Primi della Classe alla Testa d’Asino

Metadiario -139 – Primi della Classe alla Testa d’Asino (AG 1986-005)

Di ritorno dalla campagna dolomitica ebbi modo di arrampicare per qualche tempo solo in falesia, per vari motivi, dal lavoro alle condizioni meteo che non permettevano la continuazione dell’esplorazione della Mesolcina e dello Spluga.

Qui di sotto la consueta tabella riassuntiva, che vede tra i miei compagni soprattutto Davide Marnetto, Nella e Andrea Sarchi. Un buon risultato fu quello ottenuto sulla prima lunghezza della via Adele a Monte Cucco (Finale), un bel 6c+ fatto a vista.

Con Angelo Recalcati il 19 settembre 1986 riprendemmo le esplorazioni, tralasciando momentaneamente la Mesolcina per tornare in zona Spluga e realizzare una traversata di ordine classico. Ci rivolgemmo agli Äussere Schwarzhörner 2890 m, che presentano una cresta ben rilevata che ha origine dai dossi detritici sovrastanti gli specchi d’acqua dei Surettasee e, con andamento da nord-ovest a sud-est, giunge fino alla vetta per poi proseguire fino al Colle 2746 m che la separa dalla Quota 2923 m e dal resto del gruppo del Suretta.

Viste dall’Alpe di Campo, le pareti nord del Pizzo Ledù (a sinistra) e del Motto di Campo

Dal parcheggio dell’Isabrüggli 1768 m vicino a Bodmastafel, salimmo in diagonale per il buon sentiero delle Räzünscher Alpen fino all’Unter Surettasee. Superati verso sud altri due laghetti consecutivi, andammo all’evidente Colletto 2555 m, all’inizio della cresta. La salita di questa si tenne sempre su medie difficoltà, I e II grado con brevi tratti di III. Superammo una prima cima (Quota 2766 m), poi la Spalla 2776 m, la Quota 2855 (riconoscibile dall’enorme ometto); da lì ci servimmo di una doppia di 30 metri per raggiungere l’intaglio 2805 m e due successivi e caratteristici gendarmi rocciosi, circa a 2855 m. Salimmo il primo ed evitammo il secondo, poi con altra doppia esposta e verticale di 40 metri raggiungemmo l’intaglio 2830 m che precede i pochi e facili metri fino alla vetta, dotata di altro grosso ometto. Dopo una vetta gemella e dopo la Sella 2795 m seguimmo una cresta quasi orizzontale a pochi metri dal filo su una bella e caratteristica placconata (versante nord-est). Con attenzione scendemmo al Colletto 2790 m c., superammo due torrioncini e ancora leggermente a destra del filo guadagnammo l’arrotondata Quota 2815 m. Da lì scendemmo al vicino Colle 2746 m, dove la traversata integrale si può ritenere chiusa. In tutto, 5 ore dal Colletto 2555 m iniziale.

Alessandro Gogna sulla parete nord del Pizzo Ledù, via Summa Ruina, 1a ascensione. 22 settembre 1986.
Alessandro Gogna sulla parete nord del Pizzo Ledù, via Summa Ruina, 1a ascensione. 22 settembre 1986.

Come ho già avuto modo di dire, ci piaceva molto l’Alpe di Campo, una radura sperduta e silenziosa della Mesolcina incastonata tra cime di rilievo. Anche questa volta ci portammo la tendina e alcuni generi alimentari per trattarci bene. Il 21 settembre 1986 terminò con uno splendido tramonto sulle vette delle Cime d’Alterno. Con Angelo ci gustavamo l’amicizia, la pace e la gioia di fare esattamente quello che volevamo fare.

Antonio Recalcati
Antonio Recalcati: Le Impronte – 4 (1960), olio su tela 100 x 81 cm, Galerie kaléidoscope-Adagp, Parigi

Quanta storia in questi dieci nostri anni di conoscenza! Ho già raccontato il modo singolare in cui c’incontrammo, ma non ho mai detto nulla del nostro modo di vivere a Milano. Angelo viveva con i suoi genitori e la sorella a Bresso. Un altro fratello più giovane faceva pratica di avvocato e un altro più anziano era nientemeno che il celebrato pittore Antonio Recalcati, scomparso il 6 dicembre 2022 a 84 anni. La casa di Bresso era grande, ma già allora Angelo tendeva a riempirla dei libri che collezionava o che accatastava in attesa di rivendita. Era molto legato ai suoi, soprattutto alla sorella che era costretta purtroppo su sedia a rotelle. Fu solo in seguito che acquistò in piazzale Baiamonti 3 a Milano un appartamento e ne fece la sede della sua Itinera alpina.

Costa di Sasso Marcio da ovest. Al centro, ben visibile con la sua parete ovest-nord-ovest, è la Testa d’Asino.

La giornata di Angelo era ritmata da frequenti giri in bicicletta alla ricerca di libri antichi, o per bancarelle o per cantine che qualcuno gli segnalava. Programmava anche visite in altre città italiane, come pure in quelle europee più notoriamente legate alla bibliofilia. In tal caso si muoveva sulla sua auto, un macchinone anche lui degno d’essere esposto in un museo che consumava un mucchio di benzina. Tanto che regolarmente lui scendeva a motore spento le discese dove riteneva di poterlo fare, per esempio quella che da Monte Ceneri porta a Bellinzona. Nelle giornate di brutto tempo leggeva i suoi amati libri, riordinava il suo catalogo, oppure ascoltava musica classica con un’apparecchiatura ricca di fruscii. Angelo sosteneva che quella pessima qualità di ascolto in realtà favorisse la sua estasi musicale, perché più fruscii e rumori estranei c’erano più la sua fantasia era sollecitata a ricreare nella sua propria mente la musica così come l’aveva concepita l’autore. Altro suo grande interesse era (ed è) l’astronomia, in montagna sotto i cieli stellati mi sciorinava ogni sera nomi di galassie, costellazioni ed altro che regolarmente io dimenticavo, pronto per la prossima lezione. L’argomento per il quale lui ascoltava soltanto era la mia periodica situazione amorosa. Era interessato perché le vicende riguardavano un suo amico ma non sembrava che l’argomento lo toccasse dal vivo. Salvo ritrovarsi moltissimi anni dopo innamorato della sua attuale compagna. Un punto invece da non toccare era il perché non si era mai laureato. Proprio quando era in procinto di discuterla, gli avevano rubato dall’auto la sua tesi. Ci aveva lavorato sopra giorno e notte per chissà quanto tempo, allora non c’erano i computer e la loro memoria. Il colpo fu così brutto da impedirgli anche solo di pensare di continuare per quella strada. Lasciò l’università e gli studi anche se i professori con cui aveva lavorato insistettero per parecchio tempo perché cambiasse idea.

Alessandro Gogna su Dietro la Lavagna all’Orecchio dell’Asino, 1a ascensione, 23 settembre 1986.
Angelo Recalcati su Primi della Classe (Testa d’Asino), 1a ascensione. 23 settembre 1986.

Angelo viveva con lo zaino sulla schiena. Quando entrava a casa mia ci prendevamo il nostro tempo, c’era sempre un sacco di cose da raccontare e da discutere. Nessuno aveva fretta, eppure lui continuava a stare in piedi con il bagaglio sulla schiena. Un giorno Nella gli chiese: – Angelo, ma perché non ti togli lo zaino?
Lui, sorridendo, rispose: – Perché così mi sembra d’essere più provvisorio.
Praticamente se lo toglieva soltanto se invitato a cena.

Arrampicarnia 1986, Pierino Dal Pra su Slivoviz. Archivio di Ulderica Da Pozzo e Attilio De Rovere.
Arrampicarnia 1986, Heinz Mariacher su Spitemo su tuto. Archivio di Ulderica Da Pozzo e Attilio De Rovere.

Il 22 settembre partimmo alle prime luci per la parete nord del Pizzo Ledù di 450 m che non era mai stata salita. L’ambiente è assai selvaggio, ma le difficoltà non eccessive e un po’ discontinue ne fanno un itinerario molto più valido nella stagione primaverile, come giustamente interpretarono i primi salitori invernali, Giulio Bianchi e Maurizio Orsi (2-3 gennaio 1988). La battezzammo Summa ruina. Per quella giornata non ci bastò. Scendemmo velocemente ancora nella conca dell’Alpe di Campo e ci trasferimmo alla base della montagna che è a ovest del Pizzo Ledù, il Motto di Campo 2389 m. Anche questa presentava una bella parete nord, ancora da salire, 330 metri che si rivelarono ben più impegnativi della salita fatta al mattino. Salimmo al centro della parete, su placche con buona aderenza ma abbastanza ripide da opporre difficoltà fino al VI. Via molto bella dunque, che chiamammo Cum summo gaudio. Questa volta, in cima, eravamo sazi. Per fortuna, visto che di certo non c’era più tempo per altro se non scendere alla nostra tendina.

Arrampicarnia 1986, Mauro Corona: “Spitemo su tuto… D. c.!”. Archivio di Ulderica Da Pozzo e Attilio De Rovere.
Arrampicarnia 1986, Gigi Mario. Archivio di Ulderica Da Pozzo e Attilio De Rovere.

Comunque la giornata clou di quella uscita fu la seguente, 23 settembre, quando ci mettemmo in testa di risalire alla Bocchetta del Cannone (bivacco Petazzi) e da lì di traversare in discesa per gande infinite fino a raggiungere il versante occidentale della Costa del Sasso Marcio, il lunghissimo contrafforte che il Pizzo Ledù lancia verso sud a dividere la Valle di Ledù dalla Valle di Bàres. Su questo lungo contrafforte avevo notato una cima singolare con una bella parete esposta a ovest: la Testa d’Asino 2207 m. Caratterizzata da linee verticali in ogni direzione, sono soprattutto i versanti nord e ovest che la impongono come una delle più belle strutture rocciose della catena Mesolcina, a diretto confronto in arditezza con la prospiciente Croce di Ledù. Non potevo non tentarla… a dispetto di quanto in realtà fosse davvero remota. Pier Luigi Bernasconi e Giancarlo Catelli ne avevano compiuto la prima ascensione, per lo spigolo sud (D+, 150 m), il 2 ottobre 1955. Impiegammo circa tre quarti d’ora dal bivacco Petazzi all’attacco della stretta parete ovest-nord-ovest della Testa d’Asino, delimitata da due spigoli. Qui realizzammo la presenza di un bifido e aguzzo gendarme, proprio alla base degli spigoli. Lo salimmo per la parete sud-est, tanto per non negarci nulla, e lo chiamammo Orecchio dell’Asino 2090 m c. Fu una lunghezza di corda abbastanza difficile (IV e V, con un passo di VII-) che chiamammo via Dietro la Lavagna.

Arrampicarnia 1986, Rolando Larcher (a destra) su Slivoviz e Beat Kammerlander su Mumbo Jumbo. Archivio di Ulderica Da Pozzo e Attilio De Rovere.

Scesi a corda doppia, subito dopo scegliemmo lo spigolo di destra (ovest), alto circa 150 metri, che concludemmo in vetta alla Testa d’Asino dopo cinque lunghezze di corda (IV, V e VI+, con un passo di A0) entusiasmanti. Chiamammo la nostra via Primi della Classe… La giornata non era certo finita, perché occorreva sciropparsi l’intera traversata della Costa di Sasso Marcio fino alla vetta del Pizzo Ledù, facile ma abbastanza eterna.

Arrampicarnia 1986, Andrea Gallo sorvegliato da Mauro Corona. Archivio di Ulderica Da Pozzo e Attilio De Rovere.

A fine settembre ci fu la prima edizione di una manifestazione di arrampicata sportiva davvero particolare: fu infatti uno dei primi meeting non competitivi di arrampicata sportiva in Italia, rimasto nel cuore e nell’immaginario come uno dei momenti che fecero la storia di una disciplina allora agli esordi. Un’occasione, anche per climber di alto livello, per arrampicare senza l’assillo di punteggi e classifiche e fare festa assieme. Questo era lo spirito tradizionale di “Arrampicarnia” e lo rimase fino alla terza edizione, del 1988. Nel 1989 non venne ripresa, per esserlo poi nel 2018, trent’anni dopo.

Alessandro Gogna (in inconsueta tenuta lycra) in arrampicata a Pal Piccolo, Arrampicarnia 1986). Foto: Aurelio Pascoli.
Alessandro Gogna su Golem, Pal Piccolo, 27 settembre 1986. Foto: Claudio Peruzovich.
Alessandro Gogna su Dita di Burro, Pal Piccolo, 27 settembre 1986. Foto: Claudio Peruzovich.
Pal Piccolo. Foto: Claudio Peruzovich.

Si arrampicava sulla Scogliera del Pal Piccolo (Passo di Monte Croce), le vie erano tante, belle e ben assortite. C’erano parecchi personaggi famosi, ma il più conosciuto era senz’altro Manolo che, notoriamente estraneo alle gare, era intervenuto solo per via dello spirito non competitivo che il meeting vantava. Ciò non toglie comunque che il pubblico qualche fastidio glielo provocasse ugualmente. A un certo punto lo vedemmo attaccare una via famosa, Spitemo su tuto, una via di 28 metri di 7b+ che però nei primi metri è assai più facile (dicevano sul 6b+). Manolo saliva con la consueta eleganza e tutti lo ammiravano con il naso all’insù, quando improvvisamente scivolò e cadde. Con orrore vedemmo, in una frazione di secondo, che non era stato trattenuto dal chiodo e che la base della via non era un prato, bensì uno stretto balcone che si affaccia su un notevole risalto nel vuoto. Archie Varnerin, che gli faceva sicura, fu lesto a intercettarlo e a impedirgli di ruzzolare ulteriormente. Quel rocambolesco atterraggio si scoprì subito essere dovuto al nodo che Manolo non aveva terminato correttamente e che quindi si era sciolto al primo strappo sul chiodo. Eravamo tutti sotto shock, nessuno si aspettava che una tragedia fosse stata possibile per un così banale errore. Fino a pensare cosa sarebbe successo se Manolo, invece che nei primi cinque-sei metri di 6b+, fosse caduto dal ben più alto tratto di 7b+…

In quelle due giornate del 27 e 28 settembre scalai assicurato sempre da Nella con alterne fortune: Golem, Dita di Burro, Sgnek assoluto, Neurotica, due tentativi a Roxy Music, Soupe-ici, Steppin’ out, Dopo ti spiego, Gocce di Guttalax.

Purtroppo nel 2023 una grossa porzione della parete di Pal Piccolo è crollata. Me ne ha dato notizia Claudio Peruzovich, di Martignacco (UD), che mi ha anche ricordato i miei improperi sul cosiddetto 6a di Golem.

Pal Piccolo, la porzione franata. Foto: Claudio Peruzovich.
Pal Piccolo, la porzione franata. Foto: Claudio Peruzovich.

Il giorno dopo, 29, Attilio De Rovere e Roberto Mazzilis, quest’ultimo all’inizio della sua travolgente carriera alpinistica, mi portarono in un posto incredibile, di una bellezza rara: la Parete di Avostanis, affacciata su una conca ampia e verde, alla cima di una lunghissima strada carrozzabile. I due ragazzi insistettero perché vi aprissi con loro una via: nacque così The day after, una via se non ricordo male di circa quattro lunghezze, il cui nome dipendeva dalle sconsiderate libagioni fatte la sera prima…

Parete di Avostanis, 29 settembre 1986.
Dalla Cima Sud-est del Sass Castel: 1=Passo d’Arsa; 2=Pizzo Roggione; 3=Quota 2499 m (dietro questa è la vetta del Pizzo Cavregasco); 104d=via del Raggio verde.
In arrampicata su Raggio verde, parete nord del Pizzo Roggione, 1a ascensione. 5 ottobre 1986.
Lorenzo Merlo in arrampicata su Raggio verde (2a L), parete nord del Pizzo Roggione, 1a ascensione. 5 ottobre 1986.
Alessandro Gogna in arrampicata su Raggio verde, parete nord del Pizzo Roggione, 1a ascensione. 5 ottobre 1986.

Il 5 ottobre, con partenza dalla val Mesolcina in ora antelucana, Lorenzo Merlo ed io risalimmo dall’Alp de la Val d’Arbola fino al circo di Cressim. Avevamo dormito lì in quattro, c’erano anche Angelo Recalcati e Nella, incaricati di scendere con calma al mattino per poi, lasciata l’auto a Cama, risalire al Lago di Cama per portare su due tendine e aspettarci. L’obiettivo mio e di Lorenzo era la salita della bella parete nord (210 metri) del Pizzo Roggione 2576 m (chiamato anche Pizzo di Cressim).

Un poco accennato spigolo divide in due parti questa bella parete a placche. Si distingue bene il settore destro per l’uniforme verticalità e il suo accentuato colore verdastro. La via si sarebbe svolta dapprima sul filo di spigolo, poi appena a sinistra, poi ancora sul filo. Prevedevamo una bella arrampicata con difficoltà continue su gneiss assai compatto e liscio.

Lorenzo Merlo scende verso il Lago di Cama dopo la prima ascensione di Raggio Verde al Pizzo Roggione, 5 ottobre 1986.
Il Pizzo Paglia (a destra e dietro) e il Piz Martel. In primo piano è il Pilastro Nord-est, via degli Svizzeri. A destra è un più lungo e frastagliato contrafforte nord-nord-ovest, ricco di possibilità future sui vari torrioni ma in se stesso molto più appariscente di quanto davvero sia.
Alessandro Gogna sulla via degli Svizzeri al Piz Martel, 6 ottobre 1986.

Impiegammo 2h45’ per arrivare all’attacco, in corrispondenza di una piccola morena, a 2365 m. Non c’era un’evidentissima linea di salita: salimmo sul vago spigolo per placche, poi per una fessurina e per i gradoni della faccia destra di un diedro posto a destra di alcuni tetti rossi. 45 m, V e V+, S1. Seguivano una placca compattissima (VI+), poi un diedro obliquo a destra fino ad una cengia erbosa (V+, V–). 30 m, S2. Qui, leggermente a sinistra del filo di spigolo, salimmo una fessura, dove lasciammo un chiodo: e quando questa diventava diedro, traversammo qualche metro per salire sulla sua faccia sinistra su placca seguendo un’esile fessurina. Tornammo poi gradualmente a destra e seguimmo una fessura (altro chiodo lasciato) fino a una cengetta. 35 m, VI, A2, VI, S3. Continuammo, obliquando prima a sinistra e poi a destra, fino ad una cengetta qualche metro a sinistra del filo di spigolo. 20 m, V–, VI, V–, S4. Proseguimmo mirando a quello di destra di due diedri paralleli, che salimmo uscendone a sinistra fino alla prima sosta possibile. 20 m, V, A1, VI, S5. Grandi strapiombi biancastri ci costrinsero a tornare a destra sulla linea di salita, salendo una fessura-diedro strapiombante (VI, 1 nut lasciato) fino a che alcune placche ci portarono ancora a destra verso il filo di spigolo (VI e V). Per altra placca (V+) raggiungemmo a sinistra la S6, 30 m. Ormai avevamo in pugno la parete: per una fessura (V–) salimmo ad alcune cengette erbose oltre le quali una cornice ci permise di obliquare a sinistra fino ad un terrazzino alla base di un canale obliquo a destra. 50 m, dal III al V–, S7. Poi per il filo dello sperone fino alla vetta (V, poi IV e III). 45 m, S8. Ci fu qualche incertezza a volte su quale direzione prendere, ma alla fine crediamo di aver salito l’itinerario più logico (che però si era rivelato estremo, con l’uso di 19 chiodi, 5 friend e 7 nut). Il raggio verde fu il nome che demmo al nostro itinerario, dovuto alla particolare colorazione della roccia e al film appena uscito di Éric Rohmer.

Lorenzo Merlo (in primo piano) e Angelo Recalcati all’uscita in vetta al Piz Martel dopo la salita della Via degli Svizzeri, 6 ottobre 1986.

La discesa nel tripudio ottobrino fu un grande piacere, trovando facilmente come raggiungere il Lago di Cama, dove ci aspettavano Nella e Angelo.

Dopo una notte allietata da una cena luculliana, il 6 ottobre partimmo tutti e quattro molto presto per andare a ripetere la via degli Svizzeri al Piz Martel: il pilastro nord-est di questa montagna rimane oggettivamente la via più bella, ed era stato salito da Peter e Werner Gatzsch, il 20 giugno 1971. La via si rivelò bellissima, molto sostenuta fino in vetta al Pilastro: in seguito l’arrampicata, pur offrendo ancora spunti interessanti, diminuisce di livello. La sua apertura rappresentò, relativamente a questa regione e sia pur con l’uso di tecnica di artificiale, la prima impresa di grande respiro a questo livello di difficoltà, con un dislivello di 350 m ma con uno sviluppo assai maggiore e con difficoltà ED (VI obbligatorio, ma anche passi di VII per un’arrampicata totalmente in libera). La via, che contava già varie ripetizioni, era sufficientemente attrezzata.

Alessandro Gogna in vetta al Piz Martel dopo la salita della Via degli Svizzeri, 6 ottobre 1986.
Angelo Recalcati (a sinistra) e Lorenzo Merlo in vetta al Piz Martel dopo la salita della Via degli Svizzeri, 6 ottobre 1986.

Dopo ci fu un intermezzo alla Palestra di Soverzene (12 ottobre) con il bellunese Sandro Neri, simpaticissimo e conosciuto ad Arrampicarnia: arrampicammo sia sulla Parete dei falchi che sulla Parete della Centrale, ma non ricordo bene i nomi delle vie fatte, vagamente diedri vari, Sferica, Primati antropomorfi e Necrosi

Nelle lunghe peregrinazioni in Mesolcina non avevo mai risalito l’eterna Valle del Dosso (localmente chiamata anche Valle Magiam). Per andare al Passo dell’Orso e alla Cresta della Gratella quel 17 ottobre 1986 decisi di non passare dal “solito” rifugio Como, bensì dalla ancor più solitaria Alpe Magiam in Valle di Dosso. Questa, estesa da sud a nord, è aperta e idillica all’inizio, poi di severa e drammatica bellezza, poi quanto mai desolata e selvaggia nella parte superiore.

Da est-nord-est: 1=Pizzo Caurga; “=Piz Martel; 3=Pizzo Paglia; 4=Bocchetta di Agnon; 35b=Cresta dei Sette Nani; 33c=Via degli Svizzeri; 33d=Via degli Italiani; 33dd=Via dei Grigionesi.
Cima dell’Orso, parete est, Alessandro Gogna sulla 1a L della Candela della Solitudine, 1a ascensione, 18 ottobre 1986.

Partimmo da Caiasco 1000 m, passammo per Sciresa, annunciata da tre ciliegi, alla quale seguono le belle baite in pietra di Cucchetta 1100 m. Superato l’aperto poggio di Cascinotta 1093 m, entrammo nel tratto superiore più chiuso e selvaggio della Valle del Dosso, con ben visibile sullo sfondo la cresta Pizzo Martello-Pizzo Campanile. Rimanendo sempre sul fianco orientale della valle ci avvicinavamo al fondo, raggiungendolo poco oltre l’Alpe Porcile.

Traversato il torrente al Ponte di Madri 1185 m risalimmo sul fianco occidentale per un bosco di faggi, poco distanti dal tumultuoso corso del torrente. Superata anche la baita dell’Alpe di Madri 1293 m arrivammo agli scarsi ruderi dell’Alpe Predone 1428 m: qui terminava l’evidenza del sentiero, ma raggiungemmo ugualmente l’Alpe Magiam 1582 m con le sue piccole costruzioni protette da grossi massi rossastri, nostra meta per la notte. Notte che fu serena, eravamo lieti di essere da soli, noi due.

Cima dell’Orso, parete est, Alessandro Gogna sulla 1a L della Candela della Solitudine, 1a ascensione, 18 ottobre 1986.

La mattina dopo continuammo per il fianco orientale salendo a destra di un’evidente cascata su un salto roccioso bianco-marmo. Prendemmo a destra un dosso coperto da ontani, ginepri e rododendri che con fatica e scarse tracce ci portò a un alveo con fresche sorgenti, al suo margine a 1840 m c. Qui incontrammo una ben marcata traccia che saliva a destra, con anche alcuni tornanti, fino a incrociare i segnali dell’Alta Via del Làrio. Per questa continuammo quasi in piano a est fino a dei lastroni che difendevano l’accesso al Passo dell’Orso: che poi raggiungemmo con l’aiuto di alcune tacche artificiali scavate secoli fa.

La parete est della Cima dell’Orso era già stata salita da Vittorio Panzeri e Felice Galbiati il 27 giugno 1938; la via era stata ripetuta da Ivan Guerini e Daniele Faeti nel settembre 1980. La via è molto elegante e diretta e supera la parete per il diedro più evidente, con un dislivello di 90 metri e difficoltà dal IV al VI+. I primi salitori usarono 21 chiodi e ne lasciarono 4.

Cima dell’Orso (Cresta Gratella), parete est, Alessandro Gogna sulla 2a L della Candela della Solitudine, 1a ascensione, 18 ottobre 1986.

Avendo già la relazione di Guerini, con Nella scelsi una linea a sinistra della via Panzeri, con direttiva indicata da un caratteristico pilastrino appoggiato (che chiamammo la Candela) per proseguire poi su placche solcate da brevi fessure.

Era il 18 ottobre, erano circa le 10 di mattina con tempo bellissimo, e non esitammo, attaccando nel punto più basso della parete, a circa 2080 m.

Salimmo due diedrini successivi (III, IV, V+), poi la Candela per la fessura a destra (V, V+). 45 m. S1 in vetta alla Candela. Proseguimmo per il diedro seguente obliquo a sinistra (con breve deviazione a sinistra, VI+), per poi salire ancora un altro diedro (A1 e VI, oppure VII, 2 chiodi in posto). Giunti sotto ad uno spuntone con clessidra, obliquammo a sinistra (VI–, V–), 25 m, S2. Ritornammo poco a destra (V) e salimmo un altro diedro (VI, A0, oppure VII–, 1 chiodo in posto) uscendone a destra (VI), 20 m, S3. Per la parete sovrastante (III, IV, V) fino all’ultimo diedrino che ci portò in cresta (III+) sotto un gendarme, 40 m, S4. Alla fine, una salita di tre ore, con arrampicata elegante e consigliabile, con dislivello di 100 metri. La via sarebbe stata poi ripetuta l’anno dopo da Dino Pozzi e Cesare Corrado, che riuscirono in arrampicata libera pulita. In vetta ci abbracciammo, mormorando il nome di questa via: La Candela della Solitudine.

Ornella Antonioli in vetta alla Cima dell’Orso dopo la prima ascensione di Candela della Solitudine, 18 ottobre 1986.
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Primi della Classe alla Testa d’Asino ultima modifica: 2023-07-18T05:49:00+02:00 da GognaBlog

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7 pensieri su “Primi della Classe alla Testa d’Asino”

  1. ..e invece sì, Fabio, che siamo immortali e questi bellissimi racconti lo dimostrano.

  2. Che meraviglia il sentimento di sentirsi provvisorio in virtù di uno zaino. Io, quando lo sento sulle spalle, mi sento libera e protetta al tempo stesso.

  3. “J’ai l’impression que l’année 1986 a été une belle année, Alessandro!”
     
    “Cognac, imbottigliato nel 1783…  Il 1783 fu un anno indimenticabile: Mozart scrisse la sua Messa, i fratelli Montgolfier fecero la loro prima ascensione aerostatica e l’Inghilterra riconobbe l’indipendenza degli Stati Uniti” (Highlander. L’ultimo immortale).
     
    Anche il 1986 fu un anno indimenticabile. Però Alessandro – e noi con lui – non è come Connor MacLeod, e da allora sono passati trentasette anni.
     
    P.S. Il film uscí proprio nel 1986.

  4. J’ai l’impression que l’année 1986 a été une belle année, Alessandro !
    J’en aime les récits.

  5. Quanti di voi compilano tabelle con ogni tiro di corda della propria vita?

    L’ho fatto in gioventù, fino al 1992, e anche su semplici escursioni o pellate.
    Ora me ne frego, vado in montagna per il piacere di andarci e non riporto più nulla. Anche se poi mi espone a figure barbine. Qualche anno fa stressai all’inverosimile uno dei miei compagni per andare a fare una via che volevo assolutamente salire. Solo che alla fine del primo tiro mi accorsi che l’avevo già salita qualche anno prima…

  6. Sono d’accordo Marcello, letture belle e scorrevoli.
    In quanto alle tabelle… non ho mai scritto nulla su quello che ho fatto nella mia vita, e a volte me ne rammarico!

  7. Questi racconti se fossero scritti da altri sarebbero noiosi, ma scritti da Gogna diventano piacevoli amarcord che scorrono veloci.
    Le tabelle poi…sempre odiate, ma interessanti.
     
    Quanti di voi compilano tabelle con ogni tiro di corda della propria vita?

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