Moby Dick

Melville e l’icona Moby Dick
di Carlo Crovella

Nel settembre del 1908, precisamente il giorno 9, è nato Cesare Pavese. “Che c’entra Pavese con le montagne?” sento già la domanda serpeggiare fra i lettori del Blog. In effetti Pavese, che nei suoi romanzi ha descritto – peraltro egregiamente – le natie Langhe, c’entra praticamente nulla con la montagna, se non indirettamente. Pavese è molto importante, per noi torinesi, per il suo contributo alla storia culturale e intellettuale di Torino: studente del Liceo D’Azeglio, dove conobbe una nidiata di futuri personaggi di peso (Giulio Einaudi, Norberto Bobbio, Leone Ginzburg, Massimo Mila…), fu fra i fondatori della Casa Editrice Einaudi, che praticamente diresse per lungo tempo. Oltre che scrittore in prima persona, Pavese è stato lo scopritore (per il mercato italiano) della letteratura americana, specie attraverso importanti traduzioni. Fra queste spicca quella di Moby Dick, il celebre romanzo sulla Balena Bianca, scritto da Herman Melville. Per combinazione poche settimane fa (1 agosto) si è celebrato l’anniversario dei 200 anni dalla nascita di Melville.

Moby Dick è un romanzo ambientato in mare, ma la Balena Bianca è diventata così famosa che è ormai un’icona (se non, addirittura, l’icona) dell’avventura. La storia del Capitano Achab, alla continua e vana ricerca della Balena (cui soccombe), non è forse metafora della vita stessa? E non si lega con le considerazioni malinconiche che sfuggono a Giusto Gervasutti in vetta alle Grandes Jorasses, dopo la mirabile prima ascensione della parete est? “Già lo sguardo corre a cercare un prossimo obiettivo…”.

Moby Dick

Non è un caso se esiste un qualche parallelismo fra Moby Dick e Gervasutti. Infatti Massimo Mila, che fra i compagni di liceo di Pavese è uno dei pochi (forse l’unico) a vantare anche un prestigio alpinistico, raccontava che imprestava i suoi libri al Fortissimo, avido di letteratura. A Gervasutti piacevano soprattutto i romanzi di avventura tipici della grande tradizione anglosassone: Kipling, Conrad e appunto Melville. Mila assicurava che Giusto avrebbe potuto citare a memoria il testo di Moby Dick, tante volte lo aveva letto con passione divorante. Mare, deserti o montagne, il desiderio di avventura ha una matrice comune.

Moby Dick è un brand talmente affermato, un’icona incontestabile di avventura, che si potrebbe ipotizzare una linea di abbigliamento o di attrezzi specializzati definiti da tale brand. In fondo “Patagonia” non si ricollega agli spazi infiniti, al vento incessante, ai cavolfiori di ghiaccio del Torre? Quado scegliamo un pile, inconsciamente non ci proiettiamo alla fine del mondo sudamericano?

Ora che Melville è un autore addirittura osannato, molti salgono sul carro del vincitore. In occasione della celebrazione dei 200 anni il buon vecchio Herman è stato addirittura definito un ambientalista ante litteram e un precursore dei diritti gay (per alcuni riferimenti a certa intimità maschile nei lunghi mesi in mare a bordo delle baleniere).

Ma a me piace vederlo come un sognatore di avventure. Seduto alla sua scrivania, nella fattoria in terra americana, Melville immaginava di essere sulla tolda si una nave e, oltre la finestra, “vedeva” onde oceaniche, velieri lanciati a tutta birra e un’immensa, incatturabile Balena Bianca.

Mutatis mutandis, non è forse quello che “vediamo” anche noi leggendo di montagna?

Melville l’ambientalista
di Michele Farina
(pubblicato su Corriere della Sera il 31 luglio 2019)

Una mucca: che cosa c’entra una mucca con la balena più famosa del mondo? Herman Melville scrisse Moby Dick in una fattoria che aveva chia­mato Arrowhead, punta di lancia, per via di certi ritrova­menti tatti con l’aratro nei campi.

Scriveva tutto il giorno, dalle 8.30, con una pausa alle 14.30. Le pagine venivano su­bito affidate alla sorella Augu­sta, che le ricopiava in bella co­pia. Per distrarsi, Melville andava nella stalla a guardare gli animali mangiare. Il cavallo e la mucca. Gli piaceva special­mente la seconda, il modo in cui muoveva la bocca. Tanto che ne scriveva: «Mastica con grande gentilezza e una tale santità…».

Non solo mostri mangia-gambe: l’uomo che aveva navigato dall’Atlantico alla Polinesia, lo scrittore che compose il suo capolavoro marino avendo sullo scrittoio una copia della Storia Natu­rale del Capodoglio di Tho­mas Beale e al focolare un ar­pione da baleniera, amava le mucche.

La campagna inneva­ta gli sembrava un mare, e la sua finestra il porto. Lasciò Arrowhead solo quando fu co­stretto a venderla (al fratello maggiore) e tornare nella città natale New York. Ormai igno­rato: a 35 anni, la sua popolari­tà era finita mentre decollava quella di Walt Whitman, altro gigante della letteratura. Era­no nati nello stesso anno, il cacciatore di fili d’erba e il can­tore della Balena Bianca. Nel 1819: Herman Melville il primo di agosto. Domani sono due­cento anni esatti.

Herman Melville

Tutti oggi hanno sentito par­lare di Moby Dick. La prima edizione uscì nel 1851 a Londra (s’intitolava The Whale, la balena) e subito dopo in Ame­rica. Un flop pazzesco. L’autore morì di cuore quasi mezzo se­colo dopo, a 72 anni. Comple­tamente dimenticato. Fu solo in occasione del centenario dalla nascita, nel 1919, che par­tì un «Melville Revival» che non si è più fermato. L’ultimo omaggio l’ha vergato ieri lo scrittore Philip Hoare, autore di quel Leviatano ovvero la balena che è un monumento all’eredità del grande Herman. Se la letteratura non lo fece di­ventare ricco (tutti i suoi libri gli fruttarono non più di 10 mi­la dollari), è vero che Melville ha proiettato l’ombra della sua Balena fino a noi. Sul quotidia­no The Guardian, Hoare tesse l’elogio della sua straordinaria e vaticinante visione del mon­do. La sua modernità. Inse­guendo il Capitano Achab alla caccia della balena che gli ha mangiato la gamba, «Melville anticipa l’emergenza climatica e ambientale del nostro tem­po», scrive Hoare.

Non è certo la prima volta che si fa questo accostamento. Lo sfruttamen­to totale e indiscriminato della risorsa delle balene (il grasso e l’olio che serviva per accende­re i lampioni delle città) è stato paragonato in passato a quello del petrolio.

Sul fronte del co­stume, sul Pequod Melville mise in scena quello che se­condo Hoare «potrebbe esse­re il primo matrimonio gay della storia della letteratura occidentale», con un equipag­gio «multiculturale fatto di nativi americani, neri e asiati­ci». E a bordo c’era pure un in­glese della Manica, secondo i calcoli delle autorità dell’Isola di Man, che per i 200 anni han­no emesso un francobollo alla memoria.

In fondo l’ispirazio­ne per il suo capolavoro gli venne nel 1849 tra Europa e America, sulla nave che lo ri­portava a casa da Londra, dove aveva soggiornato dalle parti di Charing Cross sbevazzando in giro, cercando contratti e concludendo poco o niente. Chi volesse ritrovare l’idillio agrario raccontato da Jill Le­pore sull’ultimo New Yorker può recarsi a Arrowhead, nel Berkshire. L’albero delle mele di Melville è ancora là. La stalla della mucca è il negozio dei souvenir.

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Moby Dick ultima modifica: 2019-09-03T05:40:20+02:00 da GognaBlog

3 pensieri su “Moby Dick”

  1. A me piace anche il vecchio film.
    Ma lui ha scritto tanto e solo tardi è stato letto, direi più dopo le guerre mondiali che prima, dove era più un flop che un successo.
    Ma io non so bene la sua storia.
    Però questo mi dà da pensare sul 900 e l’avvento dell’uomo industriale e …

  2. Bellissimo! È proprio vero che l’avventura è un continuo rincorrere qualcosa che sfugge sempre

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