Morte della Guida
(in memoria di Angelo Dibona)
di Armando Biancardi
(pubblicato su Scandere 1957-1958)
Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
L’uomo di oggi non ha più tempo per pensare. La sua giornata si addentella ad un ingranaggio tirannico. Tutto sempre più in fretta, tutto sempre più meccanicamente; sempre più superficialmente, sempre più rumorosamente, sempre più venalmente… Ad osservarlo con un certo distacco, non si trattasse anche di noi… (povero uomo!) ci sarebbe da sorriderne. Dove sta ancora di casa la saggezza?
Aprite la vostra finestra e, dalla strada, vi assalirà il rombo della bolgia… Guardateli come corrono! Hanno il denaro, le comodità, la posizione invidiabile, la carriera aperta… Ma non uno solo che sia contento! Tutti lì, trepidanti, affannati, famelici, angosciosi di stare meglio, di sorpassare il vicino, di avere ancora più denaro, di “divertirsi” ancora di più, di avere ancora più “distrazioni”… e di essere ancora “più scontenti”! Brontolano e imprecano; hanno visi sempre più cadaverici, sguardi sempre più torvi.
Angelo Dibona, Luigi Rizzi e Max Mayer
Finché viene un giorno (il giorno), in cui si finisce di correre per il “campionato”… Ai quaranta o ai settanta, a seconda della resistenza, uno sgambetto attende implacabile. Ed allora, e solo allora, purtroppo, in un attimo, breve e lucido come un lampo, si capisce forse, perdìo, come si sia buttata la vita tanto bestialmente. O, degno coronamento, non ce se ne accorge affatto. Tanto, chi si prenderebbe mai il mal di pancia di andare a chiedere cosa sia stata per essi la felicità (se proprio nell’appagamento piuttosto che nella mortificazione); quale scopo (se solo piattamente utilitario), quale significato (se solo animalesco) abbia avuto per essi la vita!? Forse, non sapranno neanche (sempre comunque “troppo tardi”), di essere stati soltanto loro i turlupinati!
Angelo Dibona. Archivio: Carlo Gandini
Che sbaglio venire fin quassù in cerca di una “Via Comici”! Che sbaglio venire (per non perdere assolutamente tempo…) in una giornata piovosa, fredda, tetra, come questa, per ritrovare pretensiosamente ancora qualcosa di nuovo, di inespresso, dalla voce del povero Emilio, udita in vita troppo “frettolosamente”…! Dove l’eleganza, dove l’intuito, dove la stessa difficoltà, dove la lotta e l’esigenza, dove l’eco di un’esaltazione artistica? Voler ritrovare la sua anima vibrante e la sua natura solare in una giornata così! Questa Torre non è che un cumulo di pietre bagnate; questa via, con passaggi discontinui e contorti, irriconoscibile; questi dintorni, a due passi da Cortina, disgraziatamente maleodoranti solo di prodezze del pedale… In queste condizioni, anche sulla vetta, dove pur sembra sciogliersi il nodo che ci lega e vanisce quella nebbia che così spesso ci avvolge, estraneo a me stesso sono!
Detesto i rimpianti, utili a nulla, ma che errore! Non sarebbe stato meglio scendere con maggiore umiltà a Cortina, chiedere invece di un’altra grande guida, di un altro eccezionale alpinista, di Angelo Dibona per esempio? Perché Angelo Dibona invecchia; perché presto è finita anche per lui; perché è questa l’ultima occasione di vederlo vivo nella sua casetta alle radici del Cristallo. Giacché domani, come oggi di Comici, di lui non troverai più niente, neanche sulle sue stesse orme… Invece la fretta, la mania… conoscere molte montagne… percorrere tante vie… sceglierle abbastanza salate… E cosi, di questo passo, l’Anseluco Pilato è morto, e tu, non t’illudere, non farai più la tua domanda, non avrai più la tua risposta. Errore piccolo, errore grande… errore su errore, la vita prosegue.
Riparare comunque, ora? Come non potrebbe valerne la pena!
L’Anseluco Pilato sembra nascere all’alpinismo solo nel 1907, allorquando ventottenne si supera bellamente in “prima ascensione” la Torre Leo, una di quelle torri che hanno avuto modo di dare a più d’un alpinista del filo da torcere e qualche dispiacere, salendo in libera su difficoltà sino allora ritenute inaccessibili. Ben pochi infatti lo conoscono al di fuori della cerchia dei compaesani cortinesi. Eppure, la logicità, l’eleganza delle sue vie, di tracciato pressoché rettilineo troveranno riscontro solo qualche anno dopo nelle creazioni di Paul Preuss, e solo molto più tardi in quelle di Emilio Comici. Un precursore dunque? Non credo.
La guida cortinese Angelo Dibona, uno dei più grandi alpinisti della storia
La “bravura personale” rimane inimitabile. Non può dare l’avvio a correnti. Può riscuotere dell’ammirazione, ecco tutto! Quasi come Preuss, convintissimo ascetico cavaliere del salire ”in libera” ma vittima egli stesso del suo abbagliante ideale, Angelo Dibona attua queste vie per lo più schivo dell’uso di qualsiasi mezzo artificiale. Oltre cinquanta prime ascensioni, compiute non soltanto nella conca ampezzana, ma un po’ ovunque sull’arco alpino, anche in casa di tedeschi e di francesi, portano l’impronta di questo stile. Quanti, oggi, si preoccupano ancora dello “stile” delle loro realizzazioni? Il nome di Hermann Buhl si troverebbe isolato in un vuoto pressoché pneumatico…!
L’iniziativa e la perspicacia non difettano certo in Anseluco ma, ad indirizzare con decisione e sicurezza la sua attività, ecco due incontri. Il primo, con Tita Piaz, vecchia volpe, dal quale (quasi a sfida)… apprende come i più importanti problemi ancora insoluti siano in Dolomiti alla Roda di Vael, alla Cima Una e al Croz dell’Altissimo, così come nelle Alpi Calcaree del Nord alla Lalider. Il secondo, con i fratelli Mayer di Vienna che lo ricercano come guida, perché la più valida, perché, ormai, la più famosa.
Ad uno ad uno, i problemi posti in evidenza dal Piaz sono attaccati e demoliti nel breve volgere di anni dal 1909 ai 1911, “in concorrenza” più o meno aperta con gli stessi stupiti Tita Piaz e Sepp Innerkofler, che già avevano tentato e fallito. Così come quelli affrontati successivamente fuori dal campo dolomitico, via via proposti dai Mayer, fra i maggiori insoluti di tutte le Alpi, vengono anche quelli risolti nei pochi anni dal 1911 al 1913.
Allora, vita alpinistica intensa ma di breve durata? Tutt’altro! E lo vedremo presto.
Angelo Dibona, Luigi Rizzi e Max Mayer. Archivio: Carlo Gandini
La più bella di queste vittorie? Eccola nel 1911 sulla Nord della Lalider: un muraglione pressoché verticale di oltre settecento metri di altezza, muraglione che aveva respinto i più reiterati tentativi, e per giudizio unanime dei più forti alpinisti del momento, considerato inviolabile. E’ necessario un giorno intero di arrampicata con un bivacco a duecento metri dalla cima. Ed è questa una delle prime salite dove i chiodi fanno la loro apparizione come “indispensabili”. Ma “quanti” esattamente? Il francese Lucien Devies, studioso di storia dell’alpinismo come altri pochi (come ad esempio lo svizzero Marcel Kurz, come il nostro recentemente scomparso Antonio Berti), afferma vagamente senza compromettersi troppo… che “furono in quell’occasione utilizzati numerosi chiodi”. In relazione ai tempi, forse, ma non proprio. Oggigiorno poi, in cui una “rispettabile via”… si apre con almeno “un centinaio di chiodi”… può essere significativo e salutare conoscere quanti furono quei chiodi. E allora, facendo un cumulo complessivo di quelli utilizzati (per non tralasciarne proprio nessuno), non solo sulla Nord della Lalider, ma in cinquant’anni (non uno di meno) di lotte e di vittorie, diremo che furono in tutto undici… (non uno di più). E questo, amici, significa poco? Ma, si affrettava a chiarire il Dibona, se portato sull’argomento e quasi a scusarsi del “peccato”, “perché costretto dalle sue responsabilità di guida”…!
In diciassette ore di durissima scalata, con un’impressionante direttissima, supera gli ottocento metri dalla famosa Nord della Cima Una; in dodici di arrampicata ininterrotta, i mille metri della temuta Sud-ovest del Croz dell’Altissimo; in un’intera giornata di grazia, i seicento metri della vertiginosa Nord-ovest del Grosser-Oedstein. In quindici ore di rischi, viene a capo degli ottocento metri della tetra Sud della Meije, dalla quale era caduto il celebre Zsigmondy. In una dozzina d’ore, fra due bivacchi, domina i settecento metri della grandiosa muraglia Nord dell’Ailefroide, e in un’altra dozzina, liquida i mille metri dell’imponente Nord-ovest del Dôme des Neiges des Ecrins… Può bastare? Credo proprio di sì! Furono tutte “prime ascensioni” queste, di importanza eccezionale (di cui una sola sarebbe stata sufficiente a dare lustro duraturo ad un alpinista), tentate più volte, ed invano, dal fior fiore dell’alpinismo internazionale. E, soprattutto, non si dimentichi, a distanza di più di cinquant’anni dalla loro apertura (Torre Leo compresa), nonostante la retrocessione di quasi ogni vecchia salita, ancora tutte classificate nel V grado! E di qui, non è abbastanza pacifico constatare ancora una volta come le salite in libera (inchiodabili) non crollino tanto in fretta come le artificiali appena dopo le prime ripetizioni?
Ma Angelo Dibona non solo ha avuto un’attività formidabile, non solo non s’è mai scostato dalla purezza di tutto uno stile prefisso; Angelo Dibona sembra addirittura sgusciato fuori da una pagina deamicisiana. Sereno, forzuto, calmissimo, tutto d’un pezzo… Nella sua vita, dalla nascita alla morte, non si trovano miracoli. Niente drammi, niente avventure rocambolesche, nessun grave pedaggio! Tutto semplice e naturale; ed è proprio in ciò, mi pare, la grandezza, la meno palese ma la più vera! In tutta la sua attività alpinistica, egli fu vittima di un solo incidente, dice il Casara. E fu guidando Alberto I del Belgio. Mentre arrampicavano, alcuni sassi erano rotolati dall’alto e stavano per piombare proprio sulla cordata. Allarmato per il Re, Angelo Dibona s’era allora “buttato innanzi per ripararlo”, ricevendosi (come una decorazione) una pietra in pieno petto. Ne era uscito a buon mercato, con una sola costola rotta. E se l’era tolta con appena un mese di degenza. Grazie alla sua eccezionale agilità (lui, alto di statura eppure quadrato, con un collo addirittura taurino) ed anche grazie a un pizzico di fortuna, spiccando gran salti… era riuscito persino a tirarsi fuori da solo da una slavina.
Si dice che il successo, per ognuno di noi, dipenda dalla carica di vitalità. Quale carica di vitalità fosse racchiusa in Angelo Dibona, non bastasse quanto già detto, giudichi chi viene a conoscere come, dopo cinquant’anni di intensa ininterrotta attività, ultrasessantenne abbia avuto il becco di ripetersi la Nord della Cima Una e la Nord-est del Grosser-Oedstein, dopo averle aperte trent’anni prima. Una carica di vitalità che, si badi, ultrasettantenne, l’aveva portato, quasi incredibile se non addirittura ironico, su un ennesimo celebre V grado, quello dello Spigolo sud-est della Punta Fiames.
Altre due generazioni di alpinisti, fra le quali spiccano i cosiddetti “senza guida”, colte da quella febbre per la montagna che dà un sapore nuovo alla loro vita, hanno scalato ormai quasi tutte le pareti, anche quelle che richiedevano l’impiego più spinto di mezzi artificiali. Altri successi più strepitosi, resi tali dalla moderna pubblicità (giornali, radio, cine, televisione aiutando…), nel continuo divenire d’una attività che, anche con le sue deviazioni contingenti è pur sempre rimasta meravigliosa, possono forse avere messo in ombra, a prima vista le imprese di Angelo Dibona. Ma gli alpinisti veri sanno, sono le ponderate parole di un Tershak, che “nessun’altra guida ha fatto quanto lui” e che “ben difficilmente il suo valore potrà essere uguagliato”.
Con Angelo Dibona sembra chiudersi tutta un’epoca di grandi guide, impareggiabili, anche perché vissute in tempi irripetibili. E forse, con la sua morte, è la professione stessa di guida, che s’è fatta sempre peggio rimunerata e sempre meno richiesta, a morire.
La Montagna ha una caratteristica immobilità che richiama al senso dell’Eterno, Ciò che turba intimamente l’uomo è la sua brevissima giornata di fronte all’incommensurabile. Lottare sull’eterno, vincere la paura della morte è una delle sue più forti e inconsce aspirazioni. Liberarsi dall’assillo e sopravvivere gustando la vita più intensamente… Immedesimarsi quasi in quella stessa montagna e in quella stessa durevolezza… che sia illusorio importa poco! Questo desiderio esiste. La morte è forse davvero la sola cosa che (compagna di ogni passo), si vuole sfidare e “vincere”, consciamente o no, in alpinismo; la morte è comunque cosa che cerchiamo sempre di ingannare nella nostra comunissima giornata, allorquando siamo costretti a ripiegare su una posizione passiva. E la morte, piaccia o non piaccia, è la sola cosa sicura, come una montagna, in cima alla nostra illogica vita.
Famiglia Dibona: Signora Angelina, Giulia, Fausto, Ignazio, Dino e il padre Angelo. Archivio: Carlo Gandini
La domanda che avrei voluto fare all’Anseluco Pilato, e proprio a lui? Addirittura scottante o addirittura banale! “Felice dopo tutte le sue vittorie, o deluso?”.
Perché, anche in alpinismo mi sembra come nella vita. Non il molto o il moltissimo che si raggiunge conta veramente, ma la posizione spirituale che se ne assume. Anche per il quintogradista, che crede di aver fatto il massimo, e solo di ciò si soffrega le mani fermandosi lì, arriva in fretta il sestogradista. E anche il sestogradista, a sua volta, sa di essere sul VI in quel momento, ma intuisce o conosce fin troppo bene (anche per averci battuto il naso) che il settimo è là che aspetta…! Effimera affermazione sui limiti di un momento! E così, anche il più arrabbiato collezionista di Quattromila sa di non essere sugli Ottomila dell’Himalaya, e chi è sugli Ottomila sa che è poca cosa rispetto ai ventimila e più di ieri dei palloni, di domani dei superreattori, di dopodomani dei siluri interplanetari… Relatività schiacciante delle dimensioni!
Si chiacchierava un giorno, in un rifugio, di nuovi arrampicatori e di ultime altisonanti imprese. “Me ne frego” ripeteva calmo scuotendo il capo una vecchia celebre guida; “me ne frego, di loro e dei loro “progressi…”. La mia giornata è stata bella perché mi sono mosso quando nessuna forza poteva tenermi legato a una sedia. E il mio muovermi aveva ancora qualcosa di naturale. Quello che ho fatto l’ho fatto per me stesso, perché mi piaceva, e basta”. Ecco, questo avrei voluto sentire ripetere dall’Anseluco Pilato. Me ne frego… Piaceva a me, e basta… Perché in questi tempi (rileggere: di ingranaggi, di fretta, di superficialità, di meccanicità, ecc… come già detto) in cui si fa anche dell’alpinismo soltanto agonistico (perché, a questo l’hanno ridotto i maledetti robot dai primati orari!), dell’acrobatismo orizzontale supertecnico e… superferrato, che non può essere concepito se non come strenua e troppo spesso assurda competizione, e giammai come “naturale” sfogo di una personale esuberanza fisica, e tanto meno per adempiere al dono di una “‘vocazione”…, mi hanno perso di vista, i belli, proprio il più importante!
Quante cose nella vita non si fanno mai per seguire una moda! E come perde presto il senso della misura il piccolo uomo! No, non mi illudo! Sarei un pazzo io stesso se pensassi che le mie parole possano servire a qualcosa in un mondo di pazzi. Ma sarei lieto se qualcuno degli illuminati a metà (o a tre quarti…), aprisse del tutto gli occhi (vogliamo fare il nostro bravo esame di coscienza mentre ne siamo in tempo?) e capisse veramente come ciò che importi sul serio nella vita, rendendola più intensa, più vera, arricchendola di echi, non sia mai e poi mai quello che si fa per esibizionismo, in astiosa e tesa concorrenza, in definitiva, per gli altri. Ciò che importa è quello che si fa solo ed esclusivamente per se stessi, alla ricerca d’una felicità più completa, o meglio ancora, di una più sincera accettazione della sofferenza e del dolore, cioè, d’un miglior modo di essere. Miglior modo di essere che sta forse davvero nella moderazione delle proprie esigenze e, soprattutto, nella consapevolezza dei propri limiti. Così come del resto, da qualche millennio, ci ha detto, per altra via, la saggezza distillata nelle grandi religioni.
Armando Biancardi è nato a Torino il 28 ottobre 1918 ed è morto il 31 marzo 1997 a Giaveno (To). Laureato in scienze economiche, giornalista e scrittore, ha collaborato ai principali quotidiani torinesi (Stampa sera, Gazzetta, Gazzetta sera, Tuttosport) e a riviste italiane ed estere. In forma amatoriale ha studiato scienze naturali, geologia, antropologia, archeologia (collezione privata con oltre tremila esemplari), geografia, letteratura e belle arti.
Ha al suo attivo più di mille articoli su temi legati alla montagna e all’alpinismo. Ha diretto tre periodici (Sucai, Il frondista, Commercio) e dato alle stampe cinque volumi: La voce delle altezze (1956), Cento anni di alpinismo torinese (1963), Venticinque alpinisti scrittori (1989), Racconti impossibili e dintorni (1994), Il perché dell’alpinismo (1995).
Il suo stile è stato definito da Giuseppe Garimoldi: «Un vitalismo eroico, arricchito da una vena poetica e da una sorvegliata attenzione alle forme».
Sulle Alpi ha scattato circa mille fotografie, ma ha fotografato anche nel sud dell’Italia nel corso di frequenti viaggi. Sempre con apparecchio Zeiss Super Ikonta 41/2 x 6. A partire dagli anni Cinquanta le immagini compaiono ripetutamente in volumi e periodici italiani, francesi e svizzeri.
Ha ricevuto 20 riconoscimenti letterari in campo nazionale e internazionale fra cui due Saint-Vincent, i premi Chamonix e Cortina. Nel 1995 i delegati del CAI riuniti a Cuneo gli hanno assegnato una medaglia d’oro. È stato accademico degli scrittori di montagna (GISM).
Considerava l’alpinismo «un surrogato della guerra» (Rivista del Cai, 1975, n. 4). Ha frequentato la Scuola Boccalatte della Sezione di Torino del CAI, a cui era iscritto dal 1937. All’attivo aveva circa 500 ascensioni, 68 vie nuove, 31 Quattromila, salite su ghiaccio, scialpinismo, hautes routes con gli sci. Tra le esperienze alpinistiche di maggior rilievo, la prima ascensione invernale della cresta sud-est della Punta Mattirolo (Alpi Cozie), lo spigolo Vernet della Cima di Nasta (Alpi Marittime), lo spigolo nord del Pizzo Badile, la via Piacenza sugli strapiombi della Cresta di Furggen al Cervino, la parete nord della Tour Ronde, la parete sud del Corno Stella, lo spigolo nord del Crozzon di Brenta, lo sperone Moore sul versante della Brenva al Monte Bianco, la parete nord dell’Uja di Mondrone (Alpi Graie), la parete nord del Ciarforon (Gran Paradiso), lo spigolo Jori alla Punta Fiames (Cortina d’Ampezzo), la prima assoluta alla Torre di Oreglia (Alpi Cozie), la via Ottoz alla Pyramid du Tacul (Monte Bianco), la parete nord della Ciamarella (Alpi Grazie).
La sua montagna ideale era il Marguareis 2651 m (Alpi Liguri) di cui ha percorso ogni via di salita. La considerava la montagna ideale perché «il versante sud si presta ottimamente per le salite con gli sci e i vagabondaggi escursionistici, mentre quello nord richiede coraggiose doti di arrampicatore per la qualità della roccia».
Bellissimo!
grazie per questa riflessione.
la leggero’ (la prima parte) ai miei studenti. forse riflettendo capiranno un giorno queste parole ” spero presto”
Articolo bellissimo che fa tanto riflettere!