Luigi Einaudi

(tra competenza, merito e mediazione)
di Corrado Ocone
(pubblicato su ilriformista.it il 31 ottobre 2021)

Luigi Einaudi, di cui sabato 30 ottobre 2021 è ricorso il sessantesimo anniversario della morte, fu il primo presidente effettivo della Repubblica Italiana, pur avendo votato per la monarchia nel referendum del 1946.

Anche Benedetto Croce, l’altro grande padre del liberalismo italiano, aveva fatto lo stesso, ma per motivi diversi: mentre il filosofo napoletano era un uomo del Risorgimento, e quindi il re per lui rappresentava la Patria e l’unità e indipendenza (nonché la libertà) della nazione, nell’economista piemontese rifulgeva l’esempio della monarchia costituzionale inglese, con le sue libertà e i suoi usi e costumi, con l’ideale di una vita pubblica sobria e misurata.

Era il più anglofilo dei politici, degli economisti e dei giornalisti italiani (fu per tanti anni corrispondente dall’Italia per l’Economist).

E ciò forse spiega anche la lunga discussione che sul liberalismo ebbe con Croce: mentre l’uno rimase sempre attaccato al dato reale, concreto, effettuale della libertà, l’altro cercava di essa sempre più, con il passare degli anni, un concetto speculativo, trascendentale, meta-fisico nel senso buono del termine (metapolitico egli diceva).

Due strade diverse che spesso convergevano nei risultati, e se non nei risultati, almeno nell’amicizia e nella stima reciproca che fu la cifra del loro rapporto.

Quando il regime fascista, su iniziativa di Giovanni Gentile, chiese ai professori universitari il giuramento di fedeltà, nel 1931, Einaudi, perplesso e lacerato sul da farsi, prese un treno e andò a Napoli a chieder consiglio a Croce, che professore non era.

E costui lo invitò a firmare: il regime aveva un consenso così forte nel Paese, in quel momento, che fare l’eroe e il martire non conveniva; meglio lavorare sulla formazione e la coscienza dei giovani e preparare il terreno alla futura “riscossa”.

Come giornalista, Einaudi, che era nato nel 1874, aveva iniziato a La Stampa di Torino, ove si era segnalato per alcune inchieste sociali e per aver seguito le lotte operaie di fine secolo, per poi passare al Corriere della Sera di Luigi Albertini, in cui poté esercitare ciò che meglio sapeva fare: chiarire a un largo pubblico le più complesse teorie economiche (era professore di Scienza delle Finanze a Torino) e svolgere una funzione di “moralista”, nel senso classico e positivo del termine (non a caso i suoi editoriali furono poi raccolti, nel secondo dopoguerra, col titolo di Prediche inutili).

A cavallo dei due secoli, Einaudi collaborò anche alla Critica sociale di Filippo Turati, ove perorò le sue idee sul libero mercato, quasi a suggello di quel che poteva essere il socialismo italiano se non si fosse poi stretto nella morsa del marxismo terzo internazionalista.

Coerentemente antimarxista, da liberale egli apprezzò il ruolo di emancipazione e crescita civile e morale compiuto dal movimento operaio.

Al socialismo dottrinario e ideologico, egli oppose «il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del biellese e del porto di Genova, e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a discutere, a leggere». Questo socialismo, aggiunse, «fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia».

Einaudi oggi sarebbe stato un feroce critico dei populismi ai quali avrebbe opposto il suo ideale epistocratico, ben formulato nell’espressione: “conoscere per deliberare”.

La parte più interessante e vitale del suo pensiero però a me sembra quella che lega in modo essenziale il liberalismo all’idea di conflitto.

Contro gli ideali perfezionistici e quietisti in cui a volte sembrano indulgere gli stessi liberali (per non dire i liberisti dottrinari), egli, sulla scia dell’amato John Stuart Mill, mostrò come solo attraverso il confronto, regolato ma anche aspro, cioè attraverso la competizione (che in una società non deve essere solo economica), è possibile crescere individualmente e socialmente.

La bellezza della lotta era significativamente il titolo che fu dato a una sua raccolta di saggi pubblicata nelle edizioni del suo vecchio allievo universitario Piero Gobetti.

«Il liberalismo – scrive Einaudi – non esiste come entità a se stante da realizzare, ma solo come sempre cangiante lotta per conquistare nuovi spazi di libertà». Questa lotta avviene non solo fra gli uomini ma anche internamente a ciascun individuo. Di qui «lo scetticismo invincibile, anzi quasi la ripugnanza fisica, per le provvidenze che vengono dal di fuori, con regolamenti, col collettivismo, col paternalismo, con l’intermediazione degli sfaccendati politici pronti a risolvere i conflitti con l’arbitrato, con la competenza, con la divisione del tanto a metà; e la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé, in questo sforzo lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi».

D’altronde, contro ogni standardizzazione e contro ogni conformismo, Einaudi aveva già detto in modo incontrovertibile la sua nel 1920 in Verso la città divina: «il bello, il perfetto, non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto»

Il suo ideale era quello dell’ “anarchia degli spiriti sotto l’imperio della legge”. E nelle Lezioni di politica sociale tenute nell’esilio svizzero poco prima della Liberazione, simboleggiò l’idea con l’immagine di un mercato rionale o di paese: ove tutti negoziano e contrattano, litigano sul prezzo per poi addivenire ad un accordo, ma sotto l’occhio discreto di un carabiniere che da lontano vigila che il tutto non degeneri.

Einaudi e la mela del Quirinale
di Carlo Crovella

Nessuna è responsabile, nel bene e nel male, della casualità che lo ha fatto nascere in questa o in quella condizione, in questa o in quella famiglia. Sbaglia chi fa risalire i suoi atti negativi all’infanzia infelice, ma sbaglia altrettanto chi si fa bello di vantaggi e positività che ha ricevuto dalla sorte. Per tale motivo sarei un infame a lustrarmi la medaglia per ciò che mi ha garantito l’esistenza.

Ciò premesso, non posso nascondere che mi considero molto fortunato per essere nato nella famiglia cui appartengo. Una famiglia torinese dallo stile sobrio, spartano, quasi calvinista.

Poche ciance in casa e un mood che, oggi, appare piuttosto rude, quasi militaresco. Non ricordo un bacio e un abbraccio, ma piuttosto esempi concreti e sistematiche esortazioni a crescere in quella che era la nostra religione laica, la “Cultura” (con la maiuscola).

Ogni aspetto della vita è strumentale per essere più colti, quindi più lucidi, quindi più a posto nel mondo. Perfino l’andar in montagna rientra in questa impostazione: meglio programmi e realizzi una gita sui monti e meglio saprai governare la tua esistenza in tutti i suoi risvolti. La montagna è teatro in cui impari a vivere congruamente.

Col tempo ho verificato che questa impostazione, molto sabauda, rientra nel grande filone del liberalismo, cui appartenne anche Luigi Einaudi. Non ci arrivai da piccolo, a connettere tutte queste cose, perché non riuscivo a collegare il personaggio Einaudi (che pure mio padre citava ripetutamente) con la nostra quotidianità famigliare.

Ci sono arrivato con la crescita professionale, quando i fatti della vita mi hanno portato a collaborare intensamente con il Centro Einaudi di Torino, il cui motto è lo stesso dell’omonimo personaggio: “Conoscere per deliberare”.

Così ho capito dove trae origine la mia sete di sapere, la mia curiosità inesauribile, la mia voglia di scandagliare i fatti della vita. Vita presente, passata e, in termini prospettici, anche futura. Sono famelico di nozioni, opinioni, elementi, tesi, conclusioni, stili e concezioni anche diversissime dalle mie.

Ma non è una sete fine a se stessa, rientra nell’impostazione einaudiana. Meglio conosci le “cose” e più efficacemente puoi prendere decisioni. Decisioni di ogni tipo: famigliari, professionali, esistenziali, di grande ampiezza o di spicciola quotidianità.

Anche in montagna, saper decidere è la cifra più caratteristica e distintiva: decidere se proseguire o tornare, se il tempo tiene o no, se il compagno è adatto o meno, perfino sapersi leggere dentro e capire se sei nel posto giusto al momento giusto… questo è quello che veramente mi piace dell’andar in montagna. E’ anche quello che insegno da decenni: la performance strappata coi denti, più di pancia che di testa, è l’antitesi dell’applicazione einaudiana alla montagna.

C’è di più. Secondo la mia visione, proprio nel “decidere congruamente” consiste il vero senso della vita nella sua accezione più ampia. E per poterlo fare a puntino occorre informarsi a mani basse. Conoscere per deliberare, appunto.

Dell’esageruma nen sabaudo, in cui rientrava anche Einaudi, mi piace molto lo stile spartano e morigerato. Non è solo “pitoccheria”, come la chiamiamo noi, cioè braccino corto verso le spese, taccagneria. E’ un altro modo per esprime l’oculatezza e la prudenza nell’approcciare la vita, permettendosi di fare solo le cose che la situazione contingente permette di fare.

Proprio di Luigi Einaudi, primo residente della Repubblica Italiana, si narra un aneddoto molto illuminante su questo tema. Al termine di una cena ufficiale al Quirinale, fra arazzi papeschi, lampadari sfavillanti, camerieri in livrea, invitati d’alto profilo, Einaudi prese una mela dal trionfo di frutta in mezzo alla tavola e disse: “Penso di mangiarne solo metà. Chi desidera l’altra metà?”

Mai sprecare nulla. Un passettino alla volta e si costruisce se stessi, il mondo, la società. In montagna come nella vita.

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Luigi Einaudi ultima modifica: 2022-07-12T04:15:00+02:00 da GognaBlog

2 pensieri su “Luigi Einaudi”

  1. Sono talmente inferocito contro gli attuali politici italiani che sarei disposto a convertirmi al cattolicesimo (sono agnostico) al solo scopo di chiedere a Gesù Cristo – dopo quella di Lazzaro – la resurrezione di Luigi Einaudi. 

  2. ativ.
    La vita al contrario.
    vt.
    La vita compressa.
    a.
    La vita nascosta.
    -.
    La vita impossibile.

    La vita contraffatta.

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