Le misure di sicurezza esterne deresponsabilizzano l’individuo
Più uno si affida alle misure di sicurezza esterne, meno si affida alla sua sensibilità e alla sua soglia di attenzione. Questo, oltre a ledere la personale libertà di scelta, deresponsabilizza le persone rischiando, paradossalmente, di compromettere la sicurezza in modo ancora maggiore.
Questa la riflessione che ha fatto nascere la necessità di creare un “Osservatorio per la libertà in montagna”, riconosciuto dal CAI e presto anche dall’UIAA.
Qualche anno fa in Francia si sono accorti che la nostra società ha la tendenza a rendere tutto ciò che ci circonda “sicuro”, tanto che si parla di “société sécuritaire”. Da una parte Fino a un certo punto ciò è apprezzabile perché s’incoraggia un’attenzione molto più forte di un tempo verso la sicurezza, non solo a livello sportivo ma anche per esempio sul lavoro, nei locali pubblici e in altri campi. D’altra parte però è facile andare agli eccessi: pensare che la nostra sia una società sicura quando invece continua a non esserlo. Perché più uno si affida alle misure di sicurezza dalle quali è attorniato e meno si affida alla sua sensibilità personale e alla sua soglia di attenzione.
In montagna tutto questo è ancora più evidente. Tu puoi controllare finchè vuoi friends, corde, materiali, puoi avere gps, telefonini, la segnaletica in ordine, notizie aggiornate sul meteo e sul percorso: tutti questi mezzi sono utili, magari necessari, ma non sufficienti. Se uno li prende come oro colato e pensa che possano sostituire la sua immaginazione personale, la sua intelligenza e la sua attenzione, è finita.
La libertà è il contrario di questo concetto. A mio modo di vedere la libertà è esprimersi, scegliere, eventualmente sbagliare. Ma se tu ti siedi e ti affidi ai mezzi e alle tecnologie, limiti la tua libertà evitando di fare delle scelte. Bisogna ricordarsi che la montagna è uno specchio di quello che hai dentro, lei rispetta solo la tua forza interiore, e non quella dei mezzi e tecnologie che usi.
La sicurezza più affidabile è quella interiore, determinata dalla presa di responsabilità e dall’aver fatto delle scelte. La “société sécuritaire” tende senza volerlo a deresponsabilizzare le persone. Se si riesce a vedere con chiarezza questa situazione allora appare evidente che dobbiamo ribellarci a questa progressiva deresponsabilizzazione.
Poi ci sono i problemi “concreti”, come le proibizioni e i tentativi di divieto cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Parlo di decreti, ingiunzioni, ordinanze municipali che proibiscono la discesa di quel canalone perché è scesa una valanga, o che chiudono il Cervino perché è scesa una franetta, o chiudono il paretone di Arnad perché un istruttore di roccia è stato ucciso dal crollo di un masso, o iniziative assurde come quella del patentino per lo scialpinismo.
Queste problematiche vanno valutate caso per caso. Ecco perché è nato l’Osservatorio per la libertà in alpinismo e in montagna. Faccio degli esempi. Ad Arnad, dove a dispetto di sicurezza e spit è morto i suddetto istruttore torinese, il sindaco che aveva firmato la risistemazione della parete ha ordinato la chiusura. Anche i più fanatici sostenitori della libertà non possono qui dissentire, siamo tutti d’accordo sulla chiusura (breve) per condurre i necessari accertamenti, perché la parete è stata attrezzata dall’uomo. Ma la chiusura di un canalone non ha senso, perché l’uomo non c’entra con le sue condizioni di maggiore o minore pericolosità.
L’Osservatorio, nato il 19 maggio 2012 a Porretta Terme, è una piccola lobby culturale. Vogliamo far sentire la nostra voce, parlare ai convegni, richiamare l’attenzione della gente. Vogliamo intervenire nelle polemiche, per esempio quelle seguite alla frana del Pelmo che uccide i soccorritori, inviare comunicati stampa e pareri, darci da fare perché l’informazione venga corretta in un determinato senso. Nel 2012 a Lecco c’è stato il convegno “falesia sicura” e noi abbiamo contattato gli organizzatori perché nel programma non c’era un intervento che dicesse che in falesia e in montagna la sicurezza al 100% non ci sarà mai… quando invece questo andrebbe detto a voce forte. Apprezziamo il loro lavoro. Ma tutto dipende dal tono: può andar bene dire cerchiamo maggior sicurezza, ma non “saremo sicuri”. E’ necessario insistere sul margine di insicurezza che rimane, con chiarezza, non si può ipotizzare che il Sig.Rossi vada sicuro in montagna ovunque lui voglia. Scherziamo? Non è possibile. Dov’è la liberta del Sig.Rossi di avere un’avventura? Qui giochiamo con la vita delle persone, non dobbiamo pensare solo al marketing e alla responsabilità civile.
Per la société sécuritaire qualsiasi incidente deve sempre avere un responsabile o un capro espiatorio, è diventata la prassi. Una volta i prof portavano i ragazzini in gita, oggi è un’impresa impossibile, i professori hanno paura perché se si sbucciano un gomito i genitori fanno un casino mai visto. Gli incidenti succedevano 40 anni fa e succedono oggi, ma oggi c’è un accanimento terribile. Tutti coloro che lavorano in questo campo, dai professionisti ai volontari delle commissioni giovanili del Cai, dicono che si sta esagerando. Per questo per un amministratore diventa necessario chiudere le montagne, per salvarsi il culo, non per offrire sicurezza. Le chiusure non servono assolutamente a niente, la gente continua ad andare se vuole, non si risparmiano incidenti e comunque non è che l’amministrazione diventi migliore grazie alle chiusure. Se si vuole si può confezionare un cartello, “vi sconsigliamo di scendere di qua”; su un sentiero dismesso, va bene mettere un cartello tipo “qui andate a vostro rischio e pericolo”. Ma non “è vietato” come a voler eliminare ogni rischio: allora tutte le vie alpinistiche dovrebbero essere vietate.
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Condiviso sul mio profilo linkedin, ritengo che sia l’articolo, sia l’interessante splunto del Sig Tagliaferro siano un punto di vista che partendo da un ambiente come la montagna possa essere generalizzato ed avere valenza anche come filosofia.
Sinceramente non ho studiato l’argomento così a fondo da sentirmi di scrivere un articolo autonomo che “si faccia leggere”. Ringrazio comunque per l’apprezzamento.
Trovo efficace la considerazione che “la politica della sicurezza ha una logica come controllo della qualità dei prodotti”.
E sono del tutto d’accordo sul fatto che “si cerca di mantenere la massa delle persone in uno stato di perenne infanzia, si sostituisce la consapevolezza dei rischi (e della necessità di assumersene anche solo per ingoiare un pezzo di pane) con l’obbedienza a delle regole fissate dai benevoli e saggi “adulti””.
Caro Tagliaferro, ti andrebbe di sviluppare queste tue idee in un pezzo da pubblicare qui a tua firma?
Alessandro
Più semplicemente, la società della sicurezza non ha senso. Noi corriamo rischi in ogni attività, la politica della sicurezza ha una logica come controllo della qualità dei prodotti: corde che reggono veramente, automobili che non uccidono i passeggeri, cantieri di lavoro che non sono fabbriche di vedove. Ma la gente continuerà a morire cadendo dalle scale, scivolando sui sentieri, mangiando un boccone che va di traverso. Dal 2013 le associazioni sportive devono imporre una visita medica con elettrocardiogramma ai soci che vogliono fare attività di qualsiasi tipo nelle loro strutture. Ti faranno l’elettrocardiogramma per autorizzarti a rincorrere l’autobus? Ti faranno l’elettrocardiogramma per autorizzarti a provare eccitazioni?
Non è solo una questione di avventura da salvare: qui si cerca di mantenere la massa delle persone in uno stato di perenne infanzia, si sostituisce la consapevolezza dei rischi (e della necessità di assumersene anche solo per ingoiare un pezzo di pane) con l’obbedienza a delle regole fissate dai benevoli e saggi “adulti”.