L’ultima avventura (GPM 026)
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Lo scarpone, maggio 1972)
Mi succede ogni tanto di essere un po’ stanco. In inverno quando torno a ripercorrere itinerari di palestra, dove la successione dei movimenti è ben impressa nella mia mente, in primavera quando riscopro valloni e montagne che ho visto decine di volte. Ma non è che mi vengano meno le sensazioni, anzi, tutt’altro: è che forse cerco ancora un briciolo d’avventura in un ambiente dove non sempre riesco a trovarla.
Andiamo un po’ indietro nel tempo. Mi sembra di risalire il lungo e selvaggio Vallone di Piantonetto, mi pare d’averlo davanti agli occhi, solitario, cupo e un po’ tetro nella luce della sera. Rivedo il grande pianoro di pascoli con il piccolo gruppo di grange addossate le une alle altre, sotto i salti di roccia. Quasi si confondono con le pietraie, sono grigie, grigi i loro muri, grigie le lose che ricoprono il tetto.
La sera di un sabato di settembre sono pochi quelli che sono saliti fin quassù e sono tutti amici. Non c’è rifugio, forse ancora pochi conoscono il Piantonetto, qualcuno sa che sulla parete del Becco di Valsoera c’è una certa via aperta da Lionello Leonessa e Giuseppe Tron che dovrebbe essere davvero una bella arrampicata. Si parla anche ogni tanto, e con grande rispetto, della via che Andrea Mellano, Romano Perego ed Enrico Cavalieri hanno aperto sul grande spigolo. Una via difficile, nessuno l’ha ancora ripetuta.
Durante la notte pioveva e le lose del tetto lasciavano passare gocce abbondanti. La sera si ritornava al grande pianoro chiuso tra monti altissimi e si restava stupiti da quel grande silenzio, smarriti in quell’atmosfera intima e incantata che ti lascia qualcosa dentro.
Perché avevi vissuto un’avventura. Forse avevi ripetuto la via Malvassora; certo non è una via estrema, ma avevi percepito appieno una dimensione diversa. O forse ti eri avvicinato pieno di timore e di riverente rispetto al grande spigolo per cercare di passare dove i primi, nomi grandi e famosi, e altri molto tempo dopo, anch’essi fortissimi, molto più forti di te, avevano detto: è difficile.
E ricordi molto bene quel giorno, su nel diedro enorme e senza sole, freddo e geometrico, ricordi la sensazione di vivere qualcosa di grande e il desiderio accarezzato a lungo che a poco a poco diventava realtà. E poi ancora la sera, soli, in silenzio, a ripercorrere quel grande pianoro camminando lentamente sui morbidi ciuffi d’erba accompagnati dal chiacchierio del torrente.
En Vau (Calanques, Francia). Da sinistra: Piero Ravà, Gian Piero Motti, Fulvio Berrino. 31 marzo 1972
Sovente ritorno al Piantonetto. Oggi c’è un grande e comodo rifugio che ogni sabato sera è pieno zeppo di gente che viene anche da lontano: Milano, Genova, Bergamo… Nessuno ormai va a dormire nelle piccole e scomode grange e può darsi che nessuno, camminando, le noti più. Prima che giunga l’alba, decine e decine di piccole lampade risalgono il grande pianoro e poi, adagio, i ripidi canaloni che portano sotto le pareti. A volte se vuoi ripetere la Perego ti tocca fare la coda, ormai è una via classica, non fa più paura a nessuno, anche perché i passaggi più duri li hanno addomesticati con tanti chiodi.
Eppure io ritorno ancora al Piantonetto perché ci sono affezionato; ma a volte, quando di sera ripercorro il grande pianoro, mi pare d’essere un po’ stanco. Vedo intorno a me un sacco di gente che va e viene, la sera nel rifugio è un gran vociare. Ricordo molto bene come davanti alle grange fossimo pochi, e stessimo lì seduti sulle pietre a parlare di tante cose e forse anche a cantarne una.
E ora qualcuno dirà: ma vuoi la montagna tutta per te? Proprio tu, che scrivendo la monografia del Piantonetto hai invitato la gente a venirci? No, o forse sì. Io solamente vorrei un alpinismo più umano.
Non vorrei che ci fossero alpinisti che arrampicano unicamente per il desiderio d’affermare se stessi, non vorrei che alcuni dimenticassero l’estetica, tesi unicamente a conseguire il risultato. Molte volte ho visto amici e compagni soffrire terribilmente per una rinuncia, per una giornata di tempo brutto, e patire ancora di più quando hanno saputo che Tizio nella stessa giornata aveva invece compiuto la salita. Sovente ho sentito discorsi tendenziosi, a volte vere e proprie calunnie dirette a demolire chi ha il torto d’essere più forte di noi. Ancora ho visto amici e compagni affannarsi e dimenticare anche le norme di sicurezza durante una salita, solo perché era importante “fare il tempo”. Ho visto alcuni voler realizzare a tutti i costi una certa salita, solo perché in quel momento era un’impresa che dava grande prestigio.
Un giorno vorrei partire con due o tre veri amici e risalire un lungo vallone che non ho mai visto, camminare adagio, fermandomi ogni tanto su qualche grande sasso, oppure bere a qualche fontana per sentire l’acqua che scorre sul viso. Vorrei scoprire a un tratto una parete immensa e solare, oppure risalire con gli occhi una cresta elegante e perfetta, e vorrei poter vedere tutte queste cose come quando mi avvicinai alla montagna la prima volta.
Vorrei allora salire questa parete e, quando il sole cala nel pomeriggio, fermarmi su un terrazzo quadrato e non pensare che forse si dovrà bivaccare, che bisogna forzare, uscire a tutti i costi.
Vorrei allora che l’amico avesse con sé una chitarra e cominciasse a suonare, e noi cercassimo di seguirlo ricomponendo e ritrovando i chiari versi di Bob Dylan, oppure le fantastiche e surreali visioni di lan Andersen. E mi piacerebbe attendere la sera così, parlando di noi, parlando di tutte quelle cose che sentiamo a volte accumularsi dentro, ma che raramente riusciamo a esprimere perché si ha sempre paura di essere veramente se stessi.
Ricordo ancora una sera di primavera, nella meravigliosa Calanque di En Vau. Finito il grande via vai degli alpinisti di ogni nazionalità, finito il vociare, i richiami, le urla, i tintinnii delle staffe e i colpi di martello. Il sole a poco a poco sta discendendo nel mare ed è subentrato un silenzio che veramente dona quiete. Arrampichiamo adagio sulla cresta, sono gli ultimi metri di questa via che ha un nome bellissimo: la Sirena. Ma ecco che giù in fondo, sulla piccola spiaggia, alcuni ragazzi hanno acceso un fuoco, si sono seduti intorno e al suono di una chitarra hanno cominciato a cantare. È una canzone che conosco bene anch’io, e mi giunge chiara e limpida una voce di ragazza, una voce che per i suoi toni acuti e cristallini ricorda molto quella di Joan Baez. Noi abbiamo finito, gli altri ci chiamano, dobbiamo rientrare a Marsiglia, è già tardi e le ragazze si sono un po’ scocciate di aspettarci tutto il giorno mentre noi arrampicavamo. Eppure il mio desiderio sarebbe quello di mandare tutti quanti al diavolo, ragazza compresa, e di scendere giù a mescolarmi con gli altri, non importa se non ci capiremo molto, sono inglesi, tedeschi, francesi, ma i nostri contatti umani sarebbero ispirati alla semplicità, perché sicuramente saremmo noi stessi.
Vorrei compiere salite che ho sognato a lungo e che ancora continuo a desiderare. Vorrei finalmente salire lo spigolo Bonatti al Dru per poter provare una parte delle sensazioni che quell’uomo deve aver vissuto in quei sette giorni, solo, libero di salire ovunque, libero di scegliersi un cammino in un dedalo di rocce, libero di parlare con se stesso, di riflettere ogni sera seduto su un terrazzino, di pensare alla sua vita e al perché di un’azione così diversa.
Ho invidiato sempre quest’uomo, non tanto per le sue realizzazioni, quanto per ciò che ha saputo e potuto vivere nei giorni grandi della sua vita. Per ciò che ha saputo dare agli altri. No? È vero, qualcuno dice che un uomo così non ha prodotto niente, che la sua azione è sempre stata sterile ed egoistica. Ma chi parla così non ha capito nulla dell’uomo e non sa in quanti e quali modi si possa donare agli altri.
Il versante ovest del Becco di Valsoera. Foto: Marco Milani
Sovente ho cercato di immaginare il ritorno di Bonatti dopo i giorni del Dru o quelli del Cervino in inverno, ho cercato di immaginare il suo amore per la natura e per tutto ciò che è bello. Così una mattina anch’io sono partito da solo, ho realizzato qualcosa di più modesto, anche se è la quantità che varia ma non la qualità. Anch’io ho vissuto il mio giorno grande e anch’io, quando sono tornato, ho creduto di impazzire correndo in un prato, sdraiandomi nell’erba a guardare il cielo, gli alberi e i fiori. Perché tutto era diverso, nuovo, tutto era da riscoprire. E anche gli altri, tutti, mi parevano più buoni, più aperti, un sorriso per tutti, ma sincero.
Ricordo che un giorno Messner disse a proposito di una sua grande “solitaria”: «Io non potevo piangere, perché il mio cuore e la mia mente erano divenuti come il ghiaccio e la pietra. Ma quando poi discesi tra l’erba del sentiero, qualcosa si sciolse in me e allora piansi».
Forse andrò al Dru, ma troverò decine di persone che si rincorrono affannosamente su per il canale, forse dovrò attendere il mio turno per salire, forse dovrò infilarmi tra intricati giochi di corde, forse un metro sopra il mio capo i miei occhi non cercheranno la via, ma le suole degli scarponi di chi mi precede. Ma ditemi, dov’è l’avventura?
Su un muro della mia camera ho appeso un grande foglio bianco su cui c’è scritto “Conosci te stesso”. Ogni mattina quando mi sveglio mi sforzo di leggerlo. Forse una mattina mi sveglierò e mi verrà il desiderio di vivere ancora una grande avventura. Allora troverò un compagno che mi seguirà sulle grandi placche chiare della via Hemming al Dru o nel silenzio opprimente della parete nord del Cervino. Ma forse anche qui non saremo soli. Allora partirò io, senza compagni, per dove non so. A volte immagino una grande parete, che forse non ho mai visto e che non vedrò mai, e mi vedo salire leggero, elegante e sicuro. Niente corda, niente chiodi, certo di non cadere mai. Mi vedo fermo la sera su un terrazzino a riordinare le mie cose, e poi seduto a guardare una valle sconosciuta, dove le piccole luci che si accendono a una a una mi ricordano con struggente melanconia che esistono anche gli uomini, mi ricordano quegli occhi incontrati per caso che promettevano un mare di cose belle e che forse sono rimaste tali proprio perché fermate in quello sguardo.
Un giorno forse partirò e ritornerò a girovagare per i monti e i boschi della valle dove la prima volta ho incontrato me stesso. E forse questa sarebbe la vera avventura.
È vero, a volte sono un po’ stanco. Ma ho degli amici veri che mi comprendono e che sanno dare. Con loro forse un giorno saprò rivedere con gli occhi incantati di allora una valle e un monte candido e scintillante, che appare altissimo sopra i tetti di un villaggio tibetano fermato nel tempo.
Non è poi così difficile, anche se talvolta tutto appare intricato, contorto, quasi impossibile. Ma è in noi stessi la soluzione, nella nostra semplicità. Allora forse scopriremo l’avventura ogni giorno, aprendo solamente la finestra e guardando i grigi tetti delle case di una qualunque città.
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La cosa che mi piace di più è lo stimolo al confronto e qui non posso fare a meno di ringraziare Alessandro!!!In un mondo dove l’automatismo ha preso il sopravvento sull’uomo, questo mi sembra un valore da tenere caro.
Oggi l’azione è in funzione della prestazione più arrampichiamo più saliamo in alto per conquistare grandi pareti o montagne più scendiamo in basso, questa è la mia sensazione.
Abito al Centro Italia ed ho vissuto (quasi inconsapevolmente) le fasi dell’alpinismo (come si diceva allora) o meglio dell’arrampicata,dagli albori del Nuovo Mattino all’avvento del Free Climbing alle Falesie di Arrampicata Sportiva e non mi sono mai isolato dentro le mie “convinzioni” proprio per cercare di “leggere”, “interpretare”, “capire” e sinceramente nonostante lo sforzo faccio molta fatica.
Pochi giorni fa mi trovavo in una nota località sul mare del Centro/Sud, stavo insieme ad amici ed approfittando del sole che scaldava l’aria, siamo saliti in falesia ad arrampicare. Su una via vicino stava salendo, da primo, un uomo (con la barba bianca come la mia) con fuson al ginocchio e torso nudo, sotto una pancia di roccia abbastanza liscia va in resting poi vedo che estrae dalla suo imbrago un “arnese” simile ad una canna da pesca, aggancia il rinvio, allunga la “canna” e posiziona il moschettone dentro la piastrina dello spit. Fatta questa manovra si fa” in su per raggiungere il rinvio.
Io cercavo di capire, mi sforzavo di comprendere e più mi sforzavo più mi domandavo quale cazzo era il suo divertimento e la sua soddisfazione!!!L’altra sera ho partecipato alla riunione del Gruppo Alpinismo al CAI, argomento del giorno il Calendario delle Uscite per il 2017. La saletta era piena (e non capita sempre) i due relatori del Direttivo, dopo aver letto il programma hanno sottolineato l’impegno con il quale si era arrivati alla stesura e hanno intimato i presenti a partecipare assiduamente per non compromettere la crescita tecnica.
Nessuna replica, nessun intervento!!!
Ho cercato di capire, interpretare e comprendere…poi l’unica espressione che mi è venuta è stata questa: “ Nel Gruppo Di Escursionismo Pioneristico del 1920/27 i soci che non partecipavano alle escursioni venivano multati”.
Viva “la Libertà”
” Mentri gli altri suoi coetanei si limitavano a giocare e a divertirsi Gian Piero elaborava i concetti del Nuovo mattino.”
Giando hai espresso OTTIMAMENTE, il pensiero, il problema.
Vedi che Motti non è noioso.
Oggi si fanno cose incredibili, con tempi incredibili. Tutti giocano e si divertono. Ciapando e tirando sovvertono tutto quello che prima si è fatto.
Ma un Giampiero Motti dov’è ?
«[…] in montagna ho trovato una mia dimensione che a più di cinquant’anni cerco di tenere stretta, anche perché non so per quanto tempo ancora potrò continuare a viverla.»
…
Tieni alta la bandiera!
Si Alberto, il luogo non conta ma conta l’atteggiamento con cui si affrontano le cose. Il concetto che volevo esprimere, e in poche righe non è facile, è che i giovani di oggi fanno cose incredibili e che io mi sento molto piccolo per poter giudicare il loro modo di andare in montagna.
Se da un lato mi sento di esprimere un parere nei confronti di chi, per quanto fortissimo, si limita alla falesia, se non addirittura alla plastica indoor, dall’altro non mi sento così libero di esprimere pareri nei confronti di chi si trastulla su vie relativamente alle quali non sarei probabilmente in grado di arrivare al primo chiodo da secondo di cordata.
Ma l’esempio fatto era solo per dire che a volte nei giudizi siamo un po’ troppo spicci.
Allora, proviamo a vedere le cose sotto un altro punto di vista. Motti è stato un visionario (e con questo non voglio dire che soffrisse di allucinazioni), uno che, nonostante la giovane età, possedeva una marcia in più. Capace di elaborare concetti ermetici sui quali ancora oggi sovente si dibatte.
Credo però che come ogni visionario avesse una personalità complessa che non lo facesse poi stare così bene. E’ stato un ricercatore interiore, dove poi la sua ricerca sia arrivata lo sa soltanto lui. Tutto questo emerge chiaramente dai suoi scritti e dai racconti di chi l’ha conosciuto, non è necessario essere degli psicologi per comprenderlo.
Dopo Motti l’alpinismo non è più stato lo stesso, non tanto per ciò che ha fatto bensì per ciò che ha scritto. Molti altri hanno fatto ben di più ma lui è riuscito a dare forma e contenuti a un movimento nato un po’ per gioco e un po’ per moda. La moda di allora la conosciamo: andare controccorrente, uscire dagli schemi, ripudiare le logiche familiari e sociali del tempo considerate antiquate, ecc. ecc..
Ma il modo di arrampicare dei giovani di allora cos’era se non un gioco? E quant’era diverso dal modo con il quale fino a quel momento si era andati in montagna? La grandezza di Motti risiede in questo, nell’aver saputo dare dei contenuti a un gioco, nell’aver spiritualizzato, per usare un termine forte, un semplice gioco. Mentri gli altri suoi coetanei si limitavano a giocare e a divertirsi Gian Piero elaborava i concetti del Nuovo mattino.
Questi concetti sono esplosi come una bomba nello stantio mondo del nostro alpinismo perché negli Stati Uniti, tanto per fare un esempio, non si è mai parlato di Nuovo mattino. E questa bomba è stata talmente dirompente che ancora oggi se ne sente l’onda d’urto, per quanto mitigata.
Ora cosa succede, che chi ha vissuto quel periodo o chi quantomeno ha assimilato ed interiorizzato certi concetti fatica a vedere l’attuale dimensione gioco in quanto priva di contenuti profondi. Se ci pensiamo un attimo i giovani di oggi giocano con la roccia molto più di quanto giocassero i giovani di ieri, il problema è che questo gioco sembra fine a sè stesso per l’assenza di contenuti di un certo spessore.
In realtà nessuno di noi può sapere quale sia la reale dimensione in cui si muove un ventenne che sale il Pesce come se stesse apparentemente giocando. Magari, dall’esterno, può sembrarci un semplice ciapa e tira ma questo perché non riusciamo a leggere il suo linguaggio interiore.
Quindi cos’è di cui oggi si sente la mancanza, di un nuovo modo di andare in motagna, di un nuovo modo di vivere l’avventura? O semplicemente manca un novello Motti in grado di dare forma e contenuti alle attuali espressioni ludiche?
Forse siamo noi ad essere antiquati, a comportarci come i vecchi alpinisti dell’epoca di Motti che non comprendevano l’arrampicata-gioco dei giovani di allora. Sono domande che personalmente mi pongo e alle quali non so dare risposta. Forse non gliela voglio nemmeno dare perchè in fondo in montagna ho trovato una mia dimensione che a più di cinquant’anni cerco di tenere stretta, anche perché non so per quanto tempo ancora potrò continuare a viverla.
“Ciapa e tira.. Eh.. Comprendo.. Però, se il ciapa e tira lo vedo fare da un ventenne in falesia potrei anche essere portato a ritenere che a ciapare e tirare solamente si perda qualcosa ma se lo stesso ventenne mi va a ciapar e tirar sulla Via del pesce beh.. Insomma..”
Giando non credo che sia questione di Falesia o di via del Pesce.
Non è il luogo che conta.
A me leggere Motti non mi annoia. Certamente non è che lo eleggo a Messia . Mi piace leggere il suo pensiero, conoscere le sue emozioni, le sue paure le sue contraddizioni e magari confrontarle con le mie. Scoprendo che potrebbero essere le stesse anche se io , a differenza di lui non riesco a metterle nero su bianco. A trasmetterle agli altri.
Non credo che Motti abbia voluto essere un Messia . Era uno che si metteva in dubbio che non cercava solamente l’azione ma anche la contemplazione e il perchè dell’azione. Uno che si fermava a pensare. Uno per il quale il pensare non era meno importante dell’agire.
“Ciapa e tira” secondo me è oggi un pò lo specchio di questa società che predilige il macismo, l’immagine perfetta, al mettersi in dubbio.
Con questo non voglio dire che non ci siano oggi persone che vanno oltre il solo gesto atletico. Ma credo siano la netta minoranza.
Sarà che frequento luoghi sbagliati. Di gradi si discute tanto: ho fatto questo , ho fatto quello.
Di come e soprattutto del PERCHE’ l’ho fatto, ne sento parlare poco.
Insomma, ragazzi, qui è stato solamente presentato un vecchio brano di molti anni fa, cosí come di tanto in tanto, in riedizione, ci vengono riproposti scritti di Walter Bonatti, Kurt Diemberger, Reinhard Karl, Reinhold Messner, Riccardo Cassin, Giusto Gervasutti, Guido Rey, Edward Whymper, ecc.
Il libro di Whymper annoia? Non leggetelo, non compratelo. I giovani però non lo hanno mai letto, forse perché non ne hanno mai avuto la possibilità, ed è giusto che possano farlo.
Quando ero giovane mi è stata data l’opportunità di leggere l’autobiografia di Gervasutti (grazie Melograno!). Prima non ne sapevo molto poco, poi ho conosciuto il Fortissimo attraverso le sue pagine. Ed è stato bello.
Tutto qui.
Però.. Però.. Le cose che dice Ermanno non sono poi così fuori luogo. Mi spiego meglio perché non vorrei essere frainteso.
Motti ha ispirato molti alpinisti e arrampicatori (che poi a suoi tempi la distinzione fra alpinismo e arrampicata era appena abbozzata), su questo non vi è alcun dubbio. Da quanto ho letto pare che Gian Piero abbia fatto delle esperienze particolari, che sia entrato in stati di coscienza al di fuori dell’ordinario. Non ho ovviamente parametri di misurazione né mi interessa averli anche perchè, con riguardo a questo genere di esperienze, non esistono parametri che tengano.
Sicuramente Gian Pietro ha contribuito in maniera determinante, coi suoi scritti, con le sue riflessioni, a creare quello spartiacque fra il vecchio e il nuovo. Gian Piero è stata la voce del Nuovo mattino, non certamente l’unico esponente, sicuramente colui che ha saputo mettere nero su bianco ciò che altri, insieme a lui e anche meglio di lui, mettevano semplicemente e solamente in pratica.
Continuare però a riproporre la sua visione a distanza di tanti anni e con una certa regolarità alla fine può stancare.
Abbiamo capito! O forse no? Alcuni hanno capito, altri no, altri ancora hanno capito ma non gliene frega niente. Ma poi in definitiva cosa c’è da capire? Cioè parliamoci chiaro, quanti sono coloro i quali vanno in montagna per fare un’esperienza trascendentale? Da Simone Moro, che si è sparato quattro cime himalayane in invernale, al signor Rossi che, dopo una settimana passata col culo sulla sedia, si spara l’anello del Sorapiss che differenza passa? Tecnicamente parlando ci passa l’universo ma dal punto di vista interiore molto probabilmente nulla. Entrambi si pongono degli obiettivi, si fanno il culo, ciascuno a modo suo, e portano a casa un risultato comunque appagante. E l’esperienza interiore?
Il punto della questione è che non esiste un’esperienza interiore quantificabile ed omologabile. Ognuno fa la sue esperienze e alla fine si tirano le somme. Se le esperienze fatte sono stata appaganti significa che si è lavorato bene, in caso contrario significa che bisogna rettificare il tiro.
A leggere Motti sembra che oggi, come peraltro ieri, in montagna si vada solo con spirito competitivo e che l’aspetto interiore venga costantemente messo da parte e calpestato. Ma è veramente così? Bah.. E poi anche tutti coloro i quali si sono dissetati alla fonte di Motti e che oggi brontolano come delle pentole a pressione hanno veramente interiorizzato nei fatti i valori di Gian Piero? Cioè la mia sensazione è che Motti venga ormai presentato come una sorta di Messia, il Gesù Cristo dell’alpinismo e fondatore della religione del Nuovo mattino, nella quale molti discepoli credono a parole ma non necessariamente comportandosi di conseguenza.
Chi non va in montagna, chi non ama l’avventura, sa perfettamente che le esperienze interiori si possono fare in mille altri modi. Lo yoga ci insegna a farle da seduto, tanto per fare un esempio.
Ciapa e tira.. Eh.. Comprendo.. Però, se il ciapa e tira lo vedo fare da un ventenne in falesia potrei anche essere portato a ritenere che a ciapare e tirare solamente si perda qualcosa ma se lo stesso ventenne mi va a ciapar e tirar sulla Via del pesce beh.. Insomma..
Concludendo, pur con tutto il bene che si possa volere a Motti e a ciò che ha fatto per il bene dell’alpinismo, questa costante riproposizione del suo pensiero rischia di venire a noia non certo per i contenuti quanto per l’inevitabile processo di contrapposizione che si viene a formare e che forse, volutamente o meno, si cerca di di creare. Tutto ciò rischia in effetti di far chiudere gli occhi di fronte ad una realtà diversa e che può sembrare peggiore (magari lo è pure) perché non si riesce a leggerla ed interpretarla correttamente.
La noia è quella di un testo suggestivo e intelligente ma talmente antiretorico da risultare insopportabilmente retorico. Forse era un testo anticonformista 40 anni fa, ma non oggi. Nell’epoca della post verità, quello che conta sono solo le emozioni, (altroché ciapa e tira), quindi questo articolo, come tanti altri di Motti, letto oggi non dice nulla di nuovo. Non metto in dubbio la bontà di un alpinismo riflessivo, di ricerca e sentimenti, dico solo che menarsela ancora con questi discorsi come se contenessero chissà quale verità sovversiva, vuol dire non vedere che la sovversione si è fatta norma. Il risultato è quello di privarsi della possibilità di pensare con creatività a nuove visioni per il futuro.
hai sicuramente ragione! 🙂 buona montagna anche a te!
Alberto, fregatene! Sono loro a perderci. Verrà il tempo dell’anima anche per loro oppure che si fottano nei circoli viziosi delle loro manie. Buona montagna a te.
caro Marco,
non si tratta di imporre una visione o una sensibilità al mondo, nè di aspettarsi che tutti la vedano come un singolo vuole. Assolutamente no!!! sono d’accordissimo con te, il mondo è bello perchè è vario senza che siano persone superiori o inferiori. Semplicemente siamo tutti diversi.
Non è questo il punto.
Nell’attuale culto della forza e della durezza, siamo ormai così abituati a sopprimere qualunque emozione, empatia o sentimenti verso gli altri che non solo non ci si pone il problema di questo ma anzi si ritiene positivo rimarcare ad esempio la propria indifferenza verso uno scritto di riflessione che parla di questo…sentimenti, emozioni.
si può essere annoiati, indifferenti, interessati ad altro, poco emotivi o poco empatici verso chi è agli antipodi rispetto a noi, sicuramente massima libertà e giudizio.
mi colpisce però la facilità che ormai si usa oggi per sminuire e ridicolizzare pubblicamente qualunque espressione dell’anima, in qualunque contesto.
una volta almeno se uno era insensibile se non altro taceva la propria insensibilità..
vivi e lascia vivere… io vorrei… ma cosa vorresti? imporre la tua sensibilità? convertire alle tue visioni? un mondo a tua immagine? il mondo è bello perchè è vario… mi emoziono leggendo te come leggendo Cassin o Lomasti… ma alla fine perchè e come vado in montagna lo suggeriscono i miei geni… e se sono un alpinista, perchè mediocri sono le mie spinte a rischiare, mediocre me ne faccio una ragione e non mi sento un essere inferiore 🙂
Un articolo di questo tipo, con il suo spessore emotivo, culturale e umano è ciò che serve all’attuale mondo dell’arrampicata (e non solo) per riflettere e ritrovare valori e prospettive.
io ho provato solo emozione a leggerlo…e quando è stato scritto mi mancavano ancora un po’ di anni a nascere, quindi non è perchè sono un anzianotto nostalgico.
ma ahimè, forse ora per non annoiare bisogna solo raccontare quanti tentativi e minuti sono stati necessari per chiudere un tiro…
l’arrampicata è diventata anch’essa uno specchio dell’italiano medio, dove ciò che diverte è spegnere il cervello e guardarsi un reality…
“Che noia ” …???
non siamo mica fatti di solamente di ciapa e tira.
Altro che noia! Mi ha fatto rivivere bellissimi momenti in montagna (Becco Valsoera) e non solo (EnVau) di 30-35 anni fa!
Lo scritto risale a 44 anni fa e deve essere valutato nel suo contesto storico. Proviamo a fare di meglio, se ne siamo capaci.
Che noia
Io solamente vorrei un alpinismo più umano.
Non vorrei che ci fossero alpinisti che arrampicano unicamente per il desiderio d’affermare se stessi, non vorrei che alcuni dimenticassero l’estetica, tesi unicamente a conseguire il risultato.
Difficile esprimerlo meglio!
che la tua anima, adesso, riposi in pace