Mancato per un pelo
(Fritz Wiessner al K2 nel 1939)
di Mirella Tenderini
(pubblicato su Alp n. 110, giugno 1994)
Se non avesse ascoltato Pasang Lama, Fritz Wiessner sarebbe stato il primo uomo a metter piede su un Ottomila, undici anni prima di Herzog e Lachenal, e senza ossigeno. A meno che Mallory e Irvine non avessero davvero raggiunto la vetta dell’Everest nel 1924 prima di scomparire nel nulla, nel qual caso il primato sarebbe spettato a loro. Ma a questa eventualità nessuno credeva sul serio nel 1939: nel 1939 le cime di 8000 metri erano ancora tutte da conquistare, e mentre gli inglesi avevano rinnovato i loro tentativi all’Everest e i tedeschi li avevano concentrati sul Nanga Parbat, gli americani si erano rivolti alla seconda montagna del mondo in ordine di altezza, il K2.
L’anno precedente, 1938, c’era stato un tentativo piuttosto incoraggiante: gli americani Paul Petzold e Charles Houston erano arrivati a circa 700 metri dalla vetta e prima di ritirarsi avevano potuto osservare che poco sopra la quota da loro raggiunta c’era un buon posto per un campo e che la parte terminale della parete sembrava praticabile.
Uno dei fautori di questa spedizione era stato Fritz Wiessner. Tedesco di origine (era nato a Dresda nel 1900) Wiessner si era trasferito negli Stati Uniti nel 1929 e nel ’35 aveva ottenuto la cittadinanza americana. Formatosi alpinisticamente nella “Svizzera” sassone, prima di lasciare l’Europa aveva accumulato un numero impressionante di salite in Dolomiti, sulle Alpi Occidentali e nel Kaisergebirge, comprese alcune prime di notevole difficoltà come la parete sud ovest del Fleischbank e la Nord della Furchetta. Nel 1932 Willi Merkl lo invitò a far parte di una spedizione al Nanga Parbat. A Wiessner si unirono due americani, Albert Rand Herron e Elizabeth Knowlton, esperti alpinisti, accettati soprattutto perché in grado di contribuire al finanziamento dell’impresa. Fu una buona spedizione, anche se nessuno arrivò in vetta. Salirono lungo il versante nord attrezzando campi fino a 6950 metri nonostante il tempo pessimo; Merkl e Wiessner raggiunsero i 7010 metri prima di essere costretti a ritirarsi. Scesero tutti sani e salvi: fu l’unica spedizione incruenta al Nanga Parbat prima della vittoria di Hermann Buhl, nel 1953.
Negli Stati Uniti, Wiessner scoprì e valorizzò le pareti degli Shawangunks nello stato di New York e compì numerose salite sui vari gruppi montagnosi, compresa la prima salita in libera della Devil’s Tower. L’impresa che gli conquistò grande fama in America fu, nel 1936, la prima ascensione del Monte Waddington, un gigante di 4016 metri nel clima severo della British Columbia canadese, che aveva respinto sedici tentativi precedenti.
Nel 1939, quando si parlò di nuovo del K2, si diede per scontato che il capo spedizione fosse Fritz Wiessner. Purtroppo le cose cominciarono a funzionare male sin dall’inizio. Per cominciare, nessuno degli alpinisti che erano stati al K2 l’anno precedente era disponibile; venivano perciò a mancare degli elementi di provata validità con conoscenza diretta della montagna. Inoltre l’American Alpine Club, che aveva dato il suo patrocinio, non era riuscito a raccogliere fondi sufficienti. Si rimediò con contributi personali dei partecipanti e soprattutto con l’ammissione di due personaggi in grado di fornire il danaro necessario a completare il finanziamento previsto. Eaton (Tony) Cromwell e Dudley Wolfe erano entrambi alpinisti appassionati ma il loro curriculum, benché nutrito, comprendeva quasi esclusivamente attività svolta con guide. In condizioni normali nessuno dei due sarebbe stato accettato, ma mancavano i fondi e mancavano alpinisti di valore che fossero liberi da impegni per i mesi necessari a una spedizione in Karakorum. Cromwell comunque dichiarò sin dall’inizio che non si sarebbe spinto oltre i primi campi.
Purtroppo, salvo Bestor Robinson che aveva sviluppato tecniche innovative in Yosemite e sulle montagne della British Columbia, gli altri partecipanti non avevano grandi qualità alpinistiche. Wiessner tuttavia non aveva scelta, e probabilmente confidò di poter ragionevolmente contare su tutti per l’allestimento dei campi e su Robinson per l’attacco finale. Wiessner aveva una fiducia assoluta nella propria forza ed era abituato a portare i suoi secondi di cordata al livello delle sue capacità, perciò è possibile che non si preocupasse molto della debolezza del suo gruppo. Soprattutto non aveva alcuna intenzione di rinunciare: si trattava della spedizione ufficiale del Club Alpino Americano, a fatica erano riusciti a mettere insieme uomini e fondi e non restava che partire.
Malauguratamente, all’ultimo momento anche Robinson dovette rinunciare, e fu sostituito da Jack Durrance, eccellente alpinista – anche lui autore di una via classica sulla Devil’s Tower – che aveva fatto pratica di guida alpina nei Tetons e che all’epoca si trovava in Germania. Il rimpiazzo avvenne all’insaputa di Wiessner quando era già partito. A Genova, sulla nave che portava il gruppo a Bombay, si trovò davanti Durrance al posto di Robinson. Per qualche motivo che non è possibile analizzare razionalmente, tra i due vi fu subito un po’ di diffidenza o addirittura di antipatia, e ciò doveva procurare infinite amarezze ad entrambi e fu forse una delle molte cause che portarono alla tragedia finale.
La storia, tutte le storie, sono turbate dai “se” che suggeriscono alternative irrealizzate. “Se” Cleopatra avesse avuto il naso più lungo, “se” non fosse piovuto quella notte a Waterloo… Se Fritz Wiessner avesse convinto Pasang Lama ad andare avanti, o se lo avesse sistemato su una cengia, lasciandogli qualche indumento in più per coprirsi e avesse proseguito per altri 244 metri (in realtà stimati 229, NdR) – relativamente facili dopo le rocce che Wiessner aveva scelto di salire a sinistra del canale che viene ora comunemente percorso – sarebbe arrivato in vetta al K2 quella sera del 19 luglio 1939. Prima di Lino Lacedelli e Achille Compagnoni. Primo uomo su un Ottomila. Erano le sei del pomeriggio, il tempo era splendido e lui si sentiva in grandissima forma. Ma Pasang non si lasciò convincere, addirittura non fece scorrere la corda a Wiessner quando questi si accinse a proseguire. Slegarsi e abbandonarlo, no, questo Fritz non lo avrebbe fatto mai. Meglio scendere al campo IX e risalire l’indomani per tempo.
Ma nello scendere in doppia, Pasang Lama si ingarbugliò con le corde, e nel districarsi perse le due paia di ramponi che portava legate in vita. L’incidente costò tempo e fatica a entrambi e il giorno seguente anziché risalire si fermarono al campo IX a riposare. Continuava a fare bel tempo e nella tenda spalancata si godeva un piacevole tepore. Fritz passò la giornata a prendere il sole, nudo sopra il sacco a pelo, nell’aria sottile degli ottomila metri. Il giorno dopo sarebbe risalito. Non era andata poi così male dopotutto, finora, nonostante tutti i guai che avevano perseguitato la spedizione sin dall’inizio.
Sì, l’inizio era stato davvero travagliato. Uno sherpa si era ammalato di polmonite a Korofon: già un uomo in meno appena partiti. Poi cominciarono i problemi per l’attrezzatura difettosa o mancante. Non c’erano occhiali da sole per i portatori, e tre sherpa accecati da una bufera di neve avevano dovuto essere rimandati ad Askole. Ma soprattutto gli scarponi per gli sherpa erano inadeguati: lasciavano passare l’acqua e avevano causato qualche inizio di congelamento che aveva rallentato l’allestimento dei campi. Anche Durrance aveva avuto problemi di calzature. Si era fatto spedire un paio di scarponi speciali dalla Germania ma erano arrivati tardi e anche lui aveva perso tempo per curarsi congelature incipienti. Poi c’era stato il grosso guaio della malattia di Chappell Cranmer. Era edema polmonare: a quell’epoca la malattia non era nota né tantomeno si conoscevano i rimedi. Jack Durrance, studente di medicina alle prime armi, ma considerato il medico della spedizione, si era trovato impreparato di fronte a uno dei casi più gravi di tutta la sua carriera anche successiva. Aveva fatto il meglio che poteva, per istinto e dedizione e Chappel si era salvato, ma aveva dovuto rimanere al campo base, convalescente e inutile al gruppo.
Lungo lo Sperone Abruzzi, l’allestimento dei campi procedeva tra mille guai e polemiche latenti. C’era chi, come Trench, mugugnava a portar pesi e a lavorare per piazzare le tende, e chi pur pieno di buona volontà, come Wolfe, non era molto portato per i lavori pratici ed era più di impiccio che d’aiuto. Vi erano difficoltà di comunicazione con conseguenti malintesi perché solo un paio di sherpa parlavano qualche parola di inglese e nessuno degli americani parlava l’indostano. C’era un solo interprete che non poteva essere simultaneamente in diversi campi. Vi fu soprattutto un lungo periodo di bufera e, tolto Wiessner, nessuno aveva mai avuto esperienza di permanenza in alta quota con maltempo. Wiessner era sempre l’uomo di punta e proprio per questo si trovava sempre nei campi più alti, senza contatti con il resto del gruppo, che finì progressivamente col demoralizzarsi. L’unico a conservare entusiasmo, oltre a Fritz, era Dudley Wolfe, ed è comprensibile che nonostante la sua scarsa abilità alpinistica e totale incapacità a prepararsi un tè da solo, Fritz lo prendesse sotto la sua tutela e ad un certo punto lo scegliesse come suo compagno per la vetta. Entusiasta, ottimista e fisicamente robusto, Wolfe non si tirava indietro se c’erano pesi da portare, ma poi doveva farsi aiutare alla minima difficoltà su neve o roccia. Anche per questo evitava il più possibile di scendere e poi risalire, e rimase per più di un mese sopra i 6500 metri nella zona che più tardi, in seguito agli studi di Wyss-Dunant, venne chiamata la Zona della Morte.
Dal campo IV a 6500 metri, Wiessner attrezzò la via per altri tre campi fino in cima allo Sperone Abruzzi a 7500 metri, col solo aiuto di due bravissimi sherpa, Pasang Kikuli e Tse Tendrup. Ridiscese quindi al campo V e poi al IV pensando di trovare provviste e materiale portati dai campi bassi. Ma nessuno era arrivato fin lì; c’era solo Wolfe, salito con Wiessner e Pasang Lama e rimasto in attesa del loro ritorno.
Un irato Fritz si precipitò al campo II e la notizia dell’alta quota raggiunta infiammò momentaneamente gli animi depressi. Il giorno successivo salirono tutti al campo IV, ma l’entusiasmo durò poco. Tolto Jack Durrance avevano tutti qualche problema di salute, e lo stesso Jack soffriva dei postumi del leggero congelamento sofferto il mese prima. Gli unici in perfetta salute sembravano essere Wiessner, Wolfe e pochissimi sherpa. Fu così che Wiessner proseguì solo con Wolfe e Pasang Lama senza più occuparsi di quello che succedeva più in basso. Gli americani scesero ai campi inferiori e al campo VII rimase solo un gruppo di sherpa senza istruzioni. Seguirono incidenti minori, Jack Durrance si ammalò gravemente – probabilmente un inizio di edema cerebrale – Tony Cromwell aveva problemi di respirazione, George C. Sheldon e George Trench non erano in grado di fare più che qualche ricognizione visiva e per giunta si stava avvicinando il giorno previsto per il rientro. Dal gruppo di punta non arrivavano notizie; del resto non c’era modo che potessero arrivare, perché Wiessner non aveva voluto che si portassero radio rice-trasmittenti. Gli alpinisti rimasti ai campi bassi cominciarono a temere che i tre fossero morti.
Al diciannovesimo giorno di attesa Tony Cromwell, a cui Wiessner aveva affidato la responsabilità del gruppo in sua assenza, ordinò di evacuare i campi e di prepararsi per la partenza. Per ordine espresso di Cromwell o per cattiva interpretazione dei messaggi passati da sherpa a sherpa, i portatori rimossero tutto, fornelli, sacchi a pelo e materassi, dal campo VII al campo base.
Il 21 luglio, Fritz Wiessner e Pasang Lama, ristorati da una giornata di riposo, si accingono a risalire il pendio nevoso verso la cima. Ma nel frattempo la neve è ghiacciata ed è impossibile proseguire senza ramponi. Poiché li hanno perduti due giorni prima, devono scendere per procurarsene degli altri. Per fortuna il tempo è sempre bello. Al campo VIII trovano Dudley Wolfe che è lì da cinque giorni. Aveva avuto difficoltà con la neve alta, ed è rimasto ad aspettarli. Sta bene ma è un po’ nervoso: ha finito i fiammiferi e ha potuto bere solo poca neve sciolta al sole su un telo impermeabile. Scendono tutti al campo VII. Su un pendio nevoso Wolfe vola e trascina Pasang. Anche Wiessner viene trascinato ma riesce a piantare la piccozza nella neve ghiacciata, a fermarsi, a trattenerli tutti e due. Sono salvi, ma Pasang è ferito. Occorre scendere in fretta.
Al campo VII, il primo colpo duro: non c’è nessuno, le tende sono crollate, non ci sono fornelli, non ci sono sacchi a pelo né materassi. Passano una notte penosissima, al freddo, senza un minimo di ristoro. Il giorno dopo Fritz sistema alla meglio una tenda per accomodare Wolfe e scendere in fretta con Pasang. Wolfe non si è fatto niente ed è di ottimo umore come sempre. Fritz gli lascia tutti i viveri che ha con sé e i fiammiferi. Gli lascia anche il suo sacco da bivacco, tanto tornerà su il giorno dopo con altri viveri, i ramponi e qualcun’altro per ritentare la vetta. Scendono, Fritz e Pasang Lama. Ma una delusione dopo l’altra li attende ai campi VI, V e IV smantellati e spogli.
Allo stremo delle forze continuano a scendere e raggiungono il campo II al buio. Qui almeno trovano due tende ancora in piedi, benché vuote. Si riposano qualche ora alla meglio in una tenda coprendosi col telo strappato all’altra, e alla mattina del 24 luglio, con l’energia della disperazione, raggiungono il campo base. I compagni che si stanno preparando a partire, li guardano come se vedessero dei fantasmi. Wiessner, fuori di sé per la tensione e lo sfinimento, accusa Tony Cromwell di tentato omicidio per negligenza. Esagera, forse, con gli insulti. Lo si potrebbe scusare, considerata la situazione, ma l’aristocratico Cromwell non gliela perdonerà.
Ma adesso che si fa con Wolfe su da solo a 7700 metri? La discesa precipitosa e le due notti trascorse senza riparo hanno distrutto tutte le forze di Fritz; a malapena riesce a trascinarsi fino al campo II ma non ce la fa a proseguire. Jack sta malissimo, anche Tony è ammalato. Gli altri sono già partiti. Non rimangono che gli sherpa, per fortuna bravissimi. Pasang Kikuli e Tsering Norbu salgono al campo IV in un solo giorno, e il giorno successivo, Kikuli e altri due sherpa, Pasang Kitar e Phinsoo, raggiungono Dudley Wolfe.
Fritz lo aveva lasciato pochi giorni prima in buone condizioni di salute e di spirito. Ora lo trovano sofferente e apatico, sdraiato nella tenda dalla quale non è uscito nemmeno per i suoi bisogni. Ha finito ancora una volta i fiammiferi, non mangia e non beve da due giorni. Gli sherpa non riescono a metterlo in piedi. Gli preparano il tè, lo fanno mangiare, puliscono la tenda. Dice che ha bisogno di un giorno di riposo, poi scenderà con loro. Gli sherpa non hanno portato sacchi da bivacco e scendono a dormire al campo VI dove Tsering Norbu ascolta il loro racconto e li guarda risalire il mattino dopo. Per due giorni li aspetta. Il terzo giorno nevica fortissimo e Tsering Norbu scende al campo base. La neve è molto alta e non si può fare niente. Non si saprà mai cosa è successo: di Dudley Wolfe e dei tre sherpa non sarà più trovata traccia.
Fritz Wiessner ha raggiunto il punto più alto toccato da uomo finora, ma c’è stata una tragedia e nessuno lo festeggia. Al contrario, un offeso Tony Cromwell arrivato a Srinagar prima degli altri ha già fornito la “sua” versione al circolo angloamericano, e ha apertamente accusato Wiessner di essere il responsabile della morte di Wolfe e dei tre sherpa. Nel frattempo l’Inghilterra e la Francia hanno dichiarato la guerra alla Germania. Quando la spedizione rientra negli Stati Uniti, sulla banchina, i giornalisti in cerca di notizie sensazionali ascoltano Cromwell che rinnova le sue accuse. Wiessner, intervistato, spiega pacatamente, col suo pesante accento tedesco, che in montagna come in guerra c’è il rischio di morire. L’accento più ancora dell’affermazione scatena inconsulti odi nazionalistici.
Per anni Wiessner dovette soffrire l’ostracismo della comunità alpinistica americana, in seguito ai sospetti scatenati dall’assurda accusa di Cromwell. Nel 1940 vi fu un inchiesta del Club Alpino Americano, che non condusse a nulla. Da parte sua Wiessner non aveva nulla da rimproverarsi: mai avrebbe abbandonato un amico. Non aveva forse rinunciato alla vetta del K2 che era a portata di mano per non lasciare solo il suo compagno sherpa? Aveva lasciato Wolfe al campo VII perché era sicuro di tornare l’indomani. Tanto sicuro che non aveva preso con sé il suo sacco da bivacco. La colpa era invece di chi aveva abbandonato loro e aveva smantellato o fatto smantellare tutti i campi. Per questo lui, Wiessner, aveva dovuto scendere fino al campo base in quelle condizioni e non era stato in grado di risalire a prendere Wolfe. Ma Wolfe, quando l’aveva lasciato, stava bene, era sicuro, mentre gli altri, in base al racconto di Tsering Norbu sulle condizioni di Wolfe quando fu raggiunto dai tre sherpa pochi giorni dopo, erano convinti che lo avesse abbandonato già ammalato.
Ciò che Wiessner non sapeva, e nessuno conosceva allora, era l’effetto deleterio del soggiorno prolungato in alta quota, al di sopra della cosiddetta Zona della Morte, dove Dudley Wolfe era rimasto ininterrottamente per trentotto giorni, sedici dei quali addirittura sopra i 7600 metri. Lo stesso Wiessner era stato eccessivamente a lungo in alta quota, ventotto giorni in tutto, con un’interruzione di cinque giorni quando era sceso al campo II per riorganizzare – invano – i rifornimenti ai campi alti. Per l’effetto dell’alta quota, probabilmente, più che per l’ultima disastrosa discesa con Pasang, il suo fisico eccezionale era crollato una volta arrivato al campo base.
Ma Wiessner non sapeva di questi problemi. Era convinto che la sola causa della tragedia fosse stata lo smantellamento dei campi, e per qualche motivo probabilmente inconscio ne attribuì la colpa non a Tony Cromwell, ma a Jack Durrance.
Durrance era l’unico alpinista americano del gruppo che avrebbe avuto le qualità per salire in vetta con Wiessner, ma i contrattempi gravi all’inizio della spedizione lo avevano demoralizzato quanto gli altri. A Wiessner aveva rimproverato di essere eccessivamente proiettato verso la vetta, di essere assente come capo spedizione e di mancare di giudizio nel trascinarsi appresso un alpinista poco dotato come Wolfe per il solo fatto che aveva pagato gran parte delle spese della spedizione. Se Durrance non si fosse ammalato, probabilmente sarebbe salito lui con Wiessner e le cose sarebbero andate diversamente. Ma Wiessner non aveva potuto contare su di lui mentre Wolfe lo aveva seguito fino a che aveva potuto, e Fritz si era messo in mente che Durrance avesse agito per invidia e che per invidia ed ostilità avesse smantellato i campi, facendo il vuoto dietro alla cordata di punta.
Fu così, che quando negli anni Settanta amici e estimatori di Wiessner riuscirono a riportare la storia all’attenzione del pubblico per riabilitare la sua reputazione, Fritz, ormai convinto di quanto andava rimuginando da anni e che aveva già scritto in un suo libro e in un articolo del 1956, accusò apertamente Jack di essere il vero colpevole della tragedia nonché il suo personale nemico.
Non si ripara un’ingiustizia con un’altra ingiustizia. Fritz Wiessner era sicuramente in buona fede, ma il pubblico che vuole sempre un “cattivo” su cui sfogarsi, fu ben lieto di infierire su un nuovo presunto colpevole.
Così Wiessner fu giustamente riammesso al club alpino americano e agli onori meritati dalla sua attività alpinistica che continuò a svolgere ad alto livello fino a pochi mesi prima della sua morte, nel 1988, e Durrance fu trattato ingiustamente da tutti coloro che scrissero di Wiessner o che lo intervistarono. Inevitabilmente, perché Wiessner stesso forniva loro gli argomenti per denigrarlo.
Dal canto suo Jack Durrance non fece niente per discolparsi. Fin dall’inizio della vicenda aveva dimostrato antipatia per le polemiche e il suo desiderio di tornare a casa piuttosto che salire in vetta al K2, già prima di ammalarsi, era dovuto alla ripugnanza di mettersi in condizione di dover discutere quotidianamente con una persona dalle idee diametralmente opposte alle sue.
Di recente, due alpinisti americani, gli stessi che più si erano adoperati per la riabilitazione di Wiessner e per la sua riammissione all’American Alpine Club, si accinsero a riscrivere la storia della sfortunata spedizione americana del ’39 al K2, e nel corso di ricerche estensive si imbatterono in documenti e testimonianze che smantellavano l’ipotesi di Wiessner e scagionavano Durrance.
Il risultato delle loro ricerche è il libro K2 – The 1939 Tragedy (Seattle/Londra, 1992), scritto, come dichiarato nella prefazione, “per due ragioni importanti: verità e giustizia”. Gli autori sono Andrew J. Kauffman e William L. Putnam, alpinisti molto noti in America ed esperti di spedizioni himalayane (Kauffman è stato il primo salitore dell’Hidden Peak, nel 1958 con Peter Schoening). Il loro libro è un esempio raro di equilibrio e di pacatezza. Ricostruendo i fatti accuratamente e investigando sulle cause dalla tragedia, Kauffman e Putnam scagionano sia Wiessner che Durrance, ma invece di puntare il dito su un nuovo colpevole – facilmente individuabile, da quanto raccontato, in Tony Cromwell – riescono a spiegare come la catastrofe finale sia stata il risultato di tanti errori, più di valutazione che di comportamento, che si sono sciaguratamente sommati nel corso della spedizione.
Non muovere facili accuse, ma cercare di capire, è un buon servizio reso a “verità e giustizia”.
La tendenza attuale, tra i salitori di Ottomila, è di permanere il meno possibile in alta quota, e di scendere sempre, se possibile, a dormire sotto la “Zona della Morte”. Su questo argomento si è molto scritto e molto sperimentato e fa impressione, oggi, pensare a Dudley Wolfe che passa trentotto giorni tra i 6700 e i 7600 metri, quasi sempre fermo in una tenda, senza ossigeno, e con l’equipaggiamento degli anni Trenta, che non comprendeva ancora doppie scarpe e giacche imbottite di piumino. E a Wiessner che sempre senza ossigeno arriva a 8400 metri dopo due settimane di attività durissima – ad arrampicare e ad allestire campi – sopra i 7000 metri e dichiara di sentirsi nella sua migliore forma.
E che dire degli sherpa? Pasang Lama era arrivato quasi in vetta con Wiessner e si era fermato perché stava venendo buio, non perché non fosse in grado di proseguire. Anche lui era sopra la “Zona della Morte”, senza ossigeno, da nove giorni. E gli altri sherpa che in pratica rimpiazzarono i sahib americani, tutti più o meno malati o infortunati e comunque rimasti in basso, anche loro passarono un buon numero di giorni consecutivi nella “Zona della Morte”, senza ossigeno e male equipaggiati. Anche il riconoscimento dei meriti di queste persone modeste e straordinarie è un contributo alla verità e alla giustizia.
La verità nuda comunque è che nel 1939 mancava quell’esperienza che purtroppo non è bastata nemmeno in anni recenti ad evitare altre tragedie. Gli alpinisti tendevano a rimanere il più possibile in alta quota per non perdere l’acclimatazione, non si conosceva nemmeno l’esistenza di malattie come l’edema polmonare e l’edema cerebrale, e non ci si era posti, alla partenza, alcuna domanda sulla capacità del gruppo a convivere e ad operare in modo coordinato. Ora c’è più possibilità di scelta fra molti alpinisti capaci e disponibili ed è più facile evitare di partire sapendo anticipatamente che alcuni partecipanti hanno caratteri diametralmente opposti. Forse non fu nemmeno molto saggio nominare capo spedizione l’alpinista più preparato ed esperto. Wiessner aprì praticamente da solo la via lungo lo Sperone Abruzzi fino a 244 (secondo il rapporto piedi-metri in realtà 229, dando per buona la cifra 27.500 piedi, NdR) metri dalla vetta. Era impegnato giornalmente al massimo della sua resistenza. A coordinare il lavoro degli altri non ci pensava nemmeno: aveva nominato suo vice Tony Cromwell ed era sparito per diciannove giorni, verso la vetta. Nonostante gli errori, i problemi e l’attrezzatura primordiale, Wiessner riuscì a compiere un’impresa che sarebbe stata eccezionale anche in condizioni più favorevoli. E’ un episodio della storia dell’alpinismo poco noto da noi in Italia, che vale la pena riconsiderare con attenzione ora, a cinquantacinque anni di distanza e a quarant’anni dalla prima salita del K2.
Un retroscena giornalistico poco edificante
(pubblicato su gruppo facebook “Alpinismo-Mountaineering”)
Come rivelano le ultime righe, questo articolo è stato scritto ventisette anni fa. Infatti è stato pubblicato su Alp n. 110 in occasione del quarantesimo anniversario della prima ascensione del K2; ma chi avesse conservato quel numero di Alp e andasse a rileggersi l’articolo, scoprirebbe con sorpresa che Pasang Lama e i suoi compagni, nonostante il loro nome richiami decisamente una popolazione buddista, non erano sherpa, ma hunza – una popolazione musulmana del Pakistan… Che strano! Non state a scervellarvi, vi spiego subito tutto. Quel numero di Alp dedicato al K2 dava ampio spazio ad articoli sulla prima ascensione, nel corso della quale gli italiani della spedizione guidata da Desio, che a differenza di Wiessner aveva avvicinato la montagna dal Pakistan, avevano ingaggiato guide e portatori hunza. Qualcuno della redazione deve aver pensato che al K2 si va solo con gli hunza, e senza nemmeno prendersi la briga di consultarmi ha corretto tutti i miei “sherpa” in “hunza”. Ancora oggi non so chi sia stato. Il direttore, che allora era Enrico Camanni ha girato la responsabilità sul capo redattore che allora era Marco Ferrari, il quale ha detto che dell’articolo non si era occupato lui ma un altro redattore… Una mia lettera (alquanto furibonda, l’ammetto) che chiedevo venisse pubblicata nel primo numero raggiungibile per spiegare l’errore che non era mio, è stata ignorata. Solo qualche numero dopo sono comparse poche righe di rettifica, pudicamente nascoste tra le “varie” che non legge mai nessuno, con le scuse della direzione all’autrice dell’articolo per “l’involontario errore”.
Nell’estate 2002, per uno di quei pietosi casi ricorrenti in Himalaya, è stato ritrovato il corpo di Dudley Wolfe, e si è riacceso l’interesse per la vicenda di Wiessner al K2. Subito in America sono comparsi libri sull’argomento e, vedrete, se ne parlerà anche in Italia. Mi sembra una buona occasione per ripresentare questo mio articolo e ringrazio Vertice per la sua pubblicazione, per la prima volta, nella versione corretta.
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PER ALBERTO CARDINO
L’itinerario percorso da Compagnoni e Lacedelli il 30 e 31 luglio 1954 è reperibile nel libro di Ed Viesturs e David Roberts: “K2. La montagna piú pericolosa della terra“, Casa Editrice Corbaccio, 2009.
Lì vi è pubblicata una foto-cartolina con la scritta “VICTORY”, l’itinerario di salita (linea continua) e quello di discesa (linea a trattini), ben evidenti. Le due linee furono tracciate dagli stessi primi salitori, che lasciarono pure la loro firma a mo’ di conferma. La cordata salí lungo le rocce del fianco sinistro (dx. idr.) del canalone, a breve distanza dal solco nevoso.
La linea di Wiessner corre invece molto piú a sinistra ed è anch’essa riportata in quel libro.
… … …
Stranamente, la fotografia del 1954 non compare né nel libro di Desio né in quello di Compagnoni.
Nonostante l’infelice logistica di quella spedizione, la prestazione alpinistica di Fritz Wiessner è una delle più grandi in assoluto della Storia. La sua arrampicata a mani nude sulla parete a sinistra del Collo di bottiglia rimane ancora oggi un qualcosa di strabiliante (va ricordato che Wiessner nella sua Sassonia aveva già probabilmente superato il Settimo Grado). La parete fu affrontata perché Wiessner giudicò troppo pericoloso passare sotto l’enorme seracco che sovrasta il Collo di Bottiglia; ma solo un arrampicatore eccezionalmente dotato poteva fare una simile scelta. Non mi è del tutto chiaro, dai resoconti del 1954, se Lino Lacedelli abbia superato la stessa parete nel corso della prima ascensione, dopo un primo tentativo non riuscito di Achille Compagnoni. Difficile, visto che era gravato anche dalle bombole di ossigeno, che nella spedizione del 1939 non c’erano. Se è così, credo che la “variante” Wiessner aspetti ancora la prima ripetizione, dato che tutti salgono dal Collo di Bottiglia e poi traversano a sinistra. Non mi risulta che qualcuno abbia mai fatto un resoconto di tale arrampicata, ma potrei sbagliarmi. Se invece Lacedelli avesse superato lo stesso tratto, ciò sarebbe la riprova della sua indiscussa abilità arrampicatoria. Comprensibilmente Pasang Dawa Lama si spaventò e non volle continuare. Per quanto forte, Pasang non raggiungeva il livello di Wiessner in arrampicata. Così impedì a Wiessner di raggiungere la vetta del K2 e – parere personale – gli salvò la vita. La vetta sarebbe stata raggiunta non prima dell’imbrunire e sarebbe stato inevitabile un bivacco a quota altissima, senza protezione alcuna e con abbigliamento palesemente inadeguato. Fra i contributi recenti, leggibile in italiano, consiglio “La scalata impossibile” di Jennifer Jordan, la quale ricostruisce benissimo anche il milieu storico sociale in cui nacque la spedizione e, in particolare, la figura di Dudley Wolfe.
BEI TEMPI DELL’ALPINISMO ESPLORATIVO
Bell’articolo, molto interessante. Grazie.
Bei tempi quelli dell’alpinismo esplorativo, con ancora tutti gli ottomila da salire. Non è poi strano che quell’alpinismo potesse diventare anche eroico e tragico: le conoscenze, l’attrezzatura e l’organizzazione erano scarse.
Non solo l’alpinismo, ma tutta la storia dell’umanità non ci sarebbe stata se non ci fossero stati personaggi coraggiosi che affrontavano ambienti sconosciuti potendo fidare solo su se stessi.
Un paio di considerazioni non sui fatti, ma su questa narrazione.
1) veramente odiosa quella faccenda di aver presuntuosamente corretto (falsificandolo) l’articolo con gli hunza/sherpa.
Io ho un profondo odio per quei capiredattori che, senza metterci la faccia, scrivono i titoli sui giornali spesso falsificando articoli che altrimenti sarebbero ben scritti, per non parlare di certi traduttori…
2) però la Tanderini, vittima di quella falsificazione sugli hunza, fa poi lei altrettanto contro il suo stesso articolo con quel suo incomprensibile incipit: ” Se non avesse ascoltato Pasang Lama…” mentre proprio lei ci racconta che invece Wiessner non ha “ascoltato” e non si è fatto convincere da lui ma, a fronte della paura di Pasang ha deciso di non abbandonarlo lì da solo.
Decisione grave che poi gli è costata la salita e che proprio per questo va riconosciuta, rispettata e apprezzata.
geri
Non sono mai stato a quelle quote. Non ho quindi titolo per fare affermazioni in merito. Basandomi esclusivamente su istinto ed impressioni, a questo giro direi di trovarmi daccordo con quanto espresso da Corvella, soprattutto sul piano giuridico.
Dal punto di vista umano ammettere di aver potuto compiere scelte che in condizioni normali non si sarebbero fatte, aiuterebbe sicuramente a non esacerbare i rapporti…vedi la vicenda del K2 italiana. Ma comprendo non sia facile, specialmente se si è nati e cresciuti in un ambiente che non ti abbia specificamente formato nel rispetto dell’altro.
Che pellacce! Lo dico con ammirazione sconfinata. Da appassionato di alpinismo mi dispiace genuinamente che la spedizione del ’39 non sia arrivata in vetta, lo meritava (pari sensazione provo per Mallory e Irivine all’Everest, per i quali resta il mistero sul raggiungimento o meno della vetta). E’ ovvio che, dall’altra parte, sono felice che la prima salita del K2 sia risultata italiana. Tutte queste vicende, con code così ingarbugliata e spesso velenose, dimostrano che le polemiche (sia interne alle spedizioni sia da parte di giornalisti e osservatori esterni) non possono non esistere per questo tipo di esperienze. La Zona della Morte è un luogo fisico non fatto per la vita, specie per una normale vita umana, e pretendere di applicare parametri razionali (in particolare se “giuridici”) è una stupida velleità delle specie umana che si sente superiore perfino alla natura. A maggior ragione se li si applica ex post, magari blaterando da una scrivania o davanti a un caminetto. Di conseguenza commissioni di inchiesta, tribunali (quanto meno alpinistici), accuse e contraccuse sono inutili e ridicoli. Lassù ci va chi lo vuole, sia ben chiaro, ma per scelta conscia e determinata. Quella zona dovrebbe essere considerata una specie di “porto franco”: a tutti dovrebbe essere chiaro che, lassù, non valgono le leggi umane (né morali né giuridiche) ma solo quelle della Natura. Questo vale anche per le decisioni dei singoli umani che, momentaneamente, si trovano lassù. Se si abbandona la pretesa di applicare anche lassù i parametri della quotidianità umana, di colpo sparirebbero tutte le polemiche e le commissioni di inchiesta.