, anche se ciò che la montagna dona a chi l’affronta col dovuto rispetto e umiltà è vita e gioia.

Pochi giorni erano trascorsi dalla tragedia della giovane alpinista quando ricevo la lettera di una turista che anni prima avevo avuto la fortuna di salvare insieme al marito e alla bambina da una situazione di pericolo. Una sera di agosto: una nebbia fittissima impediva l’accesso dell’elicottero del soccorso.

Al rifugio eravamo intorno alla stufa a scaldarci quando il telefono è squillato. Fuori diluviava. Un uomo in preda al panico chiedeva aiuto: la famiglia era bloccata su una via ferrata e le forze li stavano abbandonando, mentre la nebbia aveva cancellato ogni punto di riferimento. Mi precipito fuori insieme alla titolare del rifugio e mi incammino velocemente, quasi corro in salita, senza sentire la fatica. Una volta arrivata alla base della parete inizio ad urlare con la speranza che la nebbia non ostacoli la mia voce. Finalmente odo flebili voci che chiedono aiuto. I tre membri della famiglia sono in ipotermia. Li conduciamo in salvo al rifugio. A distanza di tempo scrivo un resoconto sull’accaduto che stampo in alcune copie e lascio al rifugio. Tre anni dopo la stessa famiglia ritorna, percorrendo la stessa via ferrata che li aveva messi in condizioni di pericolo. La mamma legge per caso il resoconto e mi invia un messaggio via email: “Il mio nome è Federica. Sono stata al rifugio con la mia famiglia ed ho preso con me il tuo “manoscritto” e… quale sorpresa e commozione nello scoprire che salvare le nostre vite aveva segnato la tua memoria… sono io la madre di quella bimba e la moglie di quel papà in ipotermia che avete recuperato sul ghiaione all’uscita del passo Santner in un pomeriggio di agosto di 4 anni fa. Abbiamo ricercato nel diario del rifugio traccia di quel giorno. Per noi ha significato “la vita”. Abbiamo rifatto la ferrata tutti e tre insieme per sfatare i fantasmi del passato, sfuggendo abilmente la pioggia, per dimostrare a nostra figlia che la montagna è amica, meraviglia e continua scoperta, anche se non bisogna mai sottovalutarla. Grazie di cuore, oggi come allora”.

Lavorare al rifugio significa anche questo: salvare una vita e dare conforto a chi ha perso qualcuno in parete. Una convivenza di gioie e dolori immensi che ci accompagnano e si dilatano nel tempo in un ricordo sempre vivo e colmo di commozione.

Torno al rifugio dopo aver guardato di nuovo la parete della Torre Stabeler. Il silenzio delle montagne accompagna il mio dormire un po’ inquieto.

L’indomani torno sulle rive del laghetto prospiciente il rifugio, osservo la montagna che si specchia nelle sue acque con le sue fragilità e la sua forza. E in lei vedo me stessa. Una nuova via d’arrampicata ora mi attende.

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Lo specchio e la montagna ultima modifica: 2018-10-20T05:09:38+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Lo specchio e la montagna”

  1. In genere gli articoli riportano la sfida, il tentativo, e spesso, la riuscita del superamento del limite . Questo articolo a me è piaciuto perché da’il senso dell’amore, della poesia. Non l’amore verso la natura inteso come sfida, ma l’emozione che spesso la natura ci dona. Anche con il dolore che talvolta accompagna l’emozione. L’autrice è stata bravissima a trasmettere questo amore profondo per la natura, vivendola come amore puro e non come limite da superare. Brava!!

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