Oltre la Streif
L’area era già abitata nel IX secolo a. C., e oggi Kitzbühel è oggi uno dei più importanti comprensori turistici del mondo. Il villaggio, citato nelle fonti storiche per la prima volta nel 1165 con il nome di Chizbuhel, siccome era situato in posizione assai favorevole sulla linea commerciale tra Venezia e la Baviera, ottenne nel 1255 il diritto di tenere un mercato e in seguito, nel 1271, fu elevato al rango di città dal duca di Baviera Ludovico II. Il periodo di prosperità non s’interruppe né con l’annessione al Tirolo del 1504 né con le altre vicissitudini storiche: ma ecco che alla metà del XIX secolo arrivarono i primi villeggianti, attratti dalla particolare posizione tra i verdi prati di Kitzbühel, dallo scenario delle vette del Kaisergebirge e dalla forza curativa dei fanghi dello Schwarzsee, il bel laghetto alle porte dell’abitato. Nel 1892, Franz Reisch, che in seguito doveva diventare sindaco di Kitzbühel, colpito dalla lettura di un libro norvegese sullo sci, si fece spedire il primo paio di sci dalla Scandinavia. Già l’anno successivo Reisch sperimentava sulle nevi del Kitzbüheler Horn le sue incredibili «scarpe da sci» lunghe 2,30 metri, suscitando tra gli amici valligiani reazioni di stupore, ammirazione e scetticismo. Era l’inizio: già nel 1894, un cospicuo lotto di «legni» scandinavi equipaggiò i più volonterosi ed entusiasti e la diretta conseguenza furono il primo campionato di sci di Kitzbühel e il fulminante avvio della disciplina, al seguito dei quali iniziarono i primi soggiorni dei turisti in inverno, desiderosi e curiosi del nuovo divertimento sulla neve. Le vertiginose discese dell’Hahnenkamm divennero una leggenda, l’attività dello sci club di Kitzbühel (fondato nel 1902) era frenetica e diede luogo ai miti di Christian Pravda, Anderl Molterer, Ernst Hinterseer, Hias Leitner, Hansi Hinterseer fino a quello di Toni Sailer; per non parlare dello specialista di combinata nordica Klaus Sulzenbacher e dei fondisti Maria Theurl e Markus Gandler, per un totale di 47 medaglie (di cui 18 ori) solo nelle gare olimpiche e di Campionato del Mondo. E perfino una particolare pista, la Streif, ancora oggi è, tra le varie competizioni di Coppa del Mondo, forse la vittoria più ambita.
La personalità di Kitzbühel mi ha colpito improvvisamente, all’ingresso della colorata e viva principale via della cittadina, la Vorderstadt. Circondato da una folla di turisti tra i quali parecchi italiani, mi sembrava d’essere a Cortina o in qualche altro posto esclusivo del genere. Ma le case erano così diverse, e pure le torri che le dominavano, e le chiese. Iniziai una visita accurata di tutti i punti d’interesse, dalla chiesa parrocchiale con il suo cimitero a quella di «Unsere lieben Frau» e quella di S. Caterina; poi l’Hotel Goldener Greif ed il suo portale gotico, la Hinterstadt, la casa di Toni Sailer, la Pulverturm, anche i monumenti moderni come la Fontana dei Camosci o quello ai Combattenti per la Libertà. L’impressione di amore per la propria città domina su tutto, anche sugli oggetti non bellissimi. Ma è una sensazione valida e determinante solo per chi non è in attesa dell’inverno e dei suoi divertimenti. Sembra infatti che la maggior parte della gente sia lì sapendo che «dopo» ci si diverte. Le montagne al di sopra di Kitzbühel paiono essere immerse nel sonno estivo: tutto è aperto, gli impianti di risalita, gli alberghetti, i panorami che solo con un occhio di sole diventano grandiosi. Tutto funziona, poco vive, come se l’inverno e la neve fossero una droga di cui nessuno può fare a meno.
Una coppia di austriaci, con il loro cane quieto e rispettoso, è seduta sulla piatta ed erbosa vetta dello Zweitausender, a contemplare nebbie e nubi che ingrigiscono le valli sottostanti, inutile proseguire verso occidente, verso il Grosser Rettenstein fino alle montagne del Gerlos Pass. Non si vedrebbero altro che nubi e montagne d’erba spenta. A Kitzbühel è l’ora del sonnellino, dopo il pranzo di mezzogiorno che la pensione completa non perdona mai, prima del passeggio nella Vorderstadt con gli scarponcini comprati la mattina nel più bel negozio di articoli sportivi. Qui invece è tutto grigio, anche dentro di me.
L’arrivo della Streif. Foto: Albin Niederstrasse
La grande estensione delle Kitzbüheler Alpen, con zone solitarie ed altre troppo frequentate, è un bell’esempio di colonizzazione. Le voglie, prima di conquista poi di sfruttamento, hanno portato a una presenza invasiva ed eccessiva dell’uomo sulle nostre montagne. L’inserimento dei bivacchi di quota è emblematico di questo processo: se inizialmente i bivacchi erano sporadici e radi punti di appoggio per l’alpinista, ora ve ne sono talmente tanti, che c’è da essere felici quando un bivacco, per la sua decrepitezza crolla e nessuno si cura di risistemarlo o di metterne un altro. Ma soprattutto l’asservimento allo sci è spia di una libertà finita. Raramente i club alpini dei paesi europei si sono opposti al proliferare degli impianti. In Italia, in molte sezioni del CAI, ci sono gli ski-club, il cui scopo non è quello di conoscere e difendere la montagna, bensì quello di andare la domenica sulle piste di sci, incentivando così l’economia degli impianti di risalita e favorendo il fiorire di progetti che imitano i vari Monterosaski o Superski Dolomiti. Perché il CAI non si pone il problema dell’incompatibilità con quelle sezioni, che nulla hanno da condividere con lo spirito dell’associazione e con lo statuto? Fino a quando all’interno dei club alpini vi saranno queste contraddizioni, essi non potranno insegnare niente a nessuno, e se dobbiamo parlare di etica della montagna, penso sia opportuno gettare la prima pietra.
Queste le mie riflessioni, mentre un’appassionata di parapendio attende il suo turno in vetta all’Hohe Salve: sono quasi le 17,30, la telecabina sta per chiudere, occorre decidere se volare o no. Più sotto un amico, dopo un decollo abortito, sta raccogliendo i vari pezzi del suo apparecchio e disponendoli con ordine nel sacco. Lei, bardata e paziente, aspetta. Poi rinuncia. Mentre il sole cala un’altra ragazza non sa che fare, parla con i suoi amici con il telefonino, chiede perfino a me consiglio, in un inglese stentato. Alla fine prende coraggio, e al sole ormai al tramonto, prende la rincorsa verso il vuoto di Westendorf. Le Kitzbüheler Alpen sono lì di fronte, dorate. Anche dentro di me è l’oro della solitudine e della pace.
Decollo in deltaplano dall’Hohe Salve, Kaisergebirge, Tirolo
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Come appassionati di montagna “selvaggia” non possiamo non sentirci disturbati dagli sviluppi turistici selvaggi. Ci sono però dei distinguo: l’uomo ha sempre modificato l’ambiente, la maggior parte dei prati di montagna sono solo boschi abbattuti per farne pascoli (un disastro ecologico, anche se dei secoli scorsi). Noi veniamo da città, ove l’ambiente è stato un tantino devastato per i nostri comodi, e pretendiamo magari che i montanari continuino a non avere un cesso a casa (esperienza vista da me negli anni ’70 in Carnia), per mantenere la poesia della montagna. No, non si può ragionare così. Il fatto è che lo sviluppo ci vuole ma deve essere sostenibile: non ogni posto di montagna ha le caratteristiche per diventare un centro di sport invernali, se poi ne ha gli attributi, non bisogna che l’uomo dia ragione a O. Wilde uccidendo ciò che ama. Se non si seguono le sirene dei guadagni facili per i montanari e dell’avventura altrettanto facile per i cittadini, si può andare d’accordo e fare cose buone; altrimenti sono solo danni.