Ma quello è il Cervino?
di Carlo Crovella
Lettura: spessore-weight**, impegno-effort*, disimpegno-entertainment***
Eravamo all’inizio della stagione scialpinistica, un paio di anni fa. Una prima nevicata già imbiancava le montagne, ma gli impianti sciistici della Val Susa erano ancora chiusi, in attesa del week end dell’Immacolata. Con questi presupposti mi piace risalire con le pelli le piste della Via Lattea, in genere puntando al cucuzzolone del Monte Fraiteve 2702 m, sopra San Sicario. Si tratta di un’attività sportiva che oggi ha assunto una sua autonomia, i praticanti la chiamano speedfit (salire e scendere lungo piste battute o nei loro pressi), ma hanno scoperto l‘acqua calda. Sono decenni che gli scialpinisti a inizio stagione utilizzano le piste solitarie appena imbiancate dalle prime precipitazioni. Certo non impostiamo un’intera stagione sulla risalite delle piste… In discesa, poi, io preferisco i boschetti laterali, dove conosco mille passaggi segreti immersi nella farina canadese.
Quel giorno, poco prima di raggiungere la vetta, vengo superato di gran carriera da un gruppetto di speedfiter (si offenderanno a chiamarli così?), che ballonzolavano nel loro ritmo cadenzato da garisti. Avviluppati da tutine aderentissime, casco in testa (!), telecamerina a mo’ di frontale, zainetto con airbag (sulle piste?!?), GPS appeso al collo, orologio con contapassi e frequenzimetro dei battiti cariaci, cellulare costantemente collegato con i social dove vengono direttamente caricate le foto scattate senza perdere un passo…
Monte Chaberton 3131 m (Alpi Cozie)
Anche volendo, non riuscirei a tenere il loro ritmo e quindi li raggiungo solo in vetta. Mi siedo un po’ in disparte, per dedicarmi al mio passatempo preferito: osservare con il binocolo le montagne circostanti. Le conosco a memoria, perché frequento l’alta Val Susa da decenni, eppure non so resistere a ispezionarle in ogni minimo dettaglio, nel cambiamento delle stagioni. Ogni volta scopro qualcosa che non conoscevo: un pinnacolo, un canalino, un dente in cresta, un qualcosa messo in risalto dal contrasto bianco-nero dovuto all’innevamento.
Uno degli altri mi si avvicina, l’auricolare con i cavetti bianchi che sbucano dal casco. Non mi saluta neppure, non ha un minimo tono gentile, semplicemente alza un braccio teso e, con il bastoncino puntato, indica lo Chaberton: “Ma quello è il Cervino?”
Sgrano gli occhi e, prima di riuscire a rispondere, il tipo si è già voltato e sta tornando dai suoi compari. Probabilmente il mio sguardo lo ha raggelato.
Per chi non è avvezzo alle Alpi Occidentali, provo ad abbozzare un parallelismo con le Dolomiti. Immaginatevi che un tipo, indicando il Campanile di Val Montanaia, vi chieda: “Ma quello è il Cimon della Pala?” Sono due vette che si trovano agli estremi opposti dei Monti Pallidi. Tra l’altro il Cimon si è conquistato il soprannome di “Cervino delle Dolomiti”, per cui il parallelismo calza a pennello.
Sempre più spesso, invece, mi imbatto in presunti frequentatori delle montagne che di montagne non sanno proprio niente. Non distinguono una vetta dall’altra, a volte non focalizzano neppure in che valle si trovano. Mi sono convinto che questa ignoranza è uno dei principali “prerequisiti” (chiamiamoli così…) degli incidenti. Infatti come possiamo pensare che individui che neppure distinguono una vetta dall’altra sappiano salire e scendere in modo sensato dalle montagne? “Corrono” in salita e poi “corrono” in discesa, ma senza comprendere “dove” stano correndo, potrebbero essere in un qualsiasi parco cittadino. Fin che uno speedfiter rimane rigorosamente all’interno del comprensorio sciistico, può anche permettersi di non comprendere niente dell’ambiente che lo circonda. Il problema è che, prima o poi, sarà tentato di uscire dal domaine skiable controllato e allora la natura lo aspetterà al varco…
Il fenomeno non è però esclusivo dello scialpinismo, ma è trasversale a tutte le attività che si possono compiere in montagna. Ho già delineato in altri interventi il cosiddetto morso dell’iper-tecnologismo, cioè l’erronea sensazione di assoluta sicurezza che deriva dall’essersi tappezzati di ogni gadget tecnico e tecnologico: la tracotanza che ne deriva, mescolata all’assoluta ignoranza delle montagne, è una miscela che scatena incidenti dalle conseguenze fatali.
Per tornare a casa, ma anche per divertirsi salendo e scendendo i fianchi delle montagne, occorre invece conoscere con assoluta precisione dove e come si sta procedendo. Per tale motivo la funzione didattica dello scialpinismo dovrebbe prevedere, prima di qualsiasi esercitazione sull’utilizzo degli apparecchi elettronici, una precisa conoscenza delle montagne.
Preciso che mi riferisco al mondo complessivo della didattica, estendendolo oltre i limiti dello scialpinismo, e non faccio assolutamente riferimento a questa o a quella Scuola.
Io sono convinto che la funzione didattica dovrebbe proporsi di educare alla montagna. E-ducare, come a me piace pronunciare (con una palpabile interruzione di suono dopo la e), perché, come leggo sul dizionario etimologico, deriva dal latino e-ducere, “condurre fuori”. Condurre fuori dal pantano dell’ignoranza, preciso io.
La prima mossa per condurre i neofiti fuori dal pantano dell’ignoranza è illustrare le montagne in quanto tali, far vedere loro dove è sensato salire (o scendere) e dove invece è scriteriato farlo. Inoltre bisogna abituare gli allievi al fatto che queste valutazioni possano cambiare da giornata a giornata, in funzione di variabili come il vento, le precipitazioni, la temperatura… Si tratta di una conoscenza che si accumula nel tempo e che può essere (col tempo) applicata anche a montagne che non si conoscono in precedenza. Intendo dire che conoscere le montagne aiutata a conoscere le leggi della natura, il lavoro del vento sulla neve, il tipo di reazione alle variazioni di temperatura e così via. Prima o poi si imparano questi meccanismi e li si può applicare anche a montagne che non si sono mai viste prima. Il primo obiettivo didattico deve quindi proporsi di costruire una forma mentis di questo tipo nella testa degli allievi.
Mi dilungo su questi concetti con specifico riferimento allo scialpinismo, perché la mia matrice di base è scialpinistica. Ma so per esperienza personale (essendo stato direttamente coinvolto, in quasi 40 anni da istruttore e direttore, anche nella didattica di altre attività montane: alpinismo, arrampicata canyoning, escursionismo…) che i ragionamenti sono assolutamente replicabili in ogni disciplina. Inutile, per esempio, illustrare l’utilizzo sopraffino di piccozze sinuose di ultima generazione, senza aver prima inculcato negli allievi la propensione a “capire” dove e perché si inserisce quella particolare cascata che stanno per affrontare, quali pericoli gravano sulla sua testa, quando e come è bene affrontarla e quando invece occorre non affrontarla per niente. Lo stesso vale per una via di roccia o di misto, per una forra acquatica, per un trekking…
Purtroppo, nel mondo didattico, oggi sembra quasi che sia disdicevole parlare di montagne, anziché di montagna. Dove per “parlare di montagne” intendo parlare di vette (e dei lori fianchi, degli accessi, dei punti chiave e di quelli pericolosi). Invece per “parlare di montagna” intendo disquisire di ogni concetto che riguarda le attività sportive che, di volta in volta, si praticano sulle montagne. Anche a me piace moltissimo parlare di montagna, ma perché a monte (scusate il gioco di parole…) sono fondamentalmente un appassionato (anzi, un innamorato) di montagne.
Le sogno, le desidero, le studio a tavolino analizzando cartine e relazioni (ecco dove si innesta la mia passione per i libri di montagna). Poi parto e concretizzo quel particolare itinerario, spesso nulla di eclatante sotto il profilo tecnico, perché ormai il mio scialpinismo è tornato su canoni molto classici: infatti appartengono al mio passato le parentesi da Sturm-und-drang, con tanto di discese ripide di canali e pareti o di esplorazioni di nuovi itinerari.
Questo “dai e vai” fra studio e realizzazione non è una mia scoperta. Ben prima di me lo ha teorizzato Massimo Mila, accademico torinese degli anni ’30, appartenente alla combriccola dei Gervasutti, Chabod, Rivero, ecc. (solo una lunga detenzione in quanto antifascista gli impedì di annoverare un palmares confrontabile con quello dei suoi compagni). Mila ha scritto che l’alpinismo è una delle poche attività umane che permette di “fondere insieme pensiero e azione”. Per questo mi piace immensamente scartabellare libri di montagna per innescare nuove idee operative e, mentre le sto realizzando, appuntarmi mentalmente nuovi stimoli (un versante, un vallone appartato, un canale, una cresta…) da analizzare sui testi appena giunto a casa, per rinnovare il meccanismo.
Monte Chaberton, a rischio di somiglianza con il Cervino?
Per questi motivi sono fermamente convinto che, prima ancora di insegnare come si usa l’artva o come si attaccano le pelli agli sci, occorrerebbe e-ducare gli allevi al concetto che “conoscere le montagne” è il primo prerequisito per la propria sicurezza.
C’è poi un altro risvolto, oltre a quello della sicurezza personale: se il nostro interesse è diretto e alimentato dalle montagne, si innesca una passione che dura un’intera vita. Viceversa se l’interesse è focalizzato sul funzionamento dei giochini elettronici, esso si estinguerà nel giro di poco tempo: non a caso verifico che molti allievi abbandonano completamente la montagna entro 4-5 anni e passano, dalla sera alla mattina, al kite-surf o al base-jumping.
Su questo risvolto, concludo con un aneddoto personale. Spesso alla partenza degli itinerari di scialpinismo classico, mentre mi sto preparando per la gita, vedo arrivare qualcuno di corsa, magari con uno scarpone sì e uno no: ha scoperto che ci sono anche io e desidera salutarmi. Il fenomeno è così frequente che mia moglie (mia abituale compagna di gita) mi prende in giro sostenendo che per me sarebbe impossibile passarla liscia se mai volessi fare una gita clandestina con un’altra accompagnatrice: di sicuro incontrerei qualcuno che mi conosce. Poi, si sa che “radio-serva” non ci mette molto a diffondere le notizie.
In genere questi conoscenti mi si avvicinano e dicono: “Ma tu sei Crovella, vero? Sai, io sono XY, ti ricordi di me?” Resto un po’ disorientato, il viso mi ricorda qualcuno, ma non sono in grado di focalizzarlo immediatamente.
“Ma sì – riprende l’interlocutore – sono stato “tuo” allievo alla SUCAI quando tu eri Direttore!” Ah beh, penso io, parliamo di trentacinque anni fa, eravamo tutti dei ragazzi, ecco perché non l’ho riconosciuto al volo. Però annuisco.
Lui conclude: “Ci tengo davvero a ringraziarti, perché con la passione che tu mi hai trasmesso verso le montagne, io non ho mai smesso di fare scialpinismo in tutti questi anni! Se ho ancora entusiasmo per fare gite dopo tutti questi decenni è proprio merito del tuo insegnamento iniziale!”
In questi frangenti io mi prendo i meriti che in realtà dovrebbero essere ripartiti con tutti gli istruttori di quel periodo, quando appunto si voleva trasmettere una “passione” e non un insieme di istruzioni sul funzionamento dei vari apparecchi. Però resta il fatto che, nella testa di quegli allievi, il loro Direttore racchiuda in sé le sorgente della loro passione pluriennale.
Questi episodi, che accadono al ritmo di 3-4 a stagione da decenni e decenni, la dicono lunga sul contenuto di una “vera” passione per le montagne. La gratitudine di questi “vecchi” allievi è la più grande ricompensa per gli istruttori della “vecchia guardia”, cioè tutti quelli con la mia mentalità.
E voi, istruttori delle giovani generazioni, pensate forse che fra 35 anni qualcuno dei vostri attuali allievi vi ringrazierà perché avete insegnato loro come funziona questo o quel gadget tecnologico?
Non penso proprio: le vostre figure spariranno nella memoria dei vostri allievi, perché per loro siete dei semplici tutorial, alternativi a un qualsiasi video facilmente ritracciabile su You Tube.
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Uno degli altri mi si avvicina, l’auricolare con i cavetti bianchi che sbucano dal casco. Non mi saluta neppure, non ha un minimo tono gentile, semplicemente alza un braccio teso e, con il bastoncino puntato, indica lo Chaberton: “Ma quello è il Cervino?”
Forse il problema sta’ tutto in come ci si pone.
Se il tipo avesse salutato Crovella e avesse cercato di interagire con cortesia il fatto di non sapere che “quello è il Cervino?” sarebbe passato ins econdo piano, così come le tutine, gli auricolari, ecc. ecc..
O no?
Sono imbarazzato a scrivere su questo blog quando vedo i nomi importanti che lo frequentano, comunque segnalo soltanto che anche a me piace riconoscere le montagne senza aiuti tecnologici ma solo quelli tradizionali come le carte topografiche. E che mi piace pianificare l’itinerario e sapere sempre dove sono e dove mi sto dirigendo. Qualcuno mi ha anche detto che proprio per questi motivi quando ci sono io manca l’avventura. Dico inoltre che anche a me è capitato, specie quando ero in comitive numerose, di trovare persone che non avessero idea della valle in cui ci trovassimo nè della meta che volevano raggiungere nè tantomeno delle montagne circostanti ma si limitavano a seguire il capo gruppo e ponevano domande proprio come quella che dà il titolo a questo racconto.
MOLTI DEGLI ULTIMI COMMENTI DANNO L’IMPRESSIONE DI ESSER STATI SCRITTI SENZA LEGGERE LA MIA PRECISAZIONE (COMMENTO N. 13). PER TALE MOTIVO, IN UN’OTTICA COSTRUTTIVA, MI PERMETTO DI RIPROPORLO. CIAO!
Cari amici,nella vita ognugno può fare quello che lo diverte di più… a maggior ragione in montagna, cioè in un momento di svago e di relax.Io vado in montagna alla “vecchia maniera” perché solo in tal modo mi diverto, mentre con i nuovi standard tendenzialmente mi rompo. Se fossi obbligato a seguirli, smetterei completamente.Tuttavia sono un attento osservatore del mondo che mi circonda (ho già avuto occasione di riportare che tale mi definì addirittura Andrea Gobetti negli anni ’80) e vi assicuro che mai come negli ultimi 10 anni, facendo gite in sci, ho visto così tante “caxxate”: pendii tagliati sensacugnisiun (è piemontese, ma immagino che sia comprensibile a tutti), gente che si caccia in canali dopo nottate di vento patagonico, altri che salgono alle 6 di sera… etc.A mio modesto parere, questo immenso numero di “caxxate” deriva dal mix di due fattori, come ho cercato di argomentare:1) L’ignoranza delle montagne (proprio della loro morfologia), per cui nessuno distingue più i tragitti percorribili a certe ore da quelli “vietati” dalle leggi di natura.2) La sensazione di onnipotenza collegata all’ipertecnoligia, ovvero “sono dentro una corazza stile Goldrake e posso fare tutto quello che voglio, perché sono io che mi impongo alle leggi di natura e non loro sulla mia volontà”.Per fortuna il 95% (è una mia stima a sensazione) di queste “caxxate” passa impunito, nel senso che la montagna le “assorbe” e gli autori non si rendono minimamente conto di averle commessse.Il restante 5% innesca distacchi, molti dei quali senza conseguenze gravi, alcuni invece con conseguenze mortali. Quelli che leggiamo sui giornali sono quindi una minima parte, quasi irrisoria, di tutte le “caxxate” commesse.E’ vero, lo ammetto senza mezzi termini: io considero il vecchio modo di andare in montagna, concettualmente ed eticamente “superiore”. Tuttavia non giungo a voler vietare l’accesso ai monti a chi ha un approccio diverso: semplicemente segnalo i risvolti estremanente negativi che tutto ciò comporta. Inoltre, cinicamente parlando, potrei anche non sentirmi coinvolto, visto che le vite in gioco non sono la mia.Mi dispiace, in conclusione, assistere al fatto che al fenomeno per cui si trasmetteva, di generazione in generazione, una “passione” si sia sostituito uno stile da asettico tutorial.Ringrazio tutti, in ogni caso, perché i vostri commenti sono dei contributi preziosi e confermano che avete letto con attenzione il mio articolo.Alla prossima
Kilian chi?
tutti abbiamo dovuto imparare da zero, ma pensare di poter “dominare” l’ambiente montano solo perchè si ha un ottimo allenamento o una formidabile attrezzatura è una forma di arroganza. certo, due polmoni allenati o un gps ti possono dare una mano, ma averli di per se’ non ti risparmia dagli inconvenienti. il fastidio che ho per le tutine è porprio la convinzione del poter bruciare le tappe, del considerare kilian jornet alpinista e non sapere chi è barmasse (tanto per citare due “giovani”)… poi ognuno farà come vuole, ma spacciare il fitness per alpinismo non mi va.
E cosa vuol dire? Siccome lo fanno tutti, dobbiamo adeguarci. Allineati, inquadrati e ubbidienti come tanti soldatini…
Ridicolo…. e così le capacità e le realizzazioni alpinistiche migliorano sempre più fra gli italiani!
Basta leggere le riviste, straniere, per accorgersi di cosa sappiano fare gli italiani, ma di sicuro sono i migliori mediocri al mondo.
RIDICOLO… scusa Alessandro Gogna… ma quello che ha scritto Carlo ha tanto del RIDICOLO ! Lasciamo perdere l’odio/disprezzo che ha Carlo per gli “strumenti” che si usano oggi giorno. Magari, giustamente, fin troppo… è vero. Ma oggi siamo nel 2018 e quelo che lui “odia” fa parte della vita quotidiana. Tornando all’inizio dell’articolo: in “ogni dove”, esiste qualcuno che NON conosce le montagne che ha attorno. Come esiste anche… qualcuno che sale sempre le stesse montagne e va sempre nello stesso posto !!!!! Anche se per fortuna “nostra” (Carlo compreso) non è il nostro caso ! Invece, lasciamoli fare.. ognuno in montagna (PER FORTUNA) sale ancora come vuole ! L’odierno andare in montagna, ha “rivoluzionato” il “vecchio andare in montagna”. Non tutti, certo… ma tanti, adesso salgono e scendono cime dove una volta (non solo per la differenza di materiale) non si credeva fosse nemmeno possibile. EVVIVA quindi, “l’odierno andare in montagna”. Anche le persone “moderne” scrutano e studiano ogni angolo “oscuro” di questa o quella cima, per salire e scendere dove nessuno era passato prima. Gli spazi sono sempre più ridotti, ma lo spirito è uguale a quello di una volta. E chi ama questo lo ama per sempre. Adesso come allora. Per le nuove generazioni, gli istruttori o le Guide Alpine, devono “lavorare” in modo più profondo. Tanto più per trasmettere la passione per la montagna. E i loro “allievi” ringraziano anche adesso. Tra loro ci sarà chi “raccoglie” il 100% di quelo che gli viene “trasmesso” e chi invece non tratterrà nulla. Ma questo è sempre accaduto. Perdipiù adesso SERVE anche insegnare come funziona un certo tipo di strumento tecnologico. Il GPS per esempio… perchè una volta no? La bussola e l’altimetro cosa erano… 30 anni fa ! E l’artva, appena era uscito… cosa sembrava ? Guide Alpine o Istruttori che siano… sono “figure” che NON spariranno dalla memoria di certi “nuovi allievi”. Tra l’altro, una volta, quest’ultimi erano (ESEMPIO) 10 per sezione. Adesso sono 10 allievi per Guida Alpina o per singolo Istruttore. Tra loro esistono quelli che fanno (ESEMPIO) il corso di Scialpinismo, solo per “vedere” un semplice “tutorial”. Altri, per innamorarsi di questo sport, per tutta la vita.
Da facebook, 21 febbraio 2018, ore 13.11
Lo sanno, loro parlano di altro, danno significati diversi. Spero riescano nei loro intenti.
Il nonno di Panzeri diceva che la libertà non esiste? Peccato, dovremo allora avvisare A. Gogna, Umberto Martini, Luca Calzolari, Renato Veronesi, Giacomo Stefani e gli altri che, nel 2012, fondarono l’Osservatorio, a ribadire la libertà e la gratuità di accesso alla montagna come valori primari.
Mio nonno mi diceva che la libertà non esiste, può esistere solo l’autonomia. E un uomo può solo aspirare a “muoversi nel mondo” in maniera autonoma. Ma la libertà riempie la bocca di molti, di solito quelli incapaci e quelli che non vogliono impegnarsi: quelli del vivere sociali e del condividere.
Ma mio nonno era del 1888, aveva fatto la terza elementare, la guerra in Libia, il corazziere/amante della regina, le due guerre mondiali, il muratore, il falegname….. e poi aveva inventato con i fratelli una piccola fonderia e fumava il toscano. Diceva anche di non restare mai senza soldi perché nessuno me li avrebbe dati e di non averne mai troppi perché me li avrebbero rubati. Leggeva sempre tutto quello che trovava, ma è morto a 90 anni. Una volta mi aveva spiegato che non aveva mai tradito la nonna Dirce perché sul momento più bello diceva sempre Dirce, Dirce.
E’ tutta una questione di intelligenza e di curiosità.
Se si crede fino in fondo alla libertà in montagna si accettano anche gli ignoranti in tutina. Ricordando bene che anche tutti quelli che si definiscono alpinisti, ai loro esordi, avevano un bagaglio culturale minimo. Tornando al racconto, domandare conferma del nome di una montagna è sintomo di curiosità e di coscienza dei propri limiti.
Da facebook, 20 febbraio ore 11.32
Paolo ma guarda che ti sbagli.
E’ un po come in una gara: basta chiedere la sostituzione, oppure un time out.
Enea, forse sono un pauroso, ma lo sai che in montagna è facile morire: fare l’atleta in montagna non è come fare l’atleta in uno stadio?
Il numero dei praticanti delle attività sportive connesse alla montagna è esploso. Pensate al trail: quanti vengono dalle gare su strada e quanti dalle escursioni in montagna? Detto questo, gli scialpinisti morivano anche quando erano tutti montanari col pedigree che conoscevano l’arco alpino a memoria. Poi, certo: vedere correre in montagna in scarpette gente che non ha idea di dove si trovi fa sorridere e rabbrividire. Mi interessa molto il tono dell’articolo. Stigmatizza giustamente l’ignoranza (ma moltissimi atleti mai percorreranno percorsi veramente scialpinistici). E poi critica l’aspetto degli atleti. Si meraviglia delle tutine, dell’airbag, del casco. Perché non sa, non capisce, che sono atleti in allenamento e vanno come andranno in gara. Per provare attrezzature, pesi, e così via. Dall’alto della sua sapienza montanara, rivela la sua ignoranza agonistica.
Da facebook, 19 febbraio 2018, ore 13.42
Purtroppo anche negli ambienti della montagna sta sempre più facendosi spazio il lato sportivo. nello scialpinismo come nell’arrampicata, è considerato “figo” quello che va forte, piuttosto che quello che conosce bene la neve di quel pendio, o si perde nell’osservazione di una vetta, o si siede su un masso erratico a gustarsi il panorama. la montagna sta diventando predominio delle “tutine”. io non ho niente contro chi utilizza i monti come una sala fitness, a patto che sia rispettoso dell’ambiente. però mi inca…o come una bestia quando poi queste persone vengono prese come rappresentative dei frequentatori della montagna.
Io sono fanatica di riconoscimento dei monti e sono pure abbastanza brava, non vado mai via senza una carta della zona che sto visitando. Volevo però dire un’altra cosa. Credo sia normale, quando si ama una attività, una zona, uno sport, diventarne competenti e anche fare battute su chi non lo è altrettanto è certamente umano. Se però un gruppo di persone in sicurezza, senza mettere altri a rischio, va in montagna senza tutto un background di conoscenze degno di una guida alpina beh, a me sta bene.
Da facebook, 19 febbraio 2018, ore 9.08
E’ curioso come alcuni abbiano letto uno sfottò nei confronti di chi non conosce le montagne. Io l’ho letto più come una preoccupazione reale su un modo sbagliato di approcciare le montagne. E’ come se dessero la patente di guida automatica ai piloti di formula 1: è certo che sanno guidare (e meglio della maggior parte di noi) ma devono anche conoscere le regole del codice, Crovella dice semplicemente (da appassionato prima che da esperto) che è sbagliato usare i monti come una palestra senza sapere dove stai andando. Il caso dello Chaberton confuso con il Cervino non serve a ridicolizzare la persona ma a dare un indicatore del livello di ignoranza (nel senso buono non offensivo). Confondere il Bollettone con il Pizzo dell’Asino (per parlare di due sconosciute montagne sopra Milano è un conto, sbagliare catena montuosa è un altro. Tutto ciò detto, alla fine nel complesso me ne frego. Nel senso, che se le persone semplicemente andassero per boschi e dicessero “Senti che buon profumo di Gled Aria Nuova” o salissero un sentiero pensando ai chili che perdono invece che al panorama… sono problemi loro. Ma le cronache sono purtroppo piene di persone che muoiono in montagna. Non per non saper distinguere lo Chaberton dal Cervino, ma per una profonda ignoranza di ciò che li circonda, del mondo in cui si sono incautamente infilati.
Da facebook, 19 febbraio ore 9
Per spezzare una lancia a favore della tecnologia, ci tengo a segnalare applicazioni come peak finder (tra l’altro scritta da un italiano) che spiegano benissimo il panorama da dove ci si trova e indicano i nomi di tutte le cime circostanti.
Io l’ho usato spesso da cime che non conoscevo.
credo che i personaggi in questione siano semplicemente alcuni tra i tanti esempi di persone che vanno in montagna con lo stesso spirito con cui si frequenta una palestra di fitness… Da sempre sui monti ho piacere di relazionarmi solo con persone che sono spinte lassù da vera passione e non da velleità sportive, agonistiche, atletiche e via dicendo…ho imparato più dai taciturni pastori e boscaioli che da tanti loquaci e chiassosi personaggi con buone gambe ma tanto vuoto dentro…e in montagna sono molti! L’educazione alla montagna forse serve ma, sopratutto, servono questi personaggi alla montagna??
E io che quando ho letto il titolo e visto la foto del mio amato Chaberton pensavo fosse uno scherzo…
da facebook
Lasciamo perdere l’odio/disprezzo che ha Carlo per gli “strumenti” che si usano oggi giorno.
Magari, giustamente, fin troppo… è vero. Ma oggi siamo nel 2018 e quelo che lui “odia” fa parte della vita quotidiana.
Tornando all’inizio dell’articolo: in “ogni dove”, esiste qualcuno che NON conosce le montagne che ha attorno.
Come esiste anche… qualcuno che sale sempre le stesse montagne e va sempre nello stesso posto !!!!!
Anche se per fortuna “nostra” (Carlo compreso) non è il nostro caso !
Invece, lasciamoli fare.. ognuno in montagna (PER FORTUNA) sale ancora come vuole !
L’odierno andare in montagna, ha “rivoluzionato” il “vecchio andare in montagna”.
Non tutti, certo… ma tanti, adesso salgono e scendono cime dove una volta (non solo per la differenza di materiale) non si credeva fosse nemmeno possibile.
EVVIVA quindi, “l’odierno andare in montagna”.
Anche le persone “moderne” scrutano e studiano ogni angolo “oscuro” di questa o quella cima, per salire e scendere dove nessuno era passato prima.
Gli spazi sono sempre più ridotti, ma lo spirito è uguale a quello di una volta. E chi ama questo lo ama per sempre. Adesso come allora.
Per le nuove generazioni, gli istruttori o le Guide Alpine, devono “lavorare” in modo più profondo.
Tanto più per trasmettere la passione per la montagna. E i loro “alievi” ringraziano anche adesso.
Tra loro ci sarà chi “raccoglie” il 100% di quelo che gli viene “trasmesso” e chi invece non tratterrà nulla. Ma questo è sempre accaduto.
Perdipiù adesso SERVE anche insegnare come funziona un certo tipo di strumento tecnologico. Il GPS per esempio… perchè una volta no?
La bussola e l’altimetro cosa erano… 30 anni fa !
E l’arva, appena era uscito… cosa sembrava ?
Guide Alpine o Istruttori che siano… sono “figure” che NON spariranno dalla memoria di certi “nuovi allievi”.
Tra l’altro, una volta, quest’ultimi erano (ESEMPIO) 10 per sezione. Adesso sono 10 allievi per Guida Alpna o per singolo Istruttore.
Tra loro esistono quelli che fanno (ESEMPIO) il corso di Scialpinismo, solo per “vedere” un semplice “tutorial”.
Altri, per innamorarsi di questo sport, per tutta la vita.
E se si dicesse sempre a tutti dovunque che l’andare per monti è molto pericoloso e si muore facilmente? Il primo pensiero dovrebbe essere rivolto al pericolo di morire, non all’essere in regola con le procedure di sicurezza.
Ci si divertirebbe lo stesso, ma magari i morti e i feriti diminuirebbero.
Crovella hai perfettamente ragione, almeno secondo me che pure su queste pagine ho portato contributi che ricalcano le tue idee e sensazioni nei confronti dell’odierno andar per monti.
Quello che per te é meraviglia e disappunto è per me, che faccio la guida e che sono un appassionato alpinista, routine giornaliera. Dopo le prime battaglie interiori e non, ho visto che non ne valeva la pena, pur notando esattamente le stesse cose che noti tu.
Noto con estremo piacere anche chi non è così. Conosco moltissimi giovani che hanno un approccio alla vecchia maniera (che ritengo anch’io “superiore”) e quelli mi sembrano gli alpinisti veri. Un’attività come l’alpinismo non credo possa cambiare nei propositi e negli aspetti intellettuali e culturali, col passare degli anni. Possono cambiare le attrezzature e certi atteggiamenti mentali a causa della caduta di molti pregiudizi, ma sostanzialmente nulla di più mi sembra diverso.
L’ignoranza è una brutta storia, siamo d’accordo, ma è un po’ come Dio nel catechismo che c’è sempre stato e sempre ci sarà. Le isole di ignoranza evitata sono sempre più estese nella società ma non potranno essere mai eliminate. E quelle relative alla montagna sono un’inezia rispetto al resto.
Dimenticavo, anche il “sentire” una montagna per ognuno diversa è cosa soggettiva. Per me non è evasione perché non mi sento prigioniero di nulla e l’ho eletta a mio luogo di lavoro (oltre che di passione prima e dopo) e se vogliamo di routine… Forse vivendola così sono più propenso a farmi scivolare addosso certe aberrazioni. Che comunque aberrazioni restano.
Infine, mi sforzo da anni, giuro, ma non capisco un fico secco di cosa vuole dirci Merlo. Ciao
Cari amici,
nella vita ognugno può fare quello che lo diverte di più… a maggior ragione in montagna, cioè in un momento di svago e di relax.
Io vado in montagna alla “vecchia maniera” perché solo in tal modo mi diverto, mentre con i nuovi standard tendenzialmente mi rompo. Se fossi obbligato a seguirli, smetterei completamente.
Tuttavia sono un attento osservatore del mondo che mi circonda (ho già avuto occasione di riportare che tale mi definì addirittura Andrea Gobetti negli anni ’80) e vi assicuro che mai come negli ultimi 10 anni, facendo gite in sci, ho visto così tante “caxxate”: pendii tagliati sensacugnisiun (è piemontese, ma immagino che sia comprensibile a tutti), gente che si caccia in canali dopo nottate di vento patagonico, altri che salgono alle 6 di sera… etc.
A mio modesto parere, questo immenso numero di “caxxate” deriva dal mix di due fattori, come ho cercato di argomentare:
1) L’ignoranza delle montagne (proprio della loro morfologia), per cui nessuno distingue più i tragitti percorribili a certe ore da quelli “vietati” dalle leggi di natura.
2) La sensazione di onnipotenza collegata all’ipertecnoligia, ovvero “sono dentro una corazza stile Goldrake e posso fare tutto quello che voglio, perché sono io che mi impongo alle leggi di natura e non loro sulla mia volontà”.
Per fortuna il 95% (è una mia stima a sensazione) di queste “caxxate” passa impunito, nel senso che la montagna le “assorbe” e gli autori non si rendono minimamente conto di averle commessse.
Il restante 5% innesca distacchi, molti dei quali senza conseguenze gravi, alcuni invece con conseguenze mortali. Quelli che leggiamo sui giornali sono quindi una minima parte, quasi irrisoria, di tutte le “caxxate” commesse.
E’ vero, lo ammetto senza mezzi termini: io considero il vecchio modo di andare in montagna, concettualmente ed eticamente “superiore”. Tuttavia non giungo a voler vietare l’accesso ai monti a chi ha un approccio diverso: semplicemente segnalo i risvolti estremanente negativi che tutto ciò comporta. Inoltre, cinicamente parlando, potrei anche non sentirmi coinvolto, visto che le vite in gioco non sono la mia.
Mi dispiace, in conclusione, assistere al fatto che al fenomeno per cui si trasmetteva, di generazione in generazione, una “passione” si sia sostituito uno stile da asettico tutorial.
Ringrazio tutti, in ogni caso, perché i vostri commenti sono dei contributi preziosi e confermano che avete letto con attenzione il mio articolo.
Alla prossima
Il Sella ronda attira moltitudini da 40 anni ( almeno ). Di allora, mi ricordo distintamente il fiume di sciatori sulle piste affollatissime e la coda per la funivia a Corvara. Ora c’e’ ancora piu’ gente? Certo che si. S’incontra il malcapitato che ci vede il Kilimagiaro? Puo’ capitare, ma magari dalla Marmolada, con buona visibilita’ …
Secondo me siamo cambiati soprattutto noi. A vent’anni la tecnologia non mette ansia. E a vent’anni le turiste, piu’ ce ne sono e meglio e’, con o senza gadgets…
E poi e’ normale. Siamo una comunita’ e vogliamo sentirci tale. Il trovare diversita’ negli altri ci rafforza. Piu’ gente incrocia il nostro cammino, e piu’ sono i difetti che ne troviamo. Si arriva al paradosso di sognare una societa’ in cui la gente se ne stia tutta in citta’ e affolli gli stadi e i centri commerciali anziche’ venire a corrompere la santita’ della pace montana. Ma si otterrebbe l’effetto contrario, sempre meno cultura e sensibilita’ nella direzione che vorremmo.
Purtroppo a situazioni come quella qui descritta assisto quasi giornalmente e ormai non mi meraviglio più. Anche in montagna si sono creati due mondi distinti, forse a causa della maggiore frequentazione, che ha trasformato tristemente certi luoghi creduti sacri, in palestre cittadine.
Credo che, finché quello che scambia lo Chaberton per il Cervino, sale e scende da una pista, non accada nulla di eticamente e socialmente grave. Anch’io quando con i miei clienti a volte “approdiamo” su una pista del Sellaronda dopo una bella gita, avvertiamo quel senso di conato di vomito per quanto ci passa di fronte. Ci rendiamo conto di frequentare in quell’istante due mondi differenti sullo stesso pianeta, come se dopo aver attraversato a nuoto l’Adriatico atterrassimo a Riccione.
Se i due mondi restano distinti non ci si molesta e c’è posto per tutti, giusti o sbagliati che si sia gli uni rispetto agli altri. Delle differenze ci saranno sempre. Capisco e condivido i sentimenti di Crovella a cui dico che ci sarà sempre chi saprà distinguere tra tutorial e umana conoscenza e i nostri sentimenti saranno così salvi.
Da facebook, 17 febbraio, ore 19.59
Le tue parole ” , il grande Amore per la Montagna , la passione per la natura , la conoscenza dei percorsi e delle Cartine , anche se non siamo gr. Alpinisti conosciamo le Montagne più Importanti …….G.C.
Emilio su questo sono completamente d’accordo con te.
Però è anche vero che l’alpinismo per essere tale ha dei requisiti, delle regole. Un po’ come un gioco. Primo fra tutti il rischio. Se non c’è, è un’altra cosa. Ne meglio, ne peggio, Semplicemente un’altra cosa.
E poi perché parlare di disprezzo. Che brutta parola.
Posso non condividere. Ma disprezzare, ostilità….sinceramente no! Non ne vedo il motivo.
Secondo me la prima mossa per condurre l’alpinismo fuori dal pantano della retorica è abbandonare la necessità di distinguere sempre tra un alpinismo “vero” e uno “non-vero” e mostrare empatia e comprensione e ascolto anziché disprezzo e ostilità anche nei confronti di chi non si veste come noi, non va in montagna come noi e magari maldestramente scambia il Chaberton per il Cervino.
Da facebook
Carlo, tu non capisci, tu non sei uno certificato, tu insegni la passione! 🙂
Ti ringrazio, mi vien da ridere perché mi han detto che nel libro del cinquantenario della scuola Pellicioli del cai di Bergamo io non sono citato, c’è un buco all’inizio degli anni ’80, ne ero il direttore, insegnavo la passione e i pericoli prima di tutto il resto, forse così va il mondo. Capita anche a me che qualcuno mi ringrazi di aver vissuto in montagna e questo mi fa gioire.
Secondo me non è neanche più una questione di cultura, quanto di consapevolezza. Senza consapevolezza non si apprezza davvero la vita. Andare in montagna così è come entrare in un museo senza una guida o una preparazione: ti diverti solo a metà.
Da Facebook
Beh, anni fa sentii pronunciare la stessa domanda. Io e mio padre eravamo sulla terrazza del Furggen, e il Cervino, quello vero, era proprio a un passo. Ciononostante, “scusi, quello è il Cervino?”. “Non c’è dubbio”, rispose serafico mio padre.
Da facebook
E ridaje… Le cose tanto comuni che ci fanno sentire ‘diversi’ ( o esclusi? ). I gadgets, la tecnologia, i social, il GPS, ecc… Invece bisogna sentire la montagna, capire, e prima di tutto Sapere. Chissa’ se qualcuno ci cogliera’ mai in fallo ( certo non nel cercare il Cervino vicino al Sestriere )… Come ci sentiremo?
Ma non ci provo neanche ad argomentare, di fronte a tanto compiacimento e tanta ansia di sentirsi migliori.
Invecchiare BENE ragazzi, proviamoci!
… da un classe ’66
Sono finiti i tempi quasi eroici delle gite di scialpinismo con la camicia a quadri di lana pesante, i berretti di lana e i guanti a muffola. Se non c’era la memoria che ci guidava , allora si usava una mappa dove magari la sera prima avevamo fatto qualche segnetto con la matita.
E’ cambiato completamente l’approccio con la montagna dove prima nessuno sapeva che avevi fatto una cima o una ferrata se non molti giorni dopo. E magari lo potevi solo raccontare a parole perchè non avevi la macchina fotografica compatta che ti immortalava.
Adesso la montagna è ostentazione. Non c’è nessuna riverenza e timore verso di essa in quanto la tecnologia ha creato l’illusione di poter andare ovunque. Non mi riferisco solo ai GPS o mappe sul cellulare, ma anche a tutte le attrezzature ipertecnologiche per la salita (spit, nut, friend,cam,lift,duck) e quei micro attacchi da scialpinismo che fanno sorridere solo a confrontarli con i silvretta a leva.
Il mondo è cambiato e quello che produciamo in pianura lo portiamo poi anche in montagna.
Ma la “mia” montagna saprà sempre regalarmi dei momenti di solitudine e paesaggi che nessuna macchina foto può immortalare.
A proposito alla domanda ” Ma quello è il Cervino?” io avrei risposto “..no è l’Antelao”
«Ho già delineato in altri interventi il cosiddetto morso dell’iper-tecnologismo, cioè l’erronea sensazione di assoluta sicurezza che deriva dall’essersi tappezzati di ogni gadget tecnico e tecnologico: la tracotanza che ne deriva, mescolata all’assoluta ignoranza delle montagne, è una miscela che scatena incidenti dalle conseguenze fatali.»
Il “morso” tende ad afferrare gadget tecnologici e a dilaniare la sensibilità: ci si affida alla misurazione degli strumenti, gli si presta attenzione; si interrompe l’ascolto della montagna, di noi stessi, del gruppo.
Appunto “prerequisiti” a trovarsi in ritardo nei confronti degli imprevisti.
Tuttavia l’argomento non è esaurito qui.
Prima degli strumenti, prima della fiducia che più o meno inconsapevolmente gli decretiamo, ci sono due cose, che vanno insieme.
1. La concezione, più o meno inconsapevole, della tecnoscienza come il non plus ultra, come irrinunciabile, come dottrina che supera ogni altra conoscenza.
2. La più o meno radicale assenza di consapevolezza di sé, del sé corporeo, delle ininterrotte informazioni sottili che raccoglie e ci trasmette, tanto dall’interno, quanto dall’esterno. Raccolta e trasmissione che restano soffocate dal dogma insuperabile della tecnoscienza. (La consapevolezza del corpo-macchina, del corpo maggiordomo, non interessa qui, è altra cosa, ed è quella alla quale normalmente la cultura si dedica.)
Ricchi di questo binomio, anche senza tecnologia appresso, anche senza scialpinismo e montagne, cioè vitanaturaldurante si alza il rischio di arrivare in ritardo sugli imprevisti: andremo mentalmente a cercare qualcosa fuori di noi, non avremo le doti – in quanto non educate, né allenate – per fare ricorso alla nostra infinita creatività, per andare a cercare la soluzione dentro di noi. Per valorizzare il genio che abbiamo.
Valorizzando le informazioni che ci giungono dall’ascolto, contemporaneamente sfruttiamo l’empatia. Saremo su un piano sottile della realtà. A quel punto, tutti i saperi, tutti gli attrezzi, strumenti e gadget, tutto il canonico e l’apocrifo sarebbe combinato al meglio e magari in modo inusuale.
Diversamente i saperi razionali e a maggior ragione i dogmi, credono nell’oggettività della realtà, impediscono di entrare in relazione con essa perché siamo in relazione con altro. La conoscenza affettiva – come la chiamano alcuni – viene morsa, perduta.
Se il senso dell’ascolto, della realtà nella relazione fosse invece stato coltivato e fosse nostra usuale modalità, vedremmo che ci affidiamo anche a tanto altro di esterno, vedremmo che in molte alte occasioni scavalchiamo noi stessi a favore di cosa mi ha detto l’istruttore di fare in questi casi? Non è possibile andare senza guida! Ma il metodo non dice questo!