Prefazione alla Guida sciistica delle Dolomiti
di Ettore Castiglioni
(Edizioni Montes, Torino 1942)
Lo sciatore, sotto un certo aspetto, altro non è che il rovescio di un alpinista.
È vero che entrambi vanno in montagna e che entrambi nella loro smisurata presunzione si illudono che la montagna sia stata creata apposta per il loro spasso e le loro imprese, ma tra i due vi è una differenza sostanziale: l’alpinista sale la montagna, lo sciatore ne discende; meta dell’alpinista è l’ascensione, meta dello sciatore la scivolata.
Ciò che interessa all’alpinista è la scalata; giunto in vetta (qualche volta non si degna neppure di raggiungerla) la gita non ha più per lui alcuna attrattiva; si accinge alla discesa con quel fatalismo rassegnato, proprio di chi è conscio della necessità che per ritornare a casa bisogna pur scendere dalla cima.
Ciò che interessa allo sciatore è invece la discesa: tutto il resto della gita non ha per lui alcuna attrattiva; si accinge alla salita con quel fatalismo rassegnato, proprio di chi è conscio della dura necessità che per poter scendere bisogna prima salire.
L’alpinista, per abolire la discesa, ha inventato le calate a corda doppia; lo sciatore, più moderno e più signore, per abolire la salita ha inventato le funivie, le slittovie, le sciovie… e ogni altra sorta di vie.
Anche una guida sciistica dovrebbe perciò essere il rovescio di una guida alpinistica. Non vorrei però che, con questa affermazione, qualcuno potesse credere che per avere una guida sciistica basti prendere una guida alpinistica e leggerla al rovescio, cominciando dall’ultima pagina; sarebbe come supporre che per avere uno sciatore basti prendere un alpinista e metterlo coi piedi all’insù!
Voglio dire soltanto che una guida sciistica dovrebbe descrivere tutti i percorsi in discesa, anziché in salita.
Ma poiché è fatale che per poter scendere bisogna prima salire, almeno fintantoché le montagne non siano tutte provviste di funivie, slittovie, ecc., saremo costretti anche noi a indicare anzitutto allo sciatore l’itinerario di salita.
E poiché è lecito suppone (o è eccessiva presunzione?) che ognuno sappia ritrovare in discesa la pista da lui stesso tracciata in salita, si rende superflua la descrizione dell’itinerario in discesa, proprio al contrario cioè di quanto sarebbe l’ideale di una guida sciistica.
Tale descrizione però non è più superflua quando lo sciatore effettui una traversata o comunque si trovi a scendere per un versante o una pista diversa da quella percorsa in salita.
Non basta infatti rimandare per la discesa all’itinerario descritto altrove in salita (come fatto finora tutte le guide sciistiche), poiché è tutt’altro che agevole e spesso vano sforzo di fantasia il cercar di interpretare, rovesciandolo, un itinerario descritto in senso inverso. Ecco perché tutti gli itinerari di traversate verranno descritti due volte, in un senso e nell’altro. E lo sciatore non mi serberà rancore, spero, per quei pochi grammi di carta in più che sarà costretto a portarsi nel sacco, se tale lieve pondo gli consentirà di trovare la descrizione completa e «diritta» dell’itinerario che vuole percorrere.
Ma non è tutto qui: lo sciatore ha anche altre esigenze del tutto opposte a quelle dell’alpinista. Meta dell’alpinista è infatti l’ascensione di una vetta; perciò a lui importa di conoscere tutti gli itinerari, su ogni versante, che adducono a quella retta. Meta dello sciatore è invece la discesa; perciò a lui importa di conoscere tutti gli itinerari, su ogni versante, che convergono in una determinata valle o verso un determinato centro alberghiero.
Quindi, mentre una guida alpinistica deve logicamente trattare dei gruppi montuosi e di ogni singola vetta, una guida sciistica dovrà trattare delle vallate e di tutte le piste che vi fanno capo sull’uno e sull’altro fianco.
Poco male se la trattazione – poniamo – del massiccio del Sella verrà suddivisa tra le quattro vallate che vi fanno capo: allo sciatore interessa soprattutto di avere un quadro completo dei principali itinerari che si irradiamo dal centro sciistico da lui prescelto, non importa in qual massiccio essi si svolgano.
La descrizione di tutta la regione risulterà forse in tal modo meno ordinata e meno esatta da un punto di vista strettamente geografico, ma assai più pratica per lo sciatore, che, recandosi in una qualsiasi località, avrà elencate, come in un panorama circolare, tutte le gite, le traversate e le ascensioni effettuabili, tra cui potrà scegliere agevolmente quelle che meglio convengono ai suoi gusti e alle sue capacità.
Veramente sarebbe eccessiva presunzione l’affermare di aver elencato tutte le possibilità, poiché si è dimostrato praticamente che qualsiasi percorso è possibile anche in inverno, non esclusa la parete nord della Cima Glande di Lavaredo. Ma, quantunque ci sia qualcuno che mi accusa di compilare delle «guide rompicollo» (sic), la mia criminale malvagità non giunge al punto di consigliare allo sciatore simili percorsi e neppure di accennare a quelle arrampicate (specialmente nelle Dolomiti Ampezzane) che vengono ripetute con una certa frequenza anche in inverno.
Certo non mancheranno anche questa volta le alte strida di coloro che troveranno veramente «rompicollesco» l’aver incluso in una guida sciistica certe ascensioni, come l’Antelao, il Pelmo, la Civetta o il Cimon della Pala. Ma perché avrebbero dovuto essere escluse, dal momento che vi stato chi ha potuto giungere gli sci fin sotto la cuspide sommitale dell’Antelao, o fino a 100 metri dalla vetta del Cimon della Pala?
Il fatto di aver accennato a quelle imprese non implica che alcuno, se non ne ha voglia, si senta obbligato a ripeterle. Chi ha tanta premurosa cura per l’incolumità del proprio collo farà molto bene a non scostarsi dai comodissimi campi-scuola di Cortina e di Selva.
Ma poi, tutti questi signori che non mi possono perdonare di aver svalutato qualche gitarella di moda che usavano spacciare e festeggiare come grandi conquiste, non si meraviglino se, per un equo rapporto con le imprese veramente degne di tal nome, troveranno qualificati facili anche certi itinerari che a loro potranno sembrare di estrema difficoltà.
Anzi, per meglio rassicurarli circa la mia «rompicollesca» attività, potrei confidare loro che mi sono preso il gusto maligno di percorrere personalmente non meno del 65% degli itinerari descritti in questa guida (e di altri che ho percorso, ho omesso la descrizione perché poco raccomandabili), che un ulteriore 30% di itinerari è stato controllato a vista e che solo il 5% dunque è sfuggito alla mia insaziabile curiosità. Perciò non meno del 95% delle mie «rompicollesche» valutazioni e dei miei non meno «rompicolleschi» consigli è imputabile soltanto a me e al mio efferato intento di far rompere il collo al prossimo.
Siccome però è notorio che io sono un pessimo sciatore e che anzi mi sono sempre cocciutamente rifiutato di imparare a sciare a regola d’arte, è ovvio che anche il più modesto sciatore ci farebbe una ben meschina figura se confessasse di aver trovato difficile ciò che a me è sembrato facile.
A tutti gli amici dal collo troppo delicato potrei dunque fare osservare che è forse la prima volta che una guida di questa mole e abbracciante una regione così vasta, può uscire con una così larga base di esperienza personale.
Eppure, nonostante tutta la buona volontà e il controllo tanto scrupoloso, l’opera è ben lungi dall’essere o dal presumere di essere perfetta.
E come potrebbe esserlo? Certo non mancheranno errori, omissioni, imprecisioni, ecc.; le condizioni della montagna in inverno sono troppo mutevoli perché non si abbiano a volte impressioni eccessivamente ottimistiche o pessimistiche di una gita effettuata con condizioni di neve particolarmente favorevoli o sfavorevoli.
E tanto più è facile cadere in errore, per il fatto che, data la scarsità di relazioni sciistiche nella nostra bibliografia alpina, manca la possibilità di controllare e confrontare le proprie impressioni con le esperienze di altri.
La bibliografia sciistica delle Dolomiti infatti è tuttora (1941-42, NdR) ASSAI povera in confronto al gran numero di sciatori italiani e stranieri, che rivolge ogni anno le sue preferenze a questa affascinante regione.
Abbiamo alcune ottime guidine locali, compilate con perfetta conoscenza da esperti del luogo, come quelle di Cortina. di Corvara e di Marebbe (quest’ultima solo lingua tedesca); abbiamo la guida sciistica delle Dolomiti di Günther Langes (solo in lingua tedesca), che ha già raggiunta ed esaurita la quinta edizione, quantunque limiti la trattazione ai centri principali e agli itinerari più frequentati; abbiamo le parti sciistiche di due volumi della Guida dei Monti d’Italia, esaurienti, ma non sempre pratiche per lo sciatore, data la ristrettezza della zona descritta in ciascun volume; abbiamo varie altre pubblicazioni di maggiore o minor valore, e abbiamo soprattutto le belle carte della CTI (il TCI, in era fascista, era chiamato Compagnia Turistica Italiana, NdR), coi tracciati degli itinerari sciistici, che comprendono buona parte della regione dolomitica.
Pubblicazioni tutte (ad eccezione delle carte della CTI e della guida del Langes), di carattere prettamente locale e ordinate con la più varia disparità di criteri, quasi si andasse ancora esperimentando di volta in volta quale schema di trattazione potesse riuscire più pratico per lo sciatore, senza aver trovato tuttavia una soluzione a questo non semplice problema.
Ben poco poteva trovare dunque finora lo sciatore italiano che volesse percorrere in lungo e in largo la vasta regione dolomitica, con traversate di valle in valle o da rifugio a rifugio, salvo che volesse portarsi nel sacco una mezza dozzina di volumi e volumetti svariati, riguardanti ciascuno una singola vallata.
Caratteristica dello sci nelle Dolomiti è proprio infatti la facilità del terreno che consente, ogni sorta di traversate; l’attrattiva del paesaggio, quant’altri mai vario e pittoresco, che allieta i percorsi, ne allevia la non grave fatica e suscita il desiderio di visitare ogni valle, ogni gruppo, ogni zona.
Confidiamo quindi di aver fatto opera non inutile e gradita allo sciatore tracciando per la prima volta un quadro completo delle più interessanti possibilità sciistiche delle Dolomiti, con una doverosa uniformità di criteri nella scelta e nella valutazione dei singoli itinerari.
Ciò che interessa soprattutto allo sciatore, infatti, non è tanto l’indicazione del cammino da seguire, ché questo potrà vederlo anche da sé sulla carta topografica, quanto tutte quelle notizie complementari, che determinano le caratteristiche della gita, come le difficoltà, i pericoli, la sciabilità del percorso, l’orientamento e le condizioni di neve che vi prevalgono, ecc.
Tutte notizie che non possono esser fornite con compilazioni a tavolino, ma che presuppongono una completa e prolungata esperienza personale dei luoghi che si intende descrivere.
È solo in base a questi elementi che lo sciatore potrà scegliere di volta in volta la gita più opportuna a seconda della stagione e delle condizioni del tempo, della montagna e della neve, e quella che meglio potrà soddisfare ai suoi gusti, sia egli uno sciatore «puro», che cerca la discesa per la discesa, sia egli uno sciatore turista, che fa dello sci solo un mezzo per traversare piacevolmente di valle in valle o da rifugi a rifugio, o sia egli uno sciatore-alpinista, che ama accoppiare il godimento della scivolata alla soddisfazione dell’ascensione su di un’alta vetta o della traversata nel cuore di massicci grandiosi.
E davvero le Dolomiti offrono, forse più di qualsiasi altra regione nostra, una così ricca varietà di possibilità sciistiche, dai facili campi di svago alle piste più vertiginose, dalle comode passeggiate per boschi e prati alle più audaci ascensioni alpine, che ognuno vi potrà trovare completa soddisfazione sia dal di punto di vista sportivo sia da quello estetico.
Naturalmente abbiamo omesso le descrizioni di tutti quegli itinerari, che risultano troppo scarsamente remunerativi, di quelli cioè che non presentino almeno un minimo di interesse sciistico, alpinistico o panoramico. Abbiamo
pure limitato al minimo le indicazioni sui campi-scuola e i cenni sulle piste di discesa servite da mezzi di trazione meccanica, poiché evidentemente per queste è superflua una dettagliata descrizione del percorso.
Ci siamo invece dilungati su quegli itinerari più complessi, su terreno vario, ove raramente si trovano piste da seguire, che richiedono perciò più precise e dettagliate indicazioni. Nessuno si meravigli quindi se nell’economia della guida è stato dedicato più spazio ai percorsi più raramente seguiti che a quelli molto frequentati, su strada o su pista battuta.
Non sarà stata forse buona politica la nostra di esser stati tanto generosi verso i pochi che hanno più bisogno di indicazioni, a costo di lasciare insoddisfatti i molti che non me hanno bisogno alcuno.
Ma non esitiamo a ripetere che questo volume non si indirizza tanto al «puro» sportivo che ben raramente si scosterà dalle teleferiche e dai pistoni battuti, quanto allo sciatore alpinista, che ama vagare tra i monti tracciando la propria pista nella neve intatta, che fa dello sci soprattutto uno strumento per avvicinarsi alla montagna anche in inverno, che non si lascia distrarre, nell’ebbrezza della scivolata, dal godimento ben più profondo dello spettacolo di Natura nelle sue più mirabili e gloriose manifestazioni.
Milano, dicembre 1941.
Dolomiti in sci
di Carlo Crovella
La recente rilettura della Guida sciistica delle Dolomiti di Ettore Castiglioni ha scatenato alcune riflessioni sulle mie esperienze sciistiche fra i Monti Pallidi.
Inutile presentare Ettore Castiglioni: alpinista valentissimo, compilatore di guide alpinistiche, apritore di vie, è stato però anche un “vero sciatore di montagna”. Invito gli interessati ad approfondirne la sua conoscenze sotto questo aspetto, leggendo il capitolo dedicatogli da Giorgio Daidola nel libro Sciatori di Montagna.
Da buon torinese DOC, sono un vero bougia nen in tutti i risvolti della vita, quindi anche nell’attività in montagna. A Torino siamo piuttosto viziati, perché la nostra città si trova al centro di un variegato semicerchio alpino: con un’ora e mezza-due di auto possiamo spaziare della Alpi Liguri fino all’Ossola (comprendendo Monviso, Gran Paradiso e tutta la Val d’Aosta – in particolare Bianco e Rosa). Se poi aggiungiamo un’altra ora di auto, magari abbondante, abbracciamo anche i versanti stranieri (dalla Provenza alla Savoia – compreso il Delfinato – e tutto il Vallese svizzero): abbiamo di che toglierci ogni voglia, sciistica e arrampicatoria-alpinistica. Che motivo c’è di spostarsi?
Per questi ragioni (o per la mia indole innata di profondo bougia nen) non ho mai sentito il richiamo delle grandi montagne extraeuropee e anche solo le puntate in Dolomiti mi sono sempre apparse come delle vere e proprie spedizioni. In più le prime conoscenze con le crode dolomitiche sono state estive, attirato dalle arrampicate, e dall’alto guardavo gli sterminati ciaplè (come noi chiamiamo le pietraie) che fanno da supporto alle guglie. “Ma che bisogno c’è di venir fin qui con gli sci? – mi dicevo – Forcelle aguzze con canali corti e ripidi e poi ampi altopiani semi-pianeggianti, nessun ghiacciaio, almeno come siamo abituati nelle Occidentali. Ma che sugo c’è?”
Per tanto tempo, quindi, non ho minimamente pensato alle Dolomiti con gli sci. A un certo punto Giorgio Daidola, che a Torino incontravo nella sede della Rivista della Montagna, iniziò a fare il pendolare con Trento e di conseguenza scriveva, fin dai primi numeri di Dimensione Sci, articoli entusiastici sulle discese dolomitiche. La mia prima reazione fu piuttosto perplessa. Mi sembrava più quello che oggi chiamiamo “freeride” (discese fuoripista con utilizzo di impianti e qualche tratto con le pelli) che vero e proprio scialpinismo, cioè ”alpinismo con gli sci”, e siccome a me quest’ultimo interessava, il presunto freeride dolomitico lo snobbai per un bel po’.
A metà deli anni Ottanta ero Direttore della Scuola di scialpinismo: un bel giorno arrivò l’invito della San Marco a prendere in prova un paio di scarponi Condor 101 (quelli bianchi con linguettone rosso). Occorreva fare una puntata fino a Bolzano da Franco Gionco. Combinammo con Roberto Scala (al tempo con residenza torinese e attivo istruttore SUCAI) e un tal Marco Braida, di cui ho vaghissimi ricordi (presumibilmente ex allievo della nostra scuola).
Gionco ci ospitò con particolare cordialità in una specie di foresteria collegata alla sua abitazione e il giorno dopo ci condusse in uno strano “giro” nei pressi del Passo Gardena. Salita (sci sullo zaino) della Ferrata Tridentina, tratto finale con le pelli e lunga discesa, comprendente la Val Setus. Dal mio diario di montagna la vetta raggiunta risulta la Cima Mésules 2997 m. Con noi tre torinesi, oltre a Franco c’era anche un suoamico, di cui ora ricostruisco solo il nome proprio: Pio. La data: 25 maggio 1986.
Dopo una rapida sosta in vetta, stretti gli scarponi nuovi di zecca, Gionco ci guidò lungo la discesa. In memoria ho due ricordi vivi. La strizza per un ripido canale iniziale, con neve ancora molto ghiacciata, e una goduria illimitata per la successiva scivolata con un firn cotto a puntino (due dita marcette su un fondo ancora ben compatto). Sono trascorsi 35 anni e nei ricordi tendo ovviamente a confondere le sensazioni provate nell’ampio vallone superiore, una U glaciale, con quelle della stretta picchiata finale sulla strada del Passo Gardena.
Nella guida di Castiglioni la Val Setus è citata quasi di sfuggita e non viene particolarmente consigliata, ma anzi si mette in guardia il lettore che la forte pendenza e la ristrettezza della gola richiedono neve assolutamente assestata. In effetti, ripassando in anni successivi da quelle parti, abbiamo sempre preferito l’adiacente e più ampia Val Mesdì, senza mai pentirci della scelta.
Quella nostra discesa della Val Setus a fine maggio, rispettando tutti i vincoli del periodo (sveglia antelucana, sciata rigorosamente mattutina…) ha però dimostrato che la stagione dolomitica non si limita ai soli mesi strettamente sciistici secondo i canoni più tradizionali.
Tornato nelle Occidentali sfoggiai per alcune intense stagioni gli scarponi Condor 101: se non fosse che, proprio a causa dell’utilizzo così ripetuto, negli anni si sono rotti i supporti plastici dei ganci, li userei ancora adesso, pur nell’era Dynafit. Sono stati i migliori scarponi della mia lunghissima carriera scialpinistica, o forse (grazie al mio stato di forma di quella fase di vita) con loro mi sono sentito in perfetta sintonia, come raramente mi è accaduto con altri scarponi, anche di generazioni successive e quindi tecnologicamente più evolute.
Fatto sta che, in breve tempo, il “mal di Dolomiti” iniziò a serpeggiare anche nei severi ambienti subalpini. Uno dei nostri “grandi vecchi” della Scuola SUCAI, Ezio Mentigazzi (per tutti noi Mentighezio), al tempo ancora molto in forma, allungò fin laggiù la sua vena esplorativa e la condensò efficacemente in un testo di rara importanza: Dolomiti Grandi Raid in sci (CDA, Torino 1990).
Qui entrano in gioco i ricordi che mi ha risvegliato la guida del Castiglioni. Nella prefazione del libro (che allego in calce) il buon Ettore, oltre a concedersi qualche stilettata velenosetta verso i suoi critici, delinea le caratteristiche fondamentali dello scialpinismo dolomitico. Come Mentighezio cinquant’anni dopo, Castiglioni mette ben in evidenza l’ampia possibilità di realizzare delle traversate sciistiche grazie alla morfologia stessa delle Dolomiti.
Fu così che, successivamente, tornammo alcune volte con gli sci nei Monti Pallidi. A differenza delle Occidentali, dove il mio “focus” è sempre stato molto concentrato sullo specifico obiettivo di giornata (deciso e pianificato a priori), le esperienze sciistiche in Dolomiti rientrano in quel raro risvolto della mia vita che è ammantato di “leggerezza”. Infatti anche a uno come me, caratterizzato dall’approccio “ingegneristico” alla montagna, è capitato di vivere qualche sprazzo di leggerezza. In Dolomiti si calzano gli sci e si “vaga”, improvvisando al momento, attirati qua o là più dalla qualità delle neve che da obiettivi geografici predefiniti.
Questa “leggerezza” non è una caratteristica del mio modo di andare in montagna e devo dire che non rimpiango di non averla vissuta maggiormente: è un elemento che proprio non mi appartiene. Tuttavia ne serbo un dolce ricordo: questo tipo di leggerezza emotiva è come una boccata d’aria fresca che ho apprezzato in alcuni rare occasioni, in particolare nelle Dolomiti con gli sci.
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Caro Carlo,
impossibile dimenticare quel nostro primo approccio allo scialpinismo dolomitico, possiamo dire, un pochino traumatico! Ferrata Tridentina con gli sci a spalle che si incastravano nel traversare il ponte sospeso e discesa vertiginosa in val Setus. Parecci anni dopo, ripercorsa in estate, mi sono complimentato di quell’ “impresa” ( J asu d’Cavour, as laudu da lur).Grazie e ciau.
Roberto
La classe non e’ acqua!Che fine argomentazione nella prefazione di Castiglioni.Si legge tanto altro sul web, oltre che alle imprese alpinistiche e sciatorie nella biografia.”Privato degli scarponi da montagna, della giacca , dei pantaloni e degli sci, è trattenuto nell’Hotel Longhin a Maloja. Il 12 marzo 1944 fugge verso l’Italia e vestito di una coperta, lenzuola e senza scarpe, tenta di scendere attraverso il Passo del Forno verso la Valmalenco. Privo però di indumenti adatti, si accascia sfinito sulla neve e muore assiderato pochi metri dopo il confine di Stato. Il luogo è stato recentemente identificato e confermato, grazie a una foto storica, a quota..2600″..ecc.
Aveva 36 anni..mentre equiparandolo a Cassin suo coetaneo..non sarebbe stato da escludere un futuro centenario..con tanti sci e scarponi e giacche termiche omaggio…non escluso impegno di Parlamentare.Al passo del Forno, luogo del decesso , ritrovato di recente ..collocherei a riparazione del misfatto , un set di sci scarponi giacca… scolpiti.